MARIO TRONTI E LA RIVISTA “CONTROPIANO” (III)

Quello che segue è il terzo e ultimo saggio (il primo e il secondo sono consultabili sulla nostra rivista qui e qui) di Mario Tronti pubblicato nel 1968 sulla rivista Contropiano diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari e fondata proprio in quell’anno. Tronti vi pubblica solo tre articoli, ritagliandosi, probabilmente per scelta, un ruolo più defilato rispetto a Classe Operaia e Quaderni Rossi.

I tre articoli, Estremismo e riformismo (CONTROPIANO, N. 1/1968, pag. 41-58),  Il partito come problema (CONTROPIANO n.2/1968, pag. 297-317) e Internazionalismo vecchio e nuovo (CONTROPIANO, N. 3/1968, pag. 505-526) rappresentano una lunga e attenta disamina su alcuni concetti quali l’organizzazione, la teoria del partito, la funzione del sindacato e il ruolo del movimento, soprattutto quello studentesco. In calce al primo articolo lo stesso autore scrive: Questo discorso avrà un seguito, probabilmente in due parti: una dedicata a quella che si dice la teoria del partito, con annesso il problema del sindacato, oggi; l’altra dedicata a quella che si dice la strategia internazionale della lotta di classe, compreso il momento mondiale odierno del movimento operaio. Necessariamente i testi proposti risentono del periodo storico e politico nel quale sono stati prodotti ma ancora oggi, in essi, si possono individuare elementi di assoluta attualità che ci hanno spinto alla pubblicazione sulla nostra rivista.

Quello che segue, Internazionalismo vecchio e nuovo, è l’ultimo dei tre contributi.

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INTERNAZIONALISMO VECCHIO E NUOVO

A che punto è la congiuntura internazionale della lotta di classe? Il punto di svolta inferiore del ciclo è già passato o è ancora di là da venire? Salgono i toni acuti dello scontro, o cade la tensione e si va verso nuovi equilibri? Come gli economisti del capitale vorrebbero guardare da vicino e controllare il meccanismo di funzionamento del loro sistema ormai a livello mondiale, così i politici di parte operaia devono seguire e precedere i movimenti di lotta degli operai ormai quasi soltanto sul terreno internazionale. Se il mercato mondiale appare ancora un sogno irrealizzato del capitale, l’internazionale operaia assolve ancora alla funzione di utopia rivoluzionaria. Cosmopolitismo e internazionalismo, le due definizioni delle due classi in lotta, rimangono idee-guida per l’azione, obiettivi-limite per la loro esistenza storica, mete finali mai raggiunte e proprio per questo sempre di nuovo programmate. Ma rispetto agli ultimi anni, oggi un fatto nuovo interviene a modificare la collocazione, diciamo così, geografica di queste istanze strategiche. Mercato mondiale da una parte, internazionale operaia dall’altra, non coincidono più con la divisione del mondo in blocchi contrapposti. La geografia politica, di classe, è in piena crisi. Gli Stati Uniti, se rimangono il cuore pulsante di tutto il sistema capitalistico, non sono certo oggi il cervello del capitale: il punto della massima coscienza strategica è facile dire che adesso non sta alla Casa Bianca. L’Unione Sovietica, se continua a rappresentare l’ideologia socialista di fronte all’opinione pubblica generica, non rappresenta certo più il punto di vista di classe per gli operai di tutto il mondo: la Piazza Rossa, per le forze rivoluzionarie della società moderna, è un faro spento. Il mutamento è importante. E il senso di questo mutamento è positivo. I due massimi sistemi non stanno più al posto delle due classi in lotta. Non più stati al posto delle classi. Quella che sembra oggi una crisi del concetto di classe, è crisi dello stato, crisi del momento di direzione politica della lotta di classe, crisi dell’organizzazione di classe ai due livelli, del capitale e degli operai, momento transitorio di ristrutturazione del ceto politico borghese e del partito operaio. Non appaiono all’orizzonte soluzioni soddisfacenti. Sale dunque lo scontro, e cresce la tensione, e si va verso nuovi squilibri. A questo punto una ricomposizione strategica del movimento operaio a livello internazionale si impone come una necessità storica, una forma di iniziativa anticipatrice che precede la mossa dell’avversario e la fa nascere, per così dire, già morta. Ma per questo i vecchi miti devono prima crollare, le visioni ideologiche, i rituali magici, tutti i credo quia absurdum di cui è lastricata fin qui la via della rivoluzione, devono prima scomparire, le stesse vecchie parole vanno abbandonate, il linguaggio del socialismo non regge più alla prova dei tempi, tutto questo formulario infantile per classi sociali ritardate va spazzato via e nuove realistiche definizioni delle situazioni di fatto, nuovi metri di misura delle forze in campo devono prendere il posto degli antichi discorsi, degli antichi appelli alla mobilitazione di tutti per la lotta su niente. Il periodo in corso è per suo conto ricco di una storia oscura, quella che dovrà portare le istanze strategiche delle due classi a riprendere il loro proprio vero volto: la crisi dell’imperialismo porterà il capitale a riscoprire se stesso come mercato mondiale; la crisi del socialismo porterà gli operai a riprendere la parola d’ordine dell’internazionale come forma più adatta di organizzazione delle loro lotte particolari. Due sono allora i gradi di elaborazione della prospettiva pratica: uno immediato e pre-strategico, che vale per l’oggi, quando è in corso il processo della crisi e non si intravedono soluzioni; e uno di lungo periodo e post-tattico, per quando la forma delle classi si sarà ricomposta, in modi moderni, secondo il senso della loro natura storica.

Noi diciamo che è oggi in crisi l’iniziativa politica del capitale: un tipo particolare quindi di crisi politica, la cui ragione di fondo è data dall’assenza di una esplicita strategia internazionale. Gli Stati Uniti cercano una via, ma non sembrano sul punto di trovarla. L’Unione Sovietica non sembra nemmeno cercare. Dopo Kennedy il capitale non ha più trovato un livello di coscienza adeguato sul problema mondiale. È il problema mondiale che oggi sfugge alla comprensione e all’azione soggettiva del capitale. Il sistema è solido e bisogna dire che ha trovato recentemente nuovi solidi punti di autoregolazione. La macchina economica funziona. Non è il caso di aspettarsi su questo terreno né contraddizioni esplosive, né crolli catastrofici. Queste cose non sono sparite. Queste cose torneranno. Il concetto di crisi ciclica del capitale è una realtà ancora oggi viva e operante. Quello che ogni volta bisogna capire è il mutamento nella forma della crisi. Il carattere della crisi di oggi è direttamente politico, di politica formale, di politica istituzionale. Non funzionano bene i meccanismi del potere. Il controllo capitalistico sulla società risulta molto difettoso nello stesso suo funzionamento tecnico. Nei punti più avanzati del capitale, la mancata soluzione di contraddizioni secondarie non sembra più derivare da impossibilità materiali, da scarsità delle risorse in senso economico, come pure è stato in altri momenti; deriva piuttosto da un mancato uso moderno, nuovo, delle risorse disponibili, che è poi tutt’uno con la mancanza di un’iniziativa politica aggiornata, strategicamente avanzata. Politicamente, cioè nel suo ceto politico, il capitale non si è ancora riavuto dall’attacco di «pessimismo economico» che lo ha colpito all’inizio degli anni trenta: anzi, questo «pessimismo dei reazionari», come lo ha chiamato uno di loro, lord Keynes, sta diventando la malattia mortale del capitalismo.

