Tra l’autunno del 1969 e il 1970 il Comitato Operaio di Porto Marghera registra una importante fase di espansione in termini di militanza che produce, oltre ad una pratica conflittuale originale e autonoma, anche importanti elaborazioni teoriche.

Il CO si distinse per un suo sempre più crescente rifiuto della delega nei confronti delle istituzioni operaie tradizionali della sinistra (ma anche del nascente movimento nazionale Potere operaio). Il testo che proponiamo, Il rifiuto del lavoro, è stato pubblicato in Quaderni dell’organizzazione operaia (n.1, 1970, pp. 26-34), un opuscolo ciclostilato dove il concetto di “rifiuto” viene articolato attraverso una critica radicale dell’uso capitalistico delle macchine e del lavoro, quest’ultimo inteso come forma di controllo politico sugli operai. La parola d’ordine “lavorare meno, lavorare tutti” non è un vuoto slogan ma viene calato dentro il ciclo produttivo della chimica, opponendolo alla nocività della produzione e chiedendo la riduzione della presenza operaia nei reparti a parità di salario: con questo sviluppo delle macchine sarebbe possibile lavorare molto di meno, a patto che le macchine inventate dalla moderna scienza non diventino monopolio esclusivo dell’America e dell’Unione Sovietica come succede ora, ma sia possibile utilizzarle in tutto il mondo. Bisogna imporre la logica operaia secondo la quale bisogna inventare tante macchine da ridurre sempre più il tempo di lavoro fino a farlo in tendenza scomparire

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Cosa significa distruggere il potere dei padroni? Chi sono e che cosa vogliono i padroni? Sembrano domande stupide ma in realtà sono fondamentali al fine di stabilire quella che deve essere la nostra linea politica contro di loro.

Quello che dobbiamo prima di tutto dire è che è falso il luogo comune che i padroni sfruttino gli operai per arricchirsi. Quest’aspetto senz’altro esiste, ma la ricchezza dei padroni non è per nulla proporzionale al loro potere. Per esempio Agnelli in proporzione alle macchine che produce, dovrebbe andare vestito d’oro, invece egli si accontenta di una nave e di un aereo privato, cosa che può benissimo permettersi un altro padrone con una fabbrica ben più modesta della Fiat. Quello che interessa ad Agnelli è la conservazione e lo sviluppo del suo potere, che coincide con lo sviluppo e la crescita del capitalismo: cioè il capitalismo è una potenza impersonale e i capitalisti agiscono come suoi funzionari; tanto è vero che neppure i padroni sono più necessari al capitalismo, in Russia per esempio c’è il capitalismo senza che ci siano i padroni. In Russia ciò che rivela la presenza del capitalismo è la presenza del profitto. Che la distribuzione del profitto sia “più giusta” che in Italia è probabilmente vero, ma la rivoluzione comunista non deve rendere più giusta la distribuzione del profitto sociale, ma rovesciare quei rapporti di produzione capitalistici che creano il profitto. Bisogna rovesciare un sistema sociale che fa sì che la gente sia costretta a lavorare. In questo senso devono essere valutate anche le esperienze di rivoluzioni cinesi e cubane.

Il capitalismo è sostanzialmente teso prima di tutto a conservare questo rapporto di potere contro la classe operaia e usa il suo sviluppo per rafforzare sempre di più questo suo potere.

Questo vuol dire che tutte le macchine, le innovazioni tecnologiche, lo sviluppo delle industrie, lo stesso sottosviluppo di alcune zone, sono usati per controllare politicamente la classe operaia. Ci sono degli esempi ormai classici di questo comportamento capitalistico; per esempio l’introduzione della catena di montaggio intorno agli anni venti è stata una risposta all’ondata rivoluzionaria che sconvolse il mondo negli anni immediatamente seguenti la Prima guerra mondiale. Si voleva far sparire quel tipo di classe operaia qualificata che aveva reso possibile la Rivoluzione russa nel ’17 e il movimento dei Consigli di fabbrica in tutta Europa. La catena di montaggio dequaliticò tutti gli operai, respingendo indietro l’ondata rivoluzionaria e modificando anche il modo di manifestarsi della lotta di classe; tutto ció si tradusse in molti paesi in una sconfitta politica definitiva, in mancanza di una organizzazione politica che avesse la capacità di modificare il suo intervento secondo il nuovo tipo di comportamento operaio. Ma ora questa struttura tecnica si è rivoltata contro il capitale, producendo una massificazione delle richieste salariali che trova nella struttura così piatta del ciclo di produzione in fabbrica uno dei suoi motivi principali. Così il capitale sta rivoluzionando questa struttura cercando intanto di eliminare operai e di disporre gli altri su ventagli salariali molto più allargati di quanto non siano gli attuali, tutto questo attraverso l’introduzione dell’automazione che si configura come un vero e proprio attacco politico alla classe operaia.

