MARIO TRONTI E LA RIVISTA “CONTROPIANO” (I)

Proponiamo per la ns sezione Kritik, a partire da oggi, alcuni saggi di Mario Tronti pubblicati nel 1968 sulla rivista Contropiano, fondata proprio in quell’anno e diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari. Tronti vi pubblica solo tre articoli (che la ns redazione proporrà con cadenza settimanale), ritagliandosi, probabilmente per scelta, un ruolo più defilato rispetto a Classe Operaia e Quaderni Rossi.

I tre articoli, Estremismo e riformismo (CONTROPIANO, N. 1/1968, pag. 41-58),  Il partito come problema (CONTROPIANO n.2/1968, pag. 297-317) e Internazionalismo vecchio e nuovo (CONTROPIANO, N. 3/1968, pag. 505-526) rappresentano una lunga e attenta disamina su alcuni concetti quali l’organizzazione, la teoria del partito, la funzione del sindacato e il ruolo del movimento, soprattutto quello studentesco. In calce al primo articolo lo stesso autore scrive: Questo discorso avrà un seguito, probabilmente in due parti: una dedicata a quella che si dice la teoria del partito, con annesso il problema del sindacato, oggi; l’altra dedicata a quella che si dice la strategia internazionale della lotta di classe, compreso il momento mondiale odierno del movimento operaio. Necessariamente i testi proposti risentono del periodo storico e politico nel quale sono stati prodotti ma ancora oggi, in essi, si possono individuare elementi di assoluta attualità che ci hanno spinto alla pubblicazione sulla nostra rivista.

Quello che segue, Estremismo e riformismo, è il primo dei tre contributi.

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ESTREMISMO E RIFORMISMO

Per agganciare una forma più generale di discorso politico vediamo di partire da un tema preciso: le modifiche intervenute nel contenuto delle lotte operaie a livello internazionale dagli anni trenta agli anni sessanta. Quello che era un dato costante, legato all’esistenza sociale degli operai di fabbrica, e cioè la lotta sul salario, ha perso il carattere di lotta per la sopravvivenza fisica dell’operaio singolo e della sua specie, per acquistare una funzionalità politica che gioca direttamente sul terreno dello scontro fra le classi. Quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, tanto più la categoria salario approfondisce la sua specificità operaia e diventa per questa via il perno attorno a cui comincia a girare il rapporto di classe.

Dovrebbe ormai essere noto come questo nuovo ciclo della lotta di classe sia nato dalla grande iniziativa capitalistica che ha fatto seguito alla grande crisi del capitale. In questi ultimi tre decenni, nell’occidente capitalistico, la «rivoluzione dei redditi» è stato il più grosso fatto pratico e il più importante passaggio storico. La classe operaia, da qui, è saltata al grado più alto finora raggiunto dalla sua crescita politica. Il capitale ha afferrato quella coscienza di sé che inseguiva invano dagli anni della sua infanzia e ha trovato qui tutta intera la sua verità. La riscoperta capitalistica del salario è stata la molla che ha rimesso in moto il meccanismo dello sviluppo economico dopo il crollo degli anni trenta. L’uso operaio della lotta salariale può diventare il punto di svolta per avviare a soluzione i problemi dell’organizzazione politica dopo gli anni sessanta. Nella lotta sul salario si misurano oggi i nuovi rapporti tra spontaneità e organizzazione. La spontaneità operaia – la classe divisa dal partito – vede una faccia sola del salario, quella del reddito. La spontaneità capitalistica – l’imprenditorialità privata divisa dallo stato – vede solo l’altra faccia, quella del costo. Soltanto i due livelli dell’organizzazione – il partito e lo stato – sono in grado di cogliere le due facce insieme, per utilizzarle secondo gli interessi delle due classi. Perché oggi il capitale vince? Perché il rapporto grande industria-potere pubblico è più forte del rapporto classe-partito. Di qui alcuni compiti urgenti per il movimento: rovesciare questo processo, rimettere in contatto classe e partito e al tempo stesso puntare a dividere il capitale dal suo stato. In particolare quest’ultimo obiettivo, tutt’altro che transitorio ma anzi strategico e di lungo periodo, è quello che dobbiamo cominciare qui ad analizzare. È un punto delicato e bisogna stare attenti a non aggiungere altri equivoci ai tanti che già esistono. Isoliamo intanto il problema. Interrompere gradualmente il rapporto potere politico-grande industria, e cioè togliere l’organizzazione ai capitalisti, costringerli alla spontaneità, inchiodarli a movimenti ciechi:
questo è l’obiettivo. Ma questo non si può fare portando gli operai in un partito genericamente rivoluzionario, perché questo partito non esiste e se esistesse gli operai non ci andrebbero lo stesso: il partito della «frase rivoluzionaria» giustamente oggi fa solo sorridere. Questo non si può fare nemmeno però portando il partito alla testa del riformismo borghese: il riformismo è ormai storicamente provato che non serve a introdurre gli operai nella macchina dello stato, serve a far arrivare l’iniziativa capitalistica, attraverso lo stato, fino agli operai. Altre strade dunque bisogna battere nella ricerca di contenuti nuovi per la linea politica, di nuove forme per l’organizzazione, di un’altra prospettiva per l’azione concreta.