La rigidità del ciclo sembra essersi concentrata a livello degli strumenti di potere. Sopra una società che deve e vuole muoversi in forme articolate e pluralistiche sta lo stato di sempre, immobile, burocratico e accentratore. In quest’anno di fuoco, da Parigi a Praga, da una parte le masse che sperimentano nuove vie di mobilitazione alternativa, dall’altra vecchi pezzi di repressione, che ripetono se stessi, da decenni, da secoli. E d’altra parte dall’Inghilterra all’Italia, con la socialdemocrazia al potere, la gestione passiva del capitale risulta insufficiente ad assicurare la stabilità politica in presenza di una classe operaia altamente sviluppata, che sa lottare su obiettivi
avanzati. Si possono tirare le fila di questi fatti sotto una definizione unica di crisi internazionale dell’iniziativa capitalistica, che parte dal centro dei massimi sistemi e arriva fino alla periferia del mondo. Certo se andiamo a vedere le origini di questa crisi, ritroviamo di nuovo il movimento delle categorie economiche, dove i livelli di classe e il terreno della lotta di classe tra operai e capitale. Dopo il botta e risposta degli anni trenta – rivoluzione capitalistica dei redditi da un lato, lotta operaia sul salario dall’altro – non c’è stato molto di nuovo. È continuata, in questi decenni, la lunga marcia degli operai in occidente che tende alla riduzione a salario di tutte le rivendicazioni non tanto sindacali quanto politiche, e quindi tende al limite a ridurre a richiesta salariale lo stesso rifiuto del sistema capitalistico. Per l’operaio di oggi, correttamente, l’orario, i tempi, i cottimi, i premi sono salario, le pensioni sono salario, lo stesso potere in fabbrica è salario, in quanto deve solo garantire migliori condizioni di lotta sul salario. Il pessimismo economico è patrimonio oggi soprattutto dei politici, che accusano la scienza economica di non assicurare al capitale il controllo del costo del lavoro. È di qui che nasce il mancato controllo politico sulle molteplici e contraddittorie istanze sociali, e quindi quella che si dice la crisi di potere. L’errore del capitale è di cercare soluzioni tecniche a questo che è un problema politico. L’econometrica non serve a risolvere i problemi che non ha risolto l’economia politica. La vera alta matematica capitalistica è la scienza dei rapporti sociali internazionali. Su questo terreno deve cimentarsi la capacità del capitale moderno di svilupparsi per sopravvivere, ovvero di sopravvivere sviluppandosi. Ma abbiamo visto che proprio la politica internazionale, il problema mondiale, è l’elemento odierno di drammatica debolezza del capitale. È forse qui, in questa necessità impossibile del mercato mondiale, che troverà la sua condanna storica il sistema della produzione capitalistica?

C’è stato recentemente un momento di alta coscienza del capitale sui suoi compiti strategici: coesistenza pacifica all’esterno più nuova economia all’interno danno insieme come somma appunto l’esperimento kennediano. Roosevelt cominciava già ad essere un modello in qualche punto largamente superato. Riprendeva corpo quel tipo di iniziativa politica aggiornata, moderna, che inevitabilmente portava con sé un salire di qualità del terreno dello scontro di classe. E la classe operaia, con la nuova gerarchia delle sue rivendicazioni, con forme nuove di lotta, con tutto il suo nuovo universo di comportamento sociale, già si apprestava a collocarsi al nuovo livello, quando l’intero processo è stato bruscamente interrotto. L’interruzione di questo processo, il modo brusco con cui si è rapidamente tornati indietro, entro i confini delle vecchie frontiere, dopo che erano state intraviste quelle nuove, – è questa forse la causa fondamentale delle tensioni sociali odierne ed è il motivo per cui all’interno dei singoli paesi esse assumono caratteri comuni a livello internazionale. I caratteri comuni tutti si raccolgono intorno al fatto dell’aggressione al livello formale del potere, al terreno istituzionale dello stato: aggressione che coinvolge forze sociali eterogenee e assume o riassume in proprio l’arma della violenza. Oggi possiamo dire che la prolungata assenza di una iniziativa politica moderna del capitale a livello mondiale ha prodotto una radicalizzazione della lotta politica in generale. Il Vietnam è il punto che ha tenuto nella rete del movimento operaio internazionale. La rivoluzione culturale cinese è stato il momento che ha rilanciato un certo tipo di iniziativa rivoluzionaria di base e di massa. Questi due fatti, l’uno di resistenza, l’altro di ripresa aggressiva, vanno pienamente valutati in questo quadro. Si poteva temere per il loro livello di arretratezza politica che faceva difficoltà al collegamento con le lotte operaie più avanzate. I canali del movimento operaio ufficiale erano chiusi. Una forza capace di mediare soggettivamente, nell’elaborazione e nell’organizzazione, gradi diversi, cioè diversi livelli di qualità, dello scontro di classe, non esisteva e non esiste. Il movimento comunista internazionale ha da tempo rinunciato ad assolvere a questa funzione. E in questa situazione, di debolezza politica dal punto di vista strategico delle due classi in lotta, ecco che fanno la loro comparsa nuovi canali di comunicazione, si scoprono passaggi incautamente lasciati aperti dal ceto politico dominante; forze non di classe eppure alternative all’attuale sistema di vita se non all’attuale sistema di produzione entrano in gioco e anche esse lottano in forme nuove; una crisi investe l’assetto formale della società civile, anche se non arriva ad aggredire la sostanza, cioè le radici, del potere. La classe operaia non sta a guardare: lotta per il proprio stretto interesse e in questa lotta utilizza tutte le contraddizioni secondarie che trova nel campo dell’avversario; ma nello stesso tempo sa per esperienza storica che non si possono porre rivendicazioni di potere globale se non quando la crisi inceppa la macchina economica del capitale e quando un’altra macchina, quella dell’organizzazione soggettiva di parte operaia, e pronta non per sostituirla ma per distruggerla. Crisi politica capitalistica pur in assenza di un’organizzazione politica operaia: questa è la situazione di oggi. Il livello internazionale è appunto il terreno di questa duplice crisi, dello stato borghese e del partito operaio. All’interno di ogni singolo paese operai e capitale si fronteggiano con pari forza e altrettanta violenza: botta e risposta tra iniziativa capitalistica e lotta operaia. Ma sullo scacchiere mondiale l’iniziativa del capitale è attardata e confusa, la lotta degli operai è disorganizzata e, diciamo pure, arretrata. Quella delle due parti che conquisterà per prima il respiro internazionale dell’iniziativa o della lotta metterà un’ipoteca strategica sulla vittoria finale.

