CRISI IN EUROPA, MA COSA È ENTRATO IN CRISI? (II)

Anni ‘90 compimento dell’integrazione globale e presupposti per la crisi.

Il ruolo delle banche è fortemente cambiato negli ultimi decenni. Chi ha memoria del crac del 2008 rammenta come ci furono grosse polemiche circa la trasformazione delle banche da istituti di credito e risparmio in istituti finanziari d’investimento. Ma altre evidenze le abbiamo alle nostre latitudini con lo svuotamento delle casse di risparmio locali, (i vari crediti cooperativi, casse rurali ecc.) acquisite da banche commerciali e poi usate per finanziare speculazioni nel mercato azionario, spesso con esiti infausti per chi aveva risparmi depositati. Ma cosa è cambiato nella natura e quindi nel ruolo delle banche?

bisogna tenere presente che fra gli anni ‘70 e gli anni ‘90 si sono susseguiti una serie di balzi epocali nei sistemi di comunicazione ai quali ha fatto eco l’innovazione finanziaria. Quindi il progresso tecnologico e la nascente ingegneria finanziaria crearono le condizioni per un allentamento delle regole. Il perché risiede in una motivazione che potrebbe suonare banale, se grazie all’implementazione delle ICT (Information and Communication Technologies) si possono avere stime e proiezioni sull’andamento dei mercati più realistici, vuol dire che le potenzialità del mercato  finanziario diventano virtualmente illimitate. Di contro un sistema che imbriglia le potenzialità è irrazionale in quanto non consente di massimizzare le opportunità messe a disposizione dalla tecnologia, quindi bisogna agire per eliminare gli ostacoli. Questo in parole estremamente sintetiche le ragioni alla base della deregulation. 

Ma oltre alle ragioni pratiche vi erano convinzioni granitiche derivanti dalle varie teorie economiche a fondamento del pensiero neoliberista, molto spesso si trattava più di autoconvincimento che ragioni oggettive, dal momento che sono state prese solo le teorie più accomodanti rispetto alla fiducia dei mercati. Ad ogni modo, alla base di queste “certezze” vi era l’assunto che l’industria finanziaria avesse al proprio interno gli anticorpi necessari, sotto forma di incentivi, per tenere sotto controllo i rischi. Per queste ragioni di carattere tecnologico, teorico, politico e culturale, la vigilanza statale in “light-touch supervision”, in virtù della convinzione assoluta secondo la quale il mercato è in grado da solo di raggiungere condizioni di equilibrio.

In virtù di ciò furono introdotte svariate misure misure, come la riduzione delle barriere per la circolazione di capitali e per entrare nel mercato azionario e la conseguente apertura dei mercati domestici alle banche straniere.  Nel contesto della liberalizzazione dei movimenti di capitali, si è poi fatto ricorso in maniera sempre più frequente alle privatizzazioni delle banche centrali, all’aumento della concorrenza bancaria, con il graduale passaggio da un approccio rigoroso di vigilanza di tipo strutturale ad uno di tipo più prudenziale, basato sulle garanzie di solvibilità. In breve si affermò definitivamente l’idea che la banca è un’impresa, che svolge quindi un’attività imprenditoriale con fine di lucro, che non esercita quindi un servizio pubblico o socialmente rilevante, pur continuando a trarre beneficio dalla protezione pubblica per la specificità della sua attività.

I benefici di cui sopra sono legati ai rapporti fra depositi e potenziale di credito, detto anche moltiplicatore del credito. In parole semplici per ogni euro che una banca deposita come riserva obbligatoria nella banca centrale, ha potere di elargire credito per un fattore moltiplicativo virtualmente illimitato. Si può ben capire come le esposizioni bancarie possano in breve tempo scivolare su cifre a nove zeri. Ma non è questa la ragione dei problemi, il dato più interessante è esattamente il ruolo che le banche hanno assunto negli ultimi decenni: ossia quello di istituzioni di credito di prima e ultima istanza. 

Se come abbiamo appena visto Reagan ha posto le basi strutturali per il decollo della finanziarizzazione, Bill Clinton è stato colui il quale ha poi rimosso tutti gli ostacoli ai flussi di capitale. L’ultima barriera da rompere era costituita dal Glass-Steagall Act, forse una delle intuizioni più brillanti mai partorite da un paese fieramente capitalista per salvaguardare tanto il denaro pubblico, inteso come contribuzione fiscale sulla proprietà, quanto il risparmio privato dalle bizze del mercato. I legislatori originariamente intendevano che il Glass-Steagall Act tenesse ben separate le banche commerciali, che accettavano depositi, concedevano prestiti ed erano assicurate dalla FDIC, e le banche di investimento, che portavano emissioni di titoli sui mercati, agivano come intermediari e scambiavano quei titoli precedentemente emessi. 

Ma quella separazione si stava erodendo da anni. Le banche commerciali erano degli autentici forzieri, con le pance piene di depositi e risparmi e volevano entrare nelle attività di sottoscrizione e negoziazione in modo da poter utilizzare i fondi a basso costo offerti loro dall’assicurazione FDIC e così competere con le banche di investimento con questo vantaggio intrinseco. Il che portò poi alle fusioni per la creazione delle cosiddette “universal bank” banche sia commerciali che di investimento, da un lato si incamerano fondi assicurati e dall’altro si investono allegramente, nessun rischio per chi gioca, tutti i rischi per chi assicura i fondi, cioè lo Stato. Questo era esattamente ciò che il Glass-Steagall Act era stato chiamato ad impedire. 