Questa manovra è già passata in America, e l’unica ragione per cui i padroni non I’hanno già ripetuta in ltalia è perché essi non sono sicuri di poter controllare la risposta operaia a questo attacco. Così si vede che il progresso, lo sviluppo tanto sbandierato dai padroni e dai loro servi, non è altro che un tentativo continuo di adeguare l’organizzazione del capitale collettivo all’attacco della classe operaia. II progresso tecnologico non è mai qualcosa di neutro e di inevitabile, come dicono da sempre padroni e sindacati ogni volta che si parla di licenziamenti per l’introduzione di nuove macchine. Proprio perché credono nella balla della neutralità della scienza, i sindacati limitano in questi casi le lotte alla difesa del posto di lavoro (Sirma, Leghe Leggere ecc.) e non affrontano mai il problema dal punto di vista della riduzione dell’orario di lavoro. Essi credono, o fanno finta di credere, che sia vero quello che dice il padrone: che per esempio in quel reparto, con l’introduzione di quella macchina, non ci possano lavorare poniamo piü di cento operai dei duecento del reparto, e che gli altri debbono andarsene perché vittime dell’inevitabile progresso.

Ma gli operai hanno una logica diversa: essi pensano che invece di lavorare otto ore in cento, dopo l’introduzione della macchina summenzionata, possono lavorare benissimo in duecento facendo quattro ore a testa. Questa logica, oltre ad alleviare il peso della permanenza in fabbrica, risolverebbe anche il problema della disoccupazione.

Gli operai non sono quindi contro le macchine, ma contro coloro che usano le macchine per farli lavorare. A chi dice che lavorare è necessario, noi rispondiamo che la quantità di scienza accumulata (vedi per esempio i viaggi sulla Luna) è tale da poter ridurre subito il lavoro a fatto puramente di contorno della vita umana, anziché concepirlo come la “ragione stessa dell’esistenza dell uomo”. A chi dice che da sempre l’uomo ha lavorato noi rispondiamo che nella Bibbia c’è scritto che la Terra è piatta e che il sole gira attorno a essa: prima di Galileo questa era la verità, era una cosa esistita da sempre, era il punto di vista scientifico. Ma il problema non è quello di dare dimostrazioni scientifiche, quanto quello di rovesciare l’attuale ordinamento sociale imponendo gli interessi di chi ha materialmente creato le condizioni perché ciò avvenga, imponendo cioè gli interessi della classe operaia. Solo affermando questi interessi, spezzando il potere politico che a essi si contrappone, si può pensare di creare le condizioni di esistenza di una società migliore di quella attuale. Per questo c’è la necessità da parte operaia di creare un’organizzazione che sia in grado di respingere il controllo politico dei padroni; di assumere tutto il potere necessario perché siano gli interessi di classe a trionfare. Attualmente sono i padroni, i loro meccanismi di potere che utilizzano tutto, dalla scienza alla lotta operaia, quando questa non si pone realmente l’obiettivo della distruzione dei rapporti di produzione, cioè sfuggire al controllo politico dei padroni.

L’esigenza di controllare gli operai politicamente e di mantenere il loro potere è tanto forte nei padroni che per questo sono disposti anche a rimetterci denaro. Per esempio in America sono loro stessi che vanno contro il progresso. In certe fabbriche, per esempio, dove da tempo era stata introdotta l’automazione e quindi ridotto il numero degli operai, sotto le pressioni massicce delle lotte che si svolgono nella società americana, lotte che sono condotte soprattutto dai disoccupati negri (sic), si è preferito ritornare ai vecchi sistemi produttivi per poter dar loro lavoro. Questo evidentemente non vuol dire che i disoccupati negri (sic) mirassero a questo risultato, ma dimostra l’uso che i padroni fanno della scienza, cioè il controllo politico che attraverso essi riescono a esercitare sulla classe operaia. Questo comportamento dei padroni dimostra, quindi due cose: primo che il progresso non è un fatto neutro e che esso viene esclusivamente deciso secondo un particolare punto di vista che è quello del controllo politico sulle forze che possono togliere il potere al capitalismo, secondo, che questo controllo si esercita prima di tutto attraverso il lavoro; infatti i padroni di quelle fabbriche americane non vollero assolutamente, per poter far lavorare i nuovi assunti, ridurre l’orario a tutti, ma continuare a mantenere anche con il nuovo organico l’orario di prima, a costo di ritornare alle condízioni produttive antecedenti l’automazione degli impianti. Insomma, il capitale è disposto a rimetterci, a costruire impianti tecnicamente superati, pur di controllare gli operai politicamente; per questo egli è disposto anche a pagare della gente che lavori completamente a vuoto. È qui che il discorso sul rifiuto del lavoro diviene attuale. Con questo sviluppo delle macchine sarebbe possibile lavorare molto di meno, a patto che le macchine inventate dalla moderna scienza non diventino monopolio esclusivo dell’America e dell’Unione Sovietica come succede ora, ma sia possibile utilizzarle in tutto il mondo. Bisogna imporre la logica operaia secondo la quale bisogna inventare tante macchine da ridurre sempre più il tempo di lavoro fino a farlo in tendenza scomparire. A questo punto parlare di socialismo non è più possibile, il socialismo è quello che c’è in Russia, una nuova organizzazione del lavoro, ma gli operai non vogliono questo, gli operai vogliono lavorare sempre meno, fino a far sparire ogni forma di costrizione effettiva al lavoro.