Il ciclo moderno, o meglio contemporaneo, della lotta tra operai e capitale vede dapprima l’iniziativa operaia sul salario, poi una risposta capitalistica tipo politica dei redditi, quindi, su questa base, la crescita unificata, massificata, della classe operaia. Nelle strutture propriamente capitalistiche, cioè all’interno dei singoli paesi a capitalismo sviluppato, questo ciclo si presenta in forma classica e pura. A livello mondiale esso appare invece ancora avvolto in una serie di mistificazioni ideologiche da cui bisogna liberarlo teoricamente, anche se queste mistificazioni hanno una corposa origine reale e di fatto, conseguenza di un arretrato terreno economico di unificazione e di un basso grado di intensità politica del capitale internazionale. Quello che fa difetto nel ciclo della lotta di classe a livello internazionale è soprattutto il secondo momento. La risposta capitalistica è divisa. Non bisogna imputare tutte le difficoltà di fronte a cui si trovano le lotte degli operai alla mancata loro organizzazione soggettiva. Questa stessa mancante organizzazione di parte operaia è un fenomeno che consegue all’arretratezza politica del capitale e in parte la riflette. Se è vero che le scelte economiche capitalistiche vengono spesso imposte dal precedente livello delle lotte operaie, perché è in queste lotte la molla dello sviluppo per il capitale, – è anche vero che la qualità dell’organizzazione operaia viene spesso imposta dal tipo di iniziativa capitalistica in quel momento vincente, perché è nelle mani del capitale sempre il controllo del potere politico e la proprietà del potere statale. Di qui un principio pratico da tenere sempre strategicamente presente e al tempo stesso uno di quei paradossi storici su cui vive la società moderna: la potenza politica per eccellenza, la classe operaia, si trova ad avere nelle sue mani il destino di sviluppo o di crisi della macchina economica; la forza economica in quanto tale, il capitale, si trova ad essere padrona di tutto intero il terreno politico, organo sovrano nella questione del potere. Per questo la classe operaia sembra debole oggi, mentre ha una tremenda forza in prospettiva. E il capitale sembra forte sempre, anche quando dietro le quinte la sua stabilità vacilla.

Quando ci siamo chiesti perché il capitale vince, la risposta è stata: perché il rapporto grande industria-potere pubblico è più forte del rapporto classe-partito, cioè il nesso politica-economia in quanto blocco di potere reale funziona oggi meglio a livello capitalistico che a livello operaio. Bisogna dire che questo tipo di definizione del problema non vale sul terreno internazionale. Se qui la risposta del capitale è divisa non è per la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Questa divisione in blocchi, per quel tanto che è reale, è una cosa vecchia quanto la storia del mondo: mascherata di falsi valori, copre uno scontro o tra diversi orizzonti ideologici o tra diversi interessi di potenza. No, la risposta capitalistica è divisa sul terreno internazionale perché manca qui l’unità politica del capitale, sia pure tendenziale, sia pure di prospettiva, quell’unità verticale tra stato e società, non più nazione per nazione, o per gruppi di nazioni, ma sul mercato mondiale. Questo stesso ultimo obiettivo e ritardato e continuamente ricacciato nell’utopia dalla mancata iniziativa politica del capitale internazionale. Così, mentre le grandi concentrazioni economiche lavorano e producono e pianificano nella dimensione futura del mercato mondiale, i piccoli governi della vecchia politica continuano a intrallazzare con le operazioni di cambio delle monete nazionali. Così gli Stati Uniti, dopo otto anni di sviluppo interno senza recessione, si trovano al punto più critico del loro rapporto con il resto del mondo. E l’Unione Sovietica, solido meccanismo di autoregolamentazione dei propri squilibri, si trova di fronte al dilemma: o riforme di struttura o crisi. Sul terreno internazionale, il capitale soffre dello stesso male di cui soffre la classe operaia nei paesi a capitalismo avanzato: non ha organizzazione politica, e quindi non ha strumenti mondiali di stabilizzazione del potere così come gli operai non hanno strumenti neppure nazionali di aggressione al potere. È una situazione di particolare importanza per gli sviluppi immediati della lotta. La stessa lotta di classe all’interno dei singoli paesi, o all’interno di un gruppo di paesi tipo quelli che abbiamo detto mitteleuropei, deve tenere conto e profittare di questo punto debole nello sviluppo odierno del capitale. Tenerne conto nel senso che deve rilevarlo con precisione, nella sua portata transitoria ma di un medio periodo. Profittarne nel senso che su questa base, durante questo periodo, deve rafforzarsi lo schieramento operaio, col mettere sul tappeto l’urgenza di una soluzione al problema dell’organizzazione. Diciamo dunque che l’attuale crisi strategica dell’iniziativa capitalistica, se è vero che non va vista come la vigilia di uno spontaneo crollo del sistema, è vero però che va utilizzata come un momento di forte lavoro soggettivo sul terreno del partito per organizzare l’alternativa operaia. Quando saranno tutte di nuovo presenti le premesse di una strategia mondiale del capitale, questa non deve allora poter passare a realizzarsi per l’ostacolo insormontabile di un blocco politico operaio, organizzato in alcuni punti chiave, cioè in alcuni precisi paesi che fanno da cerniera nell’articolazione della produzione e del mercato; internazionali. È interesse direttamente operaio rimettere in moto il momento della risposta capitalistica a livello mondiale, perché questo fa salire di grado la qualità delle lotte e avvicina il momento dello scontro frontale sul terreno decisivo. Ma è necessario agli operai anticipare la risposta mondiale del capitale mediante forme di propria organizzazione politica sovranazionale, nel senso di modelli che si ripetono sulla scala di più paesi a sviluppo tra loro similare. L’attuale momento di crisi dell’iniziativa capitalistica va utilizzata per avviare questo processo. Se l’esperimento kennediano fosse andato avanti nello stato di generale disorganizzazione politica del movimento operaio che lo accompagnava, gravissime conseguenze avremmo dovuto scontare sul piano della prossima lotta pratica: uomini e mezzi pronti a combattere a quel livello non c’erano da parte operaia. Uomini nuovi e nuovi strumenti di lotta vanno nascendo in questo periodo di battaglie di massa su un terreno più arretrato. Il momento è a noi favorevole. Ma non dobbiamo cadere nell’illusione di stare mettendo a terra l’avversario. Per questa via lo costringiamo solo a ricomporsi e presto a contrattaccare. Ripeto: uomini e mezzi devono salire di livello e accettare quindi la lotta sul terreno della storia ultima del capitale, quella del capitalismo maturo e cosciente di sé, democratico e riformista, quel capitalismo umanitario che oggi non si riesce a trovare solo perché si cerca sotto il falso nome di «socialismo dal volto umano».

