Capitale simbolico della città, monopolio e nuove lotte

di David Harvei, Città Ribelli

 

Per quanto risibile possa apparire un simile giudizio, se si riflette su come l’Europa tenti di ridisegnare se  stessa seguendo standard disneyani – e non soltanto a beneficio dei turisti americani – a emergere è un quadro davvero preoccupante. Tuttavia, e qui sta il cuore della contraddizione, più l’Europa si disneyfica, meno resta unica e speciale. La vacua omogeneità che si accompagna alla mercificazione cancella i vantaggi del monopolio, e i
prodotti culturali non diventano poi tanto diversi dalle merci in generale. Ma perché mai, in un mondo sorretto da principi neoliberali in cui si presume che domini la concorrenza di mercato, dovrebbe essere tollerata e addirittura considerata desiderabile una qualsiasi forma di monopolio? Incontriamo qui una seconda contraddizione che, alla radice, si rivela
l’immagine speculare della prima. La concorrenza, come osservò molti anni fa Marx, tende sempre verso il monopolio o l’oligopolio semplicemente perché nella guerra di tutti contro tutti la sopravvivenza delle imprese più forti taglia fuori quelle più deboli. Più agguerrita è la concorrenza, più rapida è la tendenza verso l’oligopolio se non il monopolio. Non è quindi un caso che la liberalizzazione dei mercati e la celebrazione della concorrenza
negli ultimi anni abbiano prodotto un’incredibile centralizzazione del capitale (Microsoft, Rupert Murdoch, Bertelsmann, i servizi finanziari, e un’ondata di acquisizioni, fusioni e unioni di compagnie aeree, di catene di distribuzione o anche in settori più tradizionali come l’automobilistico.

Se è vero che la capacità di conquistare rendite di monopolio si fonda su rivendicazioni di unicità, autenticità, particolarità e specificità, esiste un terreno più adatto per questo tipo di rivendicazioni di quello costituito da prodotti e pratiche culturali fondati sulla storia o su particolari caratteristiche ambientali (a partire ovviamente dall’ambiente sociale e culturale costruito)?

Il capitale simbolico collettivo legato a nomi e luoghi come Parigi, Atene, New York, Rio de Janeiro, Berlino o Roma è di notevole importanza e garantisce enormi vantaggi economici rispetto, per dire, a Baltimora, Liverpool, Essen, Lille o Glasgow. Tutte queste città dovranno pertanto incrementare il proprio quoziente di capitale simbolico e far crescere i loro segni distintivi, rafforzando così quelle rivendicazioni di unicità che sono in grado di produrre forme di rendita di monopolio. Il «marchio» di una città diventa allora un grande business.

L’ascesa di Barcellona nel sistema europeo delle città, per fare un altro esempio, si è in parte fondata sul costante accumulo di capitale simbolico e di segni distintivi. In questo caso, infatti, quasi tutto si è giocato sulla riscoperta di una storia e una tradizione specificamente catalane, sul marketing di una specifica produzione artistica e del notevole patrimonio architettonico urbano (Gaudí su tutti) e sui segni distintivi costituiti dallo
stile di vita e dalla tradizione letteraria, sostenuti da un’infinità di libri, mostre e manifestazioni culturali che celebravano il carattere unico della città. Il tutto esibito con i nuovi ornamenti realizzati dalle grandi firme dell’architettura globale (la torre delle telecomunicazioni di Norman Foster sul Tibidabo, il candido e abbagliante museo di arte contemporanea di Meier nel tessuto un po’ délabré della città vecchia) e con una serie di
investimenti per riaprire il porto e la spiaggia, recuperare terreni abbandonati per il Villaggio olimpico (con ammiccamenti all’utopismo icariano) e trasformare una vita notturna in precedenza piuttosto torbida e pericolosa nel palcoscenico ideale dello spettacolo urbano. L’operazione è stata decisamente aiutata dai Giochi olimpici, che hanno rappresentato una nuova enorme opportunità per la costituzione di rendite monopolistiche
(non a caso Samaranch, presidente del Comitato olimpico internazionale, sembra aver accumulato notevoli interessi immobiliari a Barcellona).