Non è vero che in questa società siamo liberi. Siamo liberi solo di alzarci ogni mattina e di andare a lavorare. CHI NON LAVORA NON MANGIA! È libertà questa? C’è una cosa che impedisce la nostra libertà: il lavoro; a lavorare, in realtà noi siamo obbligati. II detto secondo il quale il lavoro nobilita è un’invenzione padronale.

Quando tutti gli uomini saranno liberati dalla necessità di lavorare, perché avranno da mangiare, da vestire, da soddisfare i loro desideri senza lavorare, allora ci sarà la vera libertà! Noi sosteniamo che già adesso con le macchine che ci sono, sarebbe possibile realizzare molte di queste cose che dette così sembrano fantascientifiche. Al Cv16 (reparto del petrolchimico di Porto Marghera dove veniva lavorato il Cloruro di Vinile Monomero, ndr), per esempio, durante gli ultimi scioperi “contrattuali” del 1969, la direzione fece tenere in marcia le autoclavi di quel reparto servendosi dei nuovi strumenti per la conduzione automatica degli impianti: gli operai erano a casa e gli impianti continuavano a produrre. Per dimostrare di essere più forte, il padrone in quell’occasione non si curò di mandare all’aria tutti i discorsi sulla necessità del lavoro umano.

Così nello stabilimento della Montedison Azotati c’è in funzione un calcolatore elettronico che conduce in “automatico” l’impianto di sintesi dell’ammoniaca: anche qui si punta sull’aumento della produttività e non ci si pone il problema della diminuzione dell’orario di lavoro.

In impianti come questi è molto più dimostrabile come l’interesse del sistema sia quello di usare il lavoro come forma di controllo politico sugli operai. Infatti la manualità dell’operazione e lo sforzo psichico sono ridottissimi; resta solo l’imposizione della presenza fisica dell’operaio accanto alla macchina, resta la violenza capitalistica che vuole l’uomo condizionato e asservito alla macchina.

Ma quali sono i mezzi per abolire tutto questo? Si tratta di spezzare il meccanismo di controllo che il capitale ha predisposto sugli operai.

Nessuno è in grado di ipotizzare quali saranno gli atti concreti con cui questa rottura si realizzerà, e tanto meno è possibile rispondere alla domanda di coloro i quali ci chiedono che cosa pensiamo di sostituire a quello che dobbiamo distruggere. Il problema non è questo; in nessuna delle grandi rivoluzioni della storia si sapeva a priori quello che si sarebbe sostituito a ciò che si stava abbattendo, perché le modificazioni nel carattere delle persone, nei rapporti tra le classi, sono così radicali nei periodi rivoluzionari da rendere impossibile una qualsiasi ipotesi storica. Quello che gli operai dovranno fare per abbattere il capitalismo modificherà la storia degli uomini in maniera molto più profonda e radicale della Rivoluzione francese e perciò è impossibile prevedere cosa accadrà dopo. Quello che è importante ora è piuttosto vedere come si fa a distruggere quello che c’è.

Anche fare la rivoluzione diventa un termine inadeguato, anche prendere il potere. Intatti il potere è più che altro una linea politica che si impone allo sviluppo, tutte le strutture della società formano l’organizzazione che i padroni si sono dati per poter imporre questa loro linea politica. Si tratta di creare una organizzazione più forte di quella dei padroni attorno alla nostra linea politica. Per questo noi diciamo che gli operai sono contro la società, che sono diversi dagli altri in quanto la società è tutta strutturata contro di loro ed è anzi venuta perfezionandosi in questa maniera come risposta ai movimenti della classe operaia.

La lotta della classe operaia è infatti, come abbiamo visto, il principale incentivo allo sviluppo del capitalismo: si pensi al Maggio francese dove le piccole fabbriche sono andate in crisi in seguito agli aumenti salariali strappati dagli operai con la loro lotta rivoluzionaria, e ciò ha favorito la concentrazione del capitale e lo sviluppo del monopolio. Si pensi all’Unione Sovietica, dove la Rivoluzione del ’17 ha in tal modo accelerato lo sviluppo capitalistico da trasformare un paese arretrato come era la Russia zarista in uno dei più forti paesi capitalistici del mondo.

Il capitale è insomma una potenza che si riproduce al di là della buona volontà dei singoli individui; il problema della sua eliminazione non sta quindi nella eliminazione della proprietà privata, ma nella distruzione stessa del rapporto di produzione, cioè nella distruzione della necessità di lavorare per vivere.

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