La questione del socialismo si pone oggi in termini radicalmente diversi rispetto al passato. E porla negli stessi termini del passato, – questo è l’errore più grave e al tempo stesso più facile da commettere. Il socialismo è caduto come forma di società alternativa al capitalismo, è caduto come obiettivo rivoluzionario della lotta di classe operaia, è caduto come mito ideologico di organizzazione delle masse oppresse. Solo più qualche intellettuale ritardato, qualche onesto funzionario di partito, qualche prete operaio c’è rimasto a combattere per gli ideali del socialismo. Operai e giovani hanno escluso oggi questa prospettiva dalla loro lotta pratica: sono disponibili solo a singole battaglie contro il potere generate del capitale per loro rivendicazioni particolari. Il paese del socialismo, finché ha avuto bisogno di una difesa dall’esterno, è stato preso come occasione di lotta contro il nemico comune, il capitale internazionale; poi è stato abbandonato a sé stesso, alla propria potenza, alla propria politica di potenza. C’è però un altro errore, meno grave solo perché più difficile per parte nostra da commettere: quello di parificare i due massimi sistemi in una equidistante condanna, quello di unificarli nel concetto quando sono ancora di fatto divisi nella realtà. Di fronte a Stati Uniti e Unione Sovietica il punto di vista operaio deve assumere lo stesso atteggiamento che di fronte alla socialdemocrazia e al movimento comunista. Gli Stati Uniti sono, al punto più alto, la gestione direttamente capitalistica del capitale, rappresentanza politica dello sviluppo economico in quanto tale, potere di autogestione della produzione per il profitto. Il punto di vista operaio non ha che da contrapporsi a questo blocco di potere reale, ma organizzando la lotta all’interno del suo meccanismo di funzionamento. Questo lottare operaio dall’interno del capitale rimane il fatto strategico più ricco di conseguenze immediate. È possibile nel senso più pieno solo là dove il capitale non dà in appalto nessuna fetta di potere, mantiene tutto per sé il controllo dall’alto sui fattori della produzione e sui movimenti della società. La concessione economica che tiene in moto il meccanismo dello sviluppo sostituisce qui in ogni punto le forme ideologiche di partecipazione al potere politico dal basso verso l’alto. L’uso operaio del capitalismo classico punta allo sfruttamento della concessione economica fino ai limiti sopportabili dal sistema, con la minaccia di andare oltre; questi quando vuole ottenere di più subito. Là dove è diretta la gestione del potere da parte del capitale, la rivendicazione del potere operaio può porsi solo indirettamente, perché due poteri sul terreno politico non possono coesistere, e al massimo, e solo in periodo prerivoluzionario, si può dare un dualismo di poteri al vertice dello stato e alla base della società. Il capitale è più forte e sembra quasi imbattibile dovunque è riuscito a stringere in un blocco storico sviluppo e potere, queste istanze contraddittorie della società moderna, dovunque è riuscito a farne un’arma sola nelle proprie mani, escludendo dovunque dallo sviluppo il pericolo della crisi e dal potere il pericolo dell’insubordinazione. La società capitalistica guadagna in stabilità economica quello che perde in dinamica politica. Ma la stabilità non sempre coincide con lo sviluppo; spesso contraddice allo sviluppo. Di qui la necessità per il capitale di rimettere in moto la macchina economica premendo l’acceleratore della lotta politica. Scelta di nuovi indirizzi, aggiornamento dell’iniziativa a livello di classe, ristrutturazione dinamica del rapporto stato-società, sono tutte azioni di fatto a cui solo la classe operaia con la sua lotta può costringere il capitale. Questo rammodernamento coatto dell’iniziativa capitalistica ad opera della lotta operaia può avvenire oggi solo a livello mondiale. Come la crisi economica degli anni trenta fu preceduta da una cruenta lotta di classe e seguita da limpide scelte padronali di politica del lavoro all’interno di singoli stati, così l’attuale crisi politica, provocata da una concentrata ondata di rivendicazioni operaie, tutto lascia prevedere che si concluderà con un riassestamento del capitale sul terreno internazionale. Il rapporto di classe sarà rimesso in gioco non più entro i singoli paesi ma tra paesi, non più per classi nazionali, ma tra sistemi mondiali. Dobbiamo aspettarci o uno stallo della crisi sul medio periodo o un’iniziativa di riforma dell’attuale geografia politica del mondo. Abbiamo già detto qualcosa sull’ambiguità dell’interesse operaio riguardo a questa alternativa. Adesso c’è appunto da aggiungere che, nel caso di iniziativa riformatrice, non direttamente la classe operaia sarà l’oggetto di essa, ma per suo conto, in sua rappresentanza, l’oggetto sarà il mondo socialista. I capitalisti non sanno, e i migliori di loro fingono di non sapere, che lo stesso mondo socialista, Unione Sovietica in testa, soffre oggi contemporaneamente di due mali, la presenza della lotta operaia e la mancanza del suo sviluppo.