Qual è l’errore fondamentale delle posizioni di sinistra nel movimento operaio? È quello di proporsi l’unificazione della parte operaia senza misurare il grado di unità già raggiunto dalla parte capitalistica, che impedisce, proprio esso, finché esiste, di ristabilire il rapporto classe-partito: di qui quella che si dice l’astrattezza delle posizioni rivoluzionarie. Qual è invece la colpa storica che ricade sulla destra del movimento? È quella di non aver mai conquistato autonomia rispetto all’iniziativa capitalistica, di aver sempre seguito e mai anticipato le mosse del capitale, di non possedere una strategia di attacco al sistema: di qui quello che si dice l’opportunismo del riformismo. Qual è infine il contenuto che unifica queste due tradizionali forme di organizzazione? Forse solo oggi lo possiamo vedere con chiarezza: manca nell’uno e nell’altro caso una teoria della classe operaia. Una teoria, cioè una rilevazione realistica e pratica del suo attuale momento di lotta, e non una ideologia, cioè una predica dall’esterno sui suoi compiti universali. Guardate appunto che blocco di ideologie si è recentemente creato intorno al tema salario. Ci sono i critici romantici della società del benessere: vedono negli aumenti salariali solo un mezzo di integrazione nell’attuale sistema di bisogni e agli operai lanciano la parola d’ordine «non monetizzate tutte le vostre rivendicazioni!». È l’ideologia dei bassi salari – metà cristianesimo delle origini, metà comunismo di guerra – che affida al malessere dei lavoratori singoli il fervore rivoluzionario delle masse. Ci sono poi gli amatori dello sviluppo economico nazionale: vedono nella dinamica salariale lo strumento più idoneo per la crescita accelerata del sistema della produzione e raccomandano ai padroni «sostenete la domanda interna!». Alti salari per il bene del paese, cioè per lo sviluppo del capitale, è l’ideologia keynesiana che va passando oggi dal riformismo governativo della vecchia socialdemocrazia al riformismo all’opposizione dei comunisti più moderni. La verità è che le ideologie del salario hanno una funzionalità specifica nell’attuale iniziativa capitalistica di gestione diretta del proprio sistema. Il salario deve muoversi, ma non deve muoversi senza controllo. Deve complessivamente salire, ma non deve salire oltre i limiti imposti dalla produttività media del sistema. Deve tirare dietro di sé la dinamica di tutte le paghe non operaie, ma senza che gli operai diventino la guida di tutti i lavoratori. Quanto più si fa elastica la domanda interna, tanto più deve farsi rigido il rapporto di lavoro. Più apparente autonomia alle contrattazioni centralizzate, meno slittamenti di fatto alla base. Rivoluzione permanente dei redditi e al tempo stesso sviluppo equilibrato del sistema. Queste sono le antinomie entro cui si muove, ed è costretta a muoversi, l’iniziativa politica, la capacità di governo, tutta l’esperienza statuale finora accumulata del capitale moderno. Le ideologie del salario servono a mediare questa iniziativa a livello operaio, servono a far passare in fabbrica le soluzioni elaborate sul terreno del governo, servono a tenere divisi e contraddittori fra loro strati diversi della classe operaia e delle altre forze lavoratrici e popolari, verticalmente in ogni singolo paese e in una dimensione geografica orizzontale quando si guarda al piano internazionale della lotta di classe. Per questa via non bisogna prendere per buone le difficoltà che i capitalisti accampano sul loro terreno: concorrenzialità fra gruppi di nazioni, divari tecnologici e soprattutto difficoltà monetarie, come se tutto oggi si risolvesse con una buona nuova organizzazione di scambio della moneta mondiale. Bisogna avere il coraggio marxista di riportare tutte queste difficoltà alla loro radice prima, al contenuto concreto, oggi, del rapporto di classe. E se qualche sfumatura andrà perduta per il livello della scienza economica, pazienza; se ne guadagnerà in funzionalità pratica, in capacità di attacco ai pilastri su cui si regge il sistema, per esasperare gli squilibri veri e non per risolvere quelli falsi. È chiaro che la lotta sul salario non può esaurire oggi tutto il terreno della lotta e tanto meno può farci comprendere tutta la realtà nel suo complesso. Ma è un fatto di metodo: ogni volta, in ogni momento, occorre scegliere un punto a cui riferire tutto il resto, un terreno intorno a cui organizzare tutto quanto; e deve essere un punto nevralgico per l’iniziativa capitalistica e un terreno di massa per la mobilitazione operaia. Ci vuole un bisogno del capitale e la possibilità di parte operaia a farne una contraddizione, per un certo periodo, insolubile. La odierna politica dei redditi non è una statica, è una dinamica economica. È nata dallo sviluppo capitalistico e lo sviluppo capitalistico è rinato quando s’è rimesso in moto il reddito da lavoro. La necessità del controllo sul salario nasce quando è già acquisita da parte padronale e già sfruttata da parte operaia la necessità di farlo muovere e in qualche caso anche correre. Il movimento dei salari il capitale è disposto a pagarlo concedendo un margine alle lotte operaie, il controllo è disposto a pagarlo concedendo una fetta di potere al vertice dello stato. Ambedue questi terreni, lotta operaia e potere politico, vanno utilizzati con abilità: la lotta, per unificare partito e classe; il potere, per dividere capitale e stato. In mezzo, tra i movimenti del salario e il suo controllo si apre così il più concreto, il più realistico, il più praticabile campo di azione politica per la sinistra nell’occidente.