Il processo è stato però lungo e il presidente Clinton ha tagliato l’ultimo filo che teneva ancora tutto in equilibrio. Durante gli anni ’70 e ’80 le banche commerciali avevano ottenuto l’approvazione per una serie di assurde deroghe alla legge, ma volevano sempre di più. Per evitare di essere surclassate nel crescente mercato finanziario dall’abbondante ed economico capitale a disposizione delle banche commerciali, le banche d’investimento hanno dovuto modificare le loro strutture di capitale. Durante gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, hanno cominciato ad avviare un processo di fusione per diventare più grandi per resistere alla concorrenza delle banche commerciali. Alla fine, le banche d’investimento hanno concluso un accordo e l’inevitabile è accaduto quando la separazione è stata abrogata nel novembre 1999, quando il presidente Clinton ha firmato il Graham-Leach-Bliley Act.

Circa 9 anni dopo, la crisi si è verificata, trasformando una recessione nel peggior evento economico dai tempi della Grande Depressione. La crisi finanziaria si è verificata perché le banche coinvolte nelle speculazioni erano diventate mastodontiche, concentrate e pericolosamente interconnesse in risposta all’abrogazione della separazione di Glass-Steagall. Ma nel frattempo le interconnessioni non esistevano solo fra banche statunitensi, le partecipazioni erano globali. 

Nel mondo contemporaneo, che come abbiamo visto fonda le sue radici nelle ultime tre decadi del secolo scorso, il ruolo delle banche si è profondamente trasformato, divenendo imprese finanziarie ma non solo, per come si estrinseca il meccanismo produttivo, gli istituti di credito hanno la funzione di sostenere non solo la produzione ma anche (e forse soprattutto) la realizzazione dell’utile d’impresa.  

Prendendo in esame la teoria del circuito monetario in una sintesi  Augusto Graziani relativa al ruolo del credito bancario nella produzione[1]. Industria e sistema creditizio sono due elementi la cui relazione è cambiata nel corso della storia. Se è vero quanto sostiene Graziani che nel processo produttivo all’interno di un’economia capitalista nella quale vale il sistema delle plusvalenze D-M-D’, il denaro [D] necessario ad un ciclo di produzioni atto a liberare il plusvalore [D’] non si crea dal nulla o dal risparmio dell’imprenditore, ma viene anticipato da chi detiene moneta o può emettere crediti ossia le banche. Espresso in maniera assai scarna e semplificata questo è l’incipit del ciclo produttivo. Ma il ragionamento di Graziani non si ferma qui, si considera anche il versante del consumo dei prodotti realizzati, ossia la domanda. Questa necessità di essere alimentata dal reddito, ma nel momento in cui si deve sostenere un consumo superiore alla disponibilità economica – il che è la regola ai giorni nostri – si deve avere una certa accessibilità al credito. Mutui, prestiti e rateizzazioni, sono i tipici strumenti di accesso al credito (le carte di credito rateizzano il debito). Ragion per cui il sistema bancario presta denaro per realizzare i consumi e lo presta tanto alle famiglie quanto allo Stato[2].

Da questo schema (anche se presentato in maniera assai semplificata) si può capire come il sistema economico di matrice capitalista sia letteralmente innervato sul circuito bancario, quindi quando questo entra in crisi i flussi si fermano o meglio cambiano rotta, andando ad irrorare il sistema centrale invece che quello periferico (considerato sacrificabile).

Con il progredire del processo di integrazione globale, anche l’industria ha subito forti trasformazioni, una delle quali è stato un massiccio trasferimento di produzione di beni materiali dai cosiddetti paesi a capitalismo avanzato verso quelli “emergenti”. Il che ha creato nuove condizioni nel circuito monetario avendo in parte dismesso la produzione e avendola in parte trasformata da realizzazione di beni ad offerta di servizi.

Questa operazione non è stata repentina ma non è stata neanche indolore. nel giro di circa cinque lustri l’Europa ha man mano trasferito interi settori produttivi in altri ambiti geografici più favorevoli in termini di costi (costi di costruzione, di forza lavoro, quelli legati all’ambiente e costi fiscali) spostando le esigenze imprenditoriali sempre più sul management e i servizi legati al controllo delle attività a distanza. Questo processo non ha solo delocalizzato la produzione ma ha cambiato anche il modo di intendere il profitto dall’industria. La delocalizzazione, come precedentemente accennato, non va intesa come una semplice esternalizzazione delle fasi produttive, ma una vera e propria ricerca di vantaggi competitivi, spesso solo in termini di abbattimento dei costi di produzione. 

Questo ha contribuito a creare non pochi problemi socio economici localizzati. L’offshoring avviene generalmente per alcuni particolari lavorazioni, generalmente quelle più onerose e a minor valore aggiunto. Ciò crea una sofferenza  nell’indotto che vive su quelle specifiche fasi produttive, non trovando sbocco o chiusura o, se ne ha la possibilità trasferisce a sua volta la produzione. Questo innesca un effetto domino su tutto il corollario di servizi diretti o indiretti alle aziende, da quelli di consulenza economica alla logistica fino alle imprese di pulizia e manutenzione. Ciò implica una perdita sistematica di redditualità che innesca un processo di contrazione sistematica della domanda locale.

note:

[1] A. Graziani, La teoria monetaria della produzione: supplemento al N. 36 della rivista “Etruria oggi”. (1994), Banca popolare dell’Etruria e del Lazio.

[2] G. Gattei, Augusto Graziani e il doppio paradosso del guadagno imprenditoriale, (2015) Itinerari di ricerca storica, anno XXIX, n° 1.

La prima parte dell’articolo è consultabile qui

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