Unione Sovietica e movimento comunista internazionale fanno un solo e medesimo discorso, anzi sono un solo e medesimo fatto. Per ambedue l’atto di nascita fu un fatto talmente alternativo alla storia fin lì trascorsa del capitale da permettere loro di vivere di rendita rivoluzionaria fino quasi ai nostri giorni. Mentre il capitale, tra crisi e guerre, si apriva la strada verso una dimensione mondiale dei problemi che avrebbe dovuto portare al superamento dei vecchi interessi imperialistici di potenza, ecco che la comparsa del paese dei soviet spezza questo processo di sviluppo e propone problemi nuovi. Proprio mentre il capitale arrivava a programmare a livello mondiale la questione del suo sviluppo, dall’altra parte, da parte operaia, sul terreno internazionale, veniva riproposta la questione del potere. La rottura in un punto del sistema capitalistico mondiale si può dire dunque che ha ritardato lo sviluppo del capitale? Si può dire. E questa è la funzione reale che l’Unione Sovietica ha giocato nella lotta di classe internazionale. Quando infatti il ritardo viene imposto al capitale dall’insorgenza al suo interno di un potere operaio che lo blocca per un certo periodo nella sua crescita politica, cioè nell’aggiornamento della sua iniziativa politica, questo è non solo in sé un grosso fatto storico in quanto occasione di organizzazione di forze alternative, ma su questa base diventa modello ripetibile in altre situazioni e avendo davanti altri obiettivi. Oggi che questo ritardo è stato imposto da una rete di particolari lotte operaie generalizzatesi in tutto il contesto della forza-lavoro sociale, questo modello in questo solo senso torna d’attualità. Così dall’esistenza storica dell’Unione Sovietica dobbiamo prendere non la costruzione del socialismo in un paese solo, ma la rottura dell’equilibrio mondiale del capitalismo, quel lungo periodo ormai quasi concluso che ha visto questo pezzo di mondo sfuggire al controllo del capitale internazionale, e contrapporre al suo dominio fino ad allora incontrastato una nuova forma di dominio autonomo e alternative. È su questa base, poggiando su questo dato di forza reale, che il movimento comunista in alcuni paesi ha potuto crescere a potenza organizzata, in grado di riorganizzare il resto delle disperse forze rivoluzionarie. Di nuovo, non dobbiamo guardare al movimento comunista internazionale per quello che rappresenta oggi di organizzazione per la rivoluzione. No, dobbiamo guardarvi per quanto ha lasciato di valido nel tentativo di riportare su scala internazionale quella che era stata la rottura della catena capitalistica nel suo anello più debole. Correttamente il partito comunista nasce come Internazionale comunista. Non però in astratto come erano state e come saranno poi le internazionali dei socialisti e dei trotzkisti, ma partendo da un’esperienza rivoluzionaria concreta, realizzatasi di fatto, in un determinato paese. La cosa che ogni socialdemocratico rifiuta nell’esperienza comunista, questo internazionalismo di stampo sovietico, è nella natura storica stessa di quell’esperienza: non vi si può rinunciare senza mettersi fuori di essa, fuori delle sue grandi tradizioni di lotta. Il tentativo che fanno oggi i partiti comunisti dell’occidente di distanziarsi dall’Unione Sovietica è giusto e sacrosanto. Ma bisogna sapere che per questa via si arriverà molto lontano, senz’altro a cambiare nome e cognome al partito, e forse, se andrà bene, a rinnovare forme di lotta, contenuti organizzativi, strumenti tattici e obiettivi strategici.

Come il movimento comunista conta per la sua ricerca di una terza via tra le soluzioni organizzative estremiste e riformiste, così l’Unione Sovietica conta per il suo tentativo di superare con larga anticipazione storica l’alternativa che si sarebbe posta in seguito tra capitalismo classico e sottosviluppo. Una società industriale avanzata che nasce sulla base di un processo di accumulazione socialista, un’accumulazione cioè di capitale pubblico, non a caso imposta da un alto grado di violenza statale, questa è la grande iniziativa che fa capo a Stalin e che può ben stare a livello della grande iniziativa rooseveltiana degli anni trenta. Ambedue trovano la loro origine non remota nei moti operai del ’17-’20, ambedue elaborano una risposta insieme realistica e strategica, ambedue rilanciano un ciclo internazionale di nuove lotte operaie tra loro in modo incredibile oggettivamente complementari, sul salario, sulle condizioni di lavoro, sul potere. Gli Stati Uniti hanno esportato le nuove lotte operaie in tutta l’area di influenza americana, con le caratteristiche della rivendicazione economica gestita dal sindacato, in assenza di obiettivi politici portati dal partito. Dall’Unione Sovietica è venuta sempre l’istanza del potere: il tipo di lotta che è partito di lì è stato sempre formalmente politico, mobilitazione di massa su obiettivi non immediatamente di classe, ma ora popolari ora statuali. I paesi che offrono oggi il terreno più avanzato per la lotta di classe sono quelli dove si presentano ambedue questi filoni di lotta, economica e politica, di classe e di massa, contro il padrone e contro lo stato, i paesi dove salario e potere si incontrano non come armi dell’iniziativa capitalistica, ma come momenti di una sua crisi permanente, che dev’essere fatta servire alla riorganizzazione del partito operaio. Stiamo così parlando di nuovo dell’Italia e di tutti quei paesi, nel nostro senso privilegiati, dove sono venuti a diretto contatto grande capitale e movimento comunista, due fatti storici che in gran parte dei paesi e per lunghi periodi sono rimasti purtroppo divisi. Va esattamente rovesciata la vecchia tesi piagnona dell’Italia afflitta dal duplice male, del capitale e della sua arretratezza. In realtà l’Italia gode oggi del doppio vantaggio di un alto sviluppo della lotta operaia e di un vasto appoggio di massa ai contenuti e alle forme di questa lotta. Prende per così dire dai due massimi sistemi il momento della reciproca contrapposizione, da un lato il capitale come sistema di sviluppo indotto dalle lotte operaie, dall’altro il movimento comunista come forma di potere alternativo nell’interesse delle masse. Così in nessun paese come qui da noi conta la dimensione internazionale della lotta di classe, e la prospettiva di una ricomposizione strategica del movimento operaio a livello mondiale risulta qui una di quelle premesse senza le quali è impossibile portare a soluzione il problema che più ci sta a cuore, il problema del partito. E non è vero quanto si dice oggi, che le difficoltà maggiori per la lotta di classe starebbero nelle cittadelle del capitalismo.
Mentre qui, secondo le più proprie indicazioni marxiane, e in assenza di un’aggiornata iniziativa capitalistica, diventa di nuovo possibile rimettere in moto un meccanismo di crisi politica del sistema a partire da classiche contraddizioni economiche, di là, nei paesi a basso livello di sviluppo, a tal punto si è ingarbugliata la ricerca di una via rivoluzionaria, causa la confusione fatta da improvvisati guerriglieri-teorici su natura e funzione delle forze motrici, che difficilmente si ritroverà il bandolo dell’organizzazione senza un aiuto dal di fuori dell’area e dall’alto dello sviluppo. Sullo scacchiere mondiale quella che abbiamo chiamato la particolare forma politica della crisi del capitale oggi, ha avuto questa paradossale conseguenza: nei paesi del sottosviluppo, dove solo un’iniziativa capitalisticamente moderna avrebbe potuto far nascere un’organizzazione di forze veramente alternative, proprio l’improvviso venir meno di quella iniziativa ha disperso insieme al problema dell’organizzazione le forze stesse che dovevano costituirla; nei paesi a grande capitalismo invece, dove la lotta operaia poteva essere imbrigliata solo da uno scatto strategico del potere istituzionale, il mancato ammodernarsi del comportamento del capitale ha liberato l’azione di forze che già c’erano, le ha rimesse in movimento tutte quante, parzialmente collegandole fra loro. Così l’attuale crisi, o meglio la particolare sua caratteristica, noi diciamo che raccorcia e stringe i tempi di riorganizzazione di tutti i movimenti anticapitalistici e aggiunge invece altre tappe necessarie ai processi di rivolta così detta antimperialistica.