Sono pesanti, è vero, e sentite da parte operaia e investite dall’iniziativa padronale, quelle che si dicono le «condizioni di lavoro». L’industria moderna vive in uno stato di eterno sommovimento tecnologico, che con una aggressione continuata ai tempi di lavorazione del prodotto, rimette in causa senza soste i rapporti fin lì raggiunti dalle macchine fra loro e in più lo stadio di organizzazione del lavoro vivo. Una storia del capitale come storia del risparmio di lavoro deve ancora essere scritta e non si capisce perché si studino tante cose inutili invece che questa, così essenziale. Ma questa, appunto, è la storia eterna del capitale; non è iniziativa politica di oggi che scopre i bisogni presenti del potere capitalistico. Nel rituale dei discorsi di partito, chiunque dice fabbrica, deve poi affrettarsi ad aggiungere che non si tratta di rimanere chiusi nella fabbrica, ma di arrivare da qui alla società. Bene. La via che porta dalla fabbrica alla società è soprattutto allo stato non è certo quella della denuncia dei ridimensionamenti tecnologici che aumentano e approfondiscono la produttività del lavoro. Questo è infatti uno dei pochi campi che rimangono alla decisione spontanea del capitalista singolo, all’interesse di impresa sul mercato delle grandi concentrazioni; poco o nulla vi interviene la mano pubblica, e gli operai si trovano di fronte su questo terreno sempre e solo il padrone diretto. Le condizioni di lavoro sono un motivo permanente della lotta operaia, sono il pane quotidiano di questa lotta, non bisogna mai dimenticarle, pena il distacco da quel livello di condizione elementare della forza-lavoro in fabbrica che è il punto da cui tutto il resto comincia. Ma farne oggi il centro della lotta di classe, o pensare di ristabilire per questa via il rapporto partito-classe, questo è il tipico errore politico che nasce da una deformazione ideologica. Errore politico, perché non si arriva così a colpire il potere generale del capitale, che è sempre la particolare iniziativa politica di un determinato momento, la sua necessità di risolvere una contraddizione prima delle altre, la sua volontà di dominio così e così organizzata per un periodo preciso della sua storia. E la deformazione ideologica è un cattivo concetto della classe operaia, è di nuovo la mancanza di una teoria della classe operaia. Il pianterello, anche questo di rito, sull’aumentato sfruttamento degli operai, sulle loro sempre più disagiate condizioni di produzione, sulla loro sempre più penosa situazione di umiliati e offesi, e questo il contributo che crede di portare alla lotta di classe chi oggi mostra simpatia per gli operai. Il vecchio cuore garibaldino della nostra sinistra democratica, si sa, è disposto a battere solo per la causa degli oppressi in qualunque parte del mondo essi si trovino: naturale che anche nella società industriale moderna si vada in cerca di: un ceto subalterno da emancipate con gli appelli morali di una nobile coscienza civile. Naturale e molto «umano». Ma queste piccole vergogne umanitarie che vengono respinte ormai persino dai negri nei ghetti, dai guerriglieri nelle foreste, dagli studenti nelle università, come volete che vengano prese sul serio dagli operai in fabbrica? È ora di convincersi che in fabbrica ha trovato da tempo la sua giusta morte ogni ideologia.