I successivi interventi di sviluppo sul waterfornt hanno finito per rendere il lungomare pressoché identico a quello di ogni altra città marittima occidentale: la straordinaria congestione del traffico porta con sé pressioni sempre più forti per aprire arterie di scorrimento dentro la città vecchia, catene multinazionali sostituiscono i piccoli negozi locali, la gentrificazione rimuove popolazioni residenti da tempo e fa a pezzi il vecchio tessuto urbano. Così Barcellona perde alcuni dei suoi segni distintivi e ne assume altri, fin troppo evidenti, di disneyficazione.
Questa contraddizione è accompagnata da tutta una serie di questioni aperte e di forme di resistenza. Che tipo di memoria collettiva si celebra così? Quella degli anarchici e degli icariani, che hanno giocato un ruolo tanto importante nella storia della città? Quella dei repubblicani che hanno strenuamente combattuto contro Franco? Quella dei nazionalisti catalani, degli immigrati andalusi? O quella di un alleato di vecchia data di Franco
come Samaranch? Qual è l’estetica che conta davvero? Quella di architetti catalani notoriamente potenti come Bohigas? Perché accettare ogni tipo di disneyficazione? Questioni come queste sono tanto difficili da risolvere proprio perché è evidente a tutti che il capitale simbolico collettivo accumulato da Barcellona si fonda su determinati valori di autenticità e unicità, su qualità particolari e non replicabili. E si tratta di segni distintivi
locali che è davvero difficile accumulare senza chiamare in causa il rafforzamento dei poteri locali, anche di movimenti popolari e di opposizione. A questo punto, però, i custodi del capitale simbolico e culturale collettivo – i musei, le università, la classe di benefattori privati e l’apparato statale – chiudono ovviamente la porta e di norma lasciano fuori
la «feccia» (sebbene il Museo d’arte contemporanea, a differenza della maggior parte delle istituzioni del genere, sia rimasto sorprendentemente e costruttivamente aperto alla sensibilità popolare). Se poi la cosa non funziona, allora lo stato può intervenire con qualsiasi mezzo, dal «comitato per il decoro» istituito dal sindaco Giuliani per monitorare l’estetica di New York alla vera e propria repressione di polizia. Eppure la posta in palio è
molto significativa. Si tratta di determinare quali segmenti della popolazione beneficeranno maggiormente del capitale simbolico collettivo che tutti gli abitanti, ognuno a modo suo, nel presente come nel passato, hanno contribuito a costruire. Perché lasciare che la rendita di monopolio legata al capitale simbolico finisca esclusivamente nelle mani delle
multinazionali o di un ristretto e potente segmento della borghesia locale? Persino Singapore, che nel corso degli anni ha saputo creare e accumulare con accanimento e successo notevoli rendite di monopolio (sfruttando soprattutto il vantaggio legato al luogo e alla posizione), ha fatto in modo che i benefici di tali rendite fossero ampiamente ridistribuiti attraverso politiche sulla salute, gli alloggi e l’istruzione.

Come dimostra la storia recente di Barcellona, l’industria della tradizione e della conoscenza, la vitalità e il fermento della produzione culturale, l’architettura delle grandi firme e la promozione di specifici gusti estetici sono diventati i nuclei attorno a cui si organizza l’imprenditorialità urbana in molte città, soprattutto europee. La lotta riguarda quindi l’accumulazione di segni distintivi e di capitale simbolico collettivo in un
mondo sempre più competitivo. Ciò, a sua volta, si porta dietro tutta una serie di questioni aperte e di specifiche localizzazioni, che riguardano quale particolare memoria collettiva, quale estetica, quali vantaggi vengano privilegiati e a favore di chi. A Barcellona, i movimenti di quartiere reclamano maggiore riconoscimento e più potere in termini di capitale simbolico, e come risultato possono far valere una presenza politica attiva
sulla scena urbana. In gioco, infatti, sono i loro commons urbani, sistematicamente espropriati dal capitale immobiliare e dal mercato del turismo. La natura selettiva di tali espropri può però aprire nuovi ulteriori percorsi di lotta.

 

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