È tanto falsa la tesi sull’accerchiamento delle città quanto è vera la tesi opposta: solo la ripresa di una strategia di attacco alle più sviluppate strutture capitalistiche può dare senso tattico ai moti insurrezionali dei popoli oppressi, così come solo la lotta operaia può dare significato politico ai movimenti di contestazione delle istituzioni di potere. Quello che si tratta di vedere oggi e se i processi avvenuti dentro la classe operaia – modifica dei rapporti tra parti avanzate e parti arretrate, tra avanguardia e masse, nel senso di una tendenziale massificazione – si sono ripetuti o si possono ripetere nei rapporti tra operai dei paesi a grande capitalismo e forze in rivolta dei paesi sottosviluppati e strati sociali in crisi degli stessi paesi più sviluppati. Certo, anche qui la classe operaia, senza strumenti organizzativi di carattere politico, ha offerto il modello e così ha tirato tutto il processo delle rivolte anticoloniali, delle rivendicazioni antimperialistiche, dei tentativi di costruzione subito di uno stato sociale, e oggi di tutto quel complesso di lotta antistituzionale che rappresenta la malattia del giorno del capitale maturo a livello internazionale. Mai verrà abbastanza sottolineato il grande ruolo di punta, anticipatore e modellatore, che la classe operaia e soprattutto le sue lotte hanno giocato nel costruire l’attuale processo di accusa all’intera storia del capitale. La diffamazione dell’integrazione operaia nel sistema è quanto di peggio ha prodotto la tradizione del marxismo volgare: questo è il suo naturale punto d’approdo, qui si doveva arrivare poiché si era partiti dal generale, l’uomo, la società, lo stato, per arrivare al particolare, le classi e la lotta di classe. A queste ideologie della sconfitta, secondo le quali si integra chiunque vince una battaglia sul campo dell’avversario, va sostituito il grande principio pratico di pura marca operaia: chi ha ottenuto di più vuol dire che ha lottato meglio. È su questa base, sulla base della forza con cui gli operai sono in grado di strappare concessioni al nemico di classe, che va ricostruita la prospettiva di una internazionale delle lotte operaie come prezzo che il capitale deve pagare per avanzare sulla strada del mercato mondiale. Non importa se una prima fase dell’organizzazione prenderà la forma di internazionale sindacale: gli operai hanno imparato da tempo a far fare al sindacato il mestiere del partito. E non importa se l’etichetta di tutti i sindacati non sarà «di classe»: la FSM, così com’è, ha fatto il suo tempo e ci sembra buona la proposta CGIL di un processo al tempo stesso di organizzazione delle lotte e di unità sindacale che vada avanti per aree internamente omogenee. Primo obiettivo deve essere la continuità della lotta a livello internazionale, attraverso quell’altalena di articolazione e generalizzazione tra categorie, tra settori, tra aree geografiche, che il modello italiano degli ultimi anni ha così bene sperimentato. Certo processi nuovi di ricomposizione politica del movimento operaio sul terreno dell’organizzazione devono accompagnare, anzi a ben guardare non possono che seguire questo particolare sviluppo delle lotte. È inutile cercare già una soluzione internazionale al problema del partito. Sarebbe commettere lo stesso errore dei capitalisti, o meglio dei loro rappresentanti nei singoli governi, che per anni hanno inseguito la chimera dell’Europa politica, quando ancora il mercato europeo veniva lasciato lì come una realtà irrealizzata. Il partito nuovo della classe operaia deve nascere qui da noi avendo chiaro in testa: 1) il disegno di un determinato evolversi dell’iniziativa politica del capitale internazionale; 2) il progetto di spostare con la sua stessa esistenza e con le sue proprie azioni il rapporto di forza tra le classi in lotta su scala mondiale; 3) la previsione strategica del continuo ricambio di forze rivoluzionarie fresche che vengono dai paesi del sottosviluppo man mano che diventano secondo la dizione borghese «paesi in via di sviluppo»; 4) la fredda capacità tattica di utilizzare la presente divisione del mondo ai fini di una futura unità di classe.

Questi ultimi due punti, nella loro apparente oscurità, chiedono di essere spiegati. Noi viviamo nell’epoca che si può definire della maturità del capitale. È il capitale maturo che governa il mondo. E l’unicità del mondo sotto il governo del capitale giunto a uno stadio di vita piena e dispiegata, questo è il presupposto storico su cui occorre fondare fattuali ipotesi di lavoro politico. Governo non vuol dire ancora controllo. Maturità non è aver risolto una volta per tutte tutti i problemi. Che il capitale sia un fascio di contraddizioni, non è necessario spiegarlo qui. Ma che tra queste contraddizioni una sola vive per tutta la vita del capitale, mutando solo forma di esistenza, e tutte le altre continuamente cambiano, nel senso che muoiono le contraddizioni vecchie e nascono quelle nuove, tutto questo è ancora lontano dall’essere acquisito dalla coscienza soggettiva del punto di vista operaio. La scoperta della specificità della contraddizione che nel momento dato inchioda il capitale al dover governare e nello stesso tempo a non poter controllare il proprio sviluppo su scala mondiale, è appunto il compito della scienza operaia. L’uso pratico, nella lotta, di questa scoperta è appunto la funzione del partito operaio. L’errore è sempre quello di scambiare una contraddizione reale del capitale internazionale con un’alternativa ideologica al suo sistema di sviluppo. E quanto è avvenuto nel movimento operaio di fronte all’esistenza storica dell’Unione Sovietica. È chiaro che bisognava far sopravvivere il paese dei soviet, rompere il suo accerchiamento, rilanciarlo all’attacco delle strutture montanti del capitalismo classico con un nuovo esperimento insieme di gestione economica e di potere politico, tutto questo però non per alimentare tra le masse oppresse l’ideologia del socialismo realizzato, ma solo per far vivere il più a lungo possibile una contraddizione mondiale del capitale, in funzione della lotta di classe degli operai più avanzati. Correttamente la cinghia di trasmissione tra paese del socialismo e lotta di classe in occidente andava rovesciata, ma per far questo proprio dall’alto dell’Internazionale comunista doveva scendere la fredda definizione del socialismo in un paese solo come contraddizione del capitalismo mondiale, realtà dunque interna e contraddittoria al capitale, tanto più minacciosa quindi nei suoi confronti. Mentre la classe operaia, ammaestrata da sanguinose sconfitte, imparava il senso di una lotta contro il capitale condotta dall’interno del suo stesso sistema di produzione, di consumo e di scambio, il socialismo si contrapponeva dall’esterno al capitalismo con un atto di fede nei propri autonomi valori ideologici. Nasceva di lì quel divario di sviluppo, quel distacco storico tra socialismo e classe operaia che ha portato oggi a questa conclusione paradossale: gli operai sembrano integrati perché accettano di lottare dentro il capitale, in realtà minacciandolo di morte da pochi passi di distanza; il socialismo che ha voluto stabilire una lontananza astrale, per mezzo di blocchi e di sistemi, dal capitalismo, è sembrato fin qui l’unica alternativa valida, ma sempre più lo vediamo vittima di una logica ferrea che lo recupera entro le leggi classiche del capitale. Che oggi il socialismo realizzato, cioè l’Unione Sovietica con i suoi alleati, non rappresenti più neppure una contraddizione del capitale, – è fin troppo facile dirlo e facile dimostrarlo; che non sia neppure più tatticamente utilizzabile nell’ambito di una strategia di lotte operate -, questo l’hanno capito perfino i comunisti dell’occidente, quindi ormai lo possono capire tutti. Si pone oggi il problema: questo tipo di contraddizione non si è spostata e quindi rinnovata in un altro spazio geografico, cioè in un’altra esperienza altrettanto macroscopica e altrettanto isolata di costruzione del socialismo in un paese solo? In altre parole: la Cina di oggi non rappresenta quello che rappresentava l’Unione Sovietica di ieri? Non è essa la contraddizione nuova del capitale a livello mondiale? Di contraddizione nuova noi pensiamo che in questo caso non si possa parlare. Secondo questo modo di vedere la Cina rappresenta piuttosto il residuo di una vecchia contraddizione. Talmente corposo e materiale e al tempo stesso funzionante a livello soggettivo è stato il fatto storico dell’Unione Sovietica per decenni fuori dell’iniziativa e del controllo del capitale internazionale, che non poteva estinguersi sul medio periodo, doveva ripetersi e restaurarsi su altri terreni, magari con diverse forme di espressione. Siccome non ci interessa in questa sede il modello di costruzione di una società alternativa a quella del capitalismo, ma ci interessa il modo di funzionamento di queste esperienze sul terreno della lotta di classe internazionale, possiamo senz’altro dire che la Cina ripete una storia già vissuta, ovvero più precisamente fa rivivere una contraddizione morente del capitale e in questo gioca un ruolo complesso ancora tutto da chiarire, di ritardo dell’iniziativa capitalistica a livello mondiale ma anche di accelerazione del processo di ricomposizione unitaria tra i due massimi sistemi, USA e URSS, di accelerazione nei passaggi di sviluppo dei movimenti antimperialistici ma anche di ritardo nel cammino di riconquista di una strategia internazionale delle lotte operaie anticapitalistiche. II fatto che si tratti di un residuo di contraddizione storica aumenta la complessità del suo funzionamento politico. Il punto di vista operaio deve con cautela rilevare il dato della sua esistenza materiale, seguirne lo sviluppo e di già abbozzare un comportamento pratico in conseguenza. Certo dall’interno della presente faticosa fase di crescita della scienza operaia a tutti noi capita di sorridere alla lettura delle massime di Mao. Ma non bisogna reagire alla incomprensione che da quella parte viene nei confronti delle lotte di classe operaia, con una incomprensione di senso opposto nei confronti di tutte le lotte che di classe operaia non sono, e ciononostante sono lotte vere e proprie. Non c’è solo la specificità delle contraddizioni singole del capitale, c’è anche e forse in conseguenza la specificità dei singoli movimenti di lotta contro il capitale. Ognuno ha il suo ambito di azione, il suo modo di sviluppo, i suoi obiettivi e la sua particolare forma di organizzazione. Ma alla contraddizione fondamentale corrisponderà – deve corrispondere – il momento fondamentale della lotta. A questo assolutamente non si può rinunciare. Scegliere la classe operaia è un imperativo per qualsiasi tipo di rivoluzionario, in qualsiasi parte del mondo si trovi appunto a lottare. Scegliere la classe operaia è il modo pratico di azione di ogni militante nei movimenti di lotta contro il capitale, sia che abbia il nemico di fronte a sé, sia che lo combatta da lontano, nei suoi effetti indiretti. Scegliere la classe operaia è il compito politico dell’organizzazione per la rivoluzione, non solo quando le forze direttamente operaie sono lì a portata di mano, ma anche quando vivono e lottano in un altro continente, con altre armi tattiche, per altri obiettivi strategici. Dall’interno del cosiddetto terzo mondo, a livello di coscienza soggettiva, c’è da augurarsi che scatti in un futuro molto prossimo la molla di una scoperta geniale, quella di una dimensione nuova della lotta su quel terreno, una visione globale, mondiale, delle rivendicazioni anticapitalistiche, con dentro una voluta parzialità delle proprie posizioni, delle proprie proposte, delle proprie richieste. Bisogna capire, in una sorta di escalation teorico-pratica, che oggi come oggi 1) le guerre nelle campagne del mondo devono servire alle lotte operaie nelle cittadelle del capitale; 2) non devono servire alla classe operaia perché scateni l’attacco finale alle fortezze del suo nemico, in quanto da questo siamo ancora lontani; 3) devono servire alla classe operaia perché risolva i suoi presenti problemi di organizzazione. Aggredire il capitale sulle sue ali esterne, specialmente in un momento di prolungata crisi dell’iniziativa politica, vuol dire soltanto mettere in difficoltà il suo potere di riassorbimento delle contraddizioni interne, specialmente di quella fondamentale che lo vede impegnato sul terreno del salario operaio. È inutile, e sarebbe puro volontarismo ideologico, tentare di trovare un’affinità di contenuti tra lotta operaia sul salario e guerra di guerriglia per il controllo delle singole ricchezze nazionali. Non è questo il punto. Su contenuti del tutto diversi, a diversi livelli di sviluppo, anche senza diretto significato di classe, lo scontro anche violento nelle retrovie del capitale, deve servire a creare un clima internazionale di crescente tensione politica, deve esasperare la specificità dell’attuale crisi capitalistica, deve far intravvedere la presenza di nuove possenti forze non certo neutrali nella lotta di classe, in modo da ambientare la parte operaia sul terreno più favorevole per affrontare il tema dell’organizzazione nuova, il problema del partito.

La classe operaia si cerca dunque i suoi alleati anche fuori del proprio ambito specifico di lotta. Se sul piano interno le alleanze si pongono tra partito operaio e altre forze organizzate che in quel momento contestano aspetti singoli del sistema, sul piano internazionale le alleanze sono tra lotte operaie e singole situazioni di crisi del capitale provocate da movimenti di rivolta contro gli effetti del suo dominio, neocolonialismo, imperialismo, ecc. Come dal terzo mondo deve salire oggi la proposta di una voluta subordinazione ai contenuti e alle forme delle lotte operaie, così dall’alto della classe operaia deve scendere il riconoscimento pratico che il capitale può essere aggredito da varie parti da varie forze che contrastano il suo sviluppo, ritardano l’ammodernamento della sua iniziativa, lo mettono in difficoltà proprio per tutto quel periodo che serve agli operai per rimettere in moto il meccanismo di passaggio ora rimasto bloccato: lotte nuove – nuova organizzazione. Questo riconoscimento può avvenire a livello di massa operaia ad una sola condizione: se da parte delle forze soggettive che sono in gioco per rinnovare il partito si porterà avanti prima ancora che un internazionalismo di tipo nuovo la critica del vecchio internazionalismo. Anche qui i miti devono morire. Le ideologie vanno fatte cadere, perché da sole non cadono, da sole si restaurano, da sole si riproducono. Che gli operai siano per natura internazionalisti è una favola ottocentesca come quella degli operai che in quanto tali combattono per il socialismo. Il proletario che si sdraia sui binari per non lasciar passare il convoglio che porta armi ai bianchi nella giovane Russia rivoluzionaria, è un’immagine che non si ripete più nella realtà odierna. Non a caso oggi sui binari ci trovate lo studente: è un segno dei tempi, del cammino che ha fatto la coscienza di classe fuori della classe operaia e di un’altra cosa importante: gli operai lasciano volentieri che facciano altri adesso quello che loro hanno fatto nel passato, specialmente quando si tratta di manifestazioni esteriori, gesti simbolici, atti di sfida ai potenti, solidarietà con gli oppressi, ecc., tutte cose che ricordano alla classe operaia matura la propria romantica infanzia. Diciamolo chiaramente. Pochi sono stati gli operai nel mondo che hanno lottato per la pace nel Vietnam e ancora più pochi quelli che hanno lottato per la vittoria dei Vietcong. Prima di condannare, bisogna capire. Un internazionalismo generico, formale, puramente retorico, «operai di tutto il mondo unitevi» e giù la banda che suona l’internazionale, «per una strategia mondiale della lotta di classe» e cioè gli operai per le guerre di liberazione nel sud-est asiatico, gli operai per la guerriglia nell’America latina, gli operai per le pantere nere, – con queste cose in questo modo ci si deve mettere in testa che non ci si tira dietro la classe operaia. Meglio quando si trattava di difendere l’Unione Sovietica dall’assedio e dall’odio dei capitalisti di tutto il mondo: almeno l’internazionalismo aveva un riferimento di fatto a un paese preciso, che non solo non coincideva per gli operai con la propria patria, ma era il nemico stesso della propria patria. Non a caso questa forma storica di internazionalismo prendeva le mosse dall’alta indicazione leninista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, con l’appello agli operai di rivolgere le armi contro i propri governi. In questa che è stata finora la sua forma più avanzata, più internazionalismo e irripetibile. L’internazionalismo di oggi deve essere un fatto pratico, concreto, non ideologico, non umanitario, soprattutto non dato per scontato, come se esistesse innato nella mente dell’operaio. Lo spontaneismo dell’internazionalismo è uno dei tabu più diffusi, forse in assoluto quello più diffuso tra i tabu del militante di partito. Per questa via si va incontro a cocenti delusioni. La diffidenza – di parte, di classe – molto semplicemente espressa come indifferenza, nei confronti del discorso internazionalista è infatti una delle realtà di fatto più corpose della massa operaia oggi. L’internazionalismo va portato agli operai dall’esterno, attraverso lo strumento del partito. Come è il partito che fa ormai le alleanze con le organizzazioni affini, così è il partito che stabilisce il legame internazionale con le lotte parallele. Dalla spontaneità di classe il partito può oggi rilevare, e deve rilevare, la critica distruttiva del vecchio internazionalismo. Ma l’internazionalismo di tipo nuovo, la nuova strategia mondiale della lotta di classe, dal punto di vista operaio, deve essere una scoperta soggettiva da far nascere coscientemente a livello di partito. Sarà così per tante altre cose. Il rapporto classe-partito – il punto di partenza di tutto – è soprattutto il momento della distruzione del passato e si tratta qui del passato del partito. Il rapporto partito-classe – il passaggio obbligato per tutti – è il momento della scoperta del nuovo, la finestra sul futuro, sul futuro della classe. Così l’internazionale nuova, proposta dal partito, non sarà più l’internazionale dei partiti, ma della classe, – internazionale prima di tutto delle lotte operaie. Non più quindi un ideale per cui combattere, né un organismo di vertice che cerca di convincere gli operai a combattere per l’ideale, ma un semplice fatto politico, un bisogno di organizzazione che sale dal basso, come dal basso salgono le lotte, e che si incontra con una strategia internazionale di queste lotte che viene dall’alto. Bisogna capire che la dimensione internazionale della lotta di classe è un fatto che ci viene imposto dallo sviluppo mondiale del capitale. L’iniziativa politica, istituzionale, dei capitalisti a livello mondiale può anche restare ferma, come oggi, nel medio periodo, ma la natura del capitale veramente non conosce confini e quanto più avanza lo sviluppo economico tanto più questo sviluppo diventa internazionale. La lotta operaia non può che adeguarsi a questo cammino, pena atroci sconfitte. Gli operai devono essere dunque internazionalisti non per scelta ideale, ma per i bisogni pratici della loro lotta. Se è vero che gli operai non hanno patria, allora per patria non vogliono nemmeno avere il mondo, e il destino di questo come di altri pianeti potete stare sicuri che li lascia completamente indifferenti. Internazionalisti non per vocazione ma per necessità, la classe operaia da una parte il capitale dall’altra, a un certo punto della storia che ambedue li comprende, trovano questo terreno obbligato di lotta. Prima abbiamo detto: quello dei due avversari che avanzerà con l’organizzazione a questo livello conquisterà punti per la vittoria. Adesso dobbiamo aggiungere: organizzazione delle lotte da parte operaia, organizzazione del mercato da parte capitalistica, è il punto da cui riparte il prossimo ciclo della lotta di classe internazionale. Stato borghese e partito operaio, solo adattando i propri problemi alla dimensione ancora sconosciuta di questa terra di nessuno, possono sperare di superare presto la rispettiva crisi. E del resto: chi per primo risolve la crisi in un punto significativo sposta dalla sua parte le migliori capacità di movimento sullo scacchiere mondiale. Così, nuovo internazionalismo e partito nuovo fanno una cosa sola, un solo fatto e al tempo stesso un solo problema, un circolo che non si chiude per un solo anello mancante.

GLI ALTRI DUE SAGGI DI MARIO TRONTI SONO CONSULTABILI AI SEGUENTI LINK:

MARIO TRONTI E LA RIVISTA “CONTROPIANO” (I) – ESTREMISMO E RIFORMISMO

MARIO TRONTI E LA RIVISTA “CONTROPIANO” (II) – IL PARTITO COME PROBLEMA

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