Gli operai moderni, e non da oggi, vogliono soprattutto due cose: lavorare poco e guadagnare molto; in più vogliono il potere per garantire queste due conquiste dai flussi e riflussi a cui li sottopone il dominio incontrastato dell’interesse capitalistico. Vogliono lavorare poco perché odiano il lavoro e odiano il lavoro più di tutto, più del padrone, perché il lavoro nei loro confronti è padrone due volte, una volta come sfruttamento capitalistico e una volta come ideologia socialista, una volta come profitto iniquo del capitalista singolo e una volta come profitto equo del capitale sociale: l’etica del lavoro è un’etica cristiano-borghese, quanto di più lontano e nemico per la coscienza operaia. Vogliono guadagnare molto perché amano il benessere; hanno imparato dal socialismo che si può eliminate la miseria dal capitalismo, che si può ben usare della ricchezza, e non hanno nessuna intenzione di rinunciare a queste promesse profane; amano la vita e non gliene importa niente delle consolazioni ascetiche dei prodotti intellettuali e sanno conoscere e riconoscere solo la felicità terrena di tutti i sensi umani: sono una rude razza pagana, senza ideali, senza fede, senza morale. E vogliono il potere, il potere come dispotismo, cioè come possibilità di disporre in modo assoluto della ricchezza delle nazioni piegando l’interesse sociale generale a servire il loro stretto interesse di classe, – sfruttamento operaio della ricchezza e dei portatori di essa, i capitalisti e i funzionari loro servi, sfruttamento operaio del capitale; il potere quindi con segno rovesciato, ma senza più ideologie, senza le mascherate democratiche dei diritti dell’uomo e del cittadino. Già all’interno del capitale e sfruttando il suo bisogno di lavoro, deve nascere, dal lavoro produttivo industriale al lavoro produttivo non industriale al lavoro indirettamente produttivo al lavoro non produttivo, deve nascere una nuova gerarchia non di valori, ma, appunto, di potere, che lungo un provvisorio periodo storico, deve riorganizzare e tenere il filo dei nuovi rapporti sociali e coincidere con la distribuzione della forza e del dominio sul terreno della politica diretta. Dobbiamo assumere con coraggio il principio che non solo il capitale ha bisogno della classe operaia, ma la classe operaia ha bisogno del capitale, e non solo per la propria crescita politica, ma per lo sviluppo economico della società. Il capitale moderno è sviluppo, la classe operaia moderna è potere. O meglio, queste devono diventare le condizioni nuove della lotta di classe. È vero che sono crollate tutte le contrapposizioni arcaiche fra le due classi sociali: ma in questo senso è finita solo la preistoria della lotta di classe. Non più proletariato e borghesia, non più sfruttati e sfruttatori, non più una classe subalterna e una classe dominante, ma sviluppo economico capitalistico da una parte e potere politico operaio dall’altra, – due forze, ognuna nel suo campo, di pari potenza, con caratteri storici molto simili fra loro, con eguale vocazione al dominio della parte sul tutto, che si battono, con l’abilità e la violenza, in una lunga guerra di cui non si intravede né quando sarà la fine né di chi la vittoria. Dobbiamo disporre i nostri problemi in questa dimensione strategica moderna, se vogliamo cogliere con esattezza i compiti del momento. Comprendiamo come questa dimensione sia per tutti la cosa più difficile da assumere oggi. E per questo diciamo: importante non è mai la visuale strategica in sé, ma il modo con cui da questa si può arrivare a toccare i termini concreti della lotta. Il nemico da battere subito è l’astrattezza delle posizioni rivoluzionarie. Il compito urgente è trovare la via che porta al concreto. Ma bisogna stare attenti: l’astrattezza di cui si parla qui non è solo quella delle affermazioni estremistiche, ma anche quella della politica riformista. Non bisogna infatti concedere a quest’ultima la virtù della concretezza. Il riformismo è per gli operai la massima utopia. E proprio questa dimensione utopistica, questo essere fuori dell’interesse operaio diretto, lo fa simile all’estremismo. Alla fine di questa tradizione, che tristemente si ripete, di posizioni falsamente contrapposte, fra le ultime morenti ideologie di destra e di sinistra, si tratta di aprire la strada a una nuova Realpolitik di parte operaia.

Se l’estremismo é la malattia infantile del comunismo, nel riformismo ci sono già gli acciacchi della vecchiaia. Come in tutti i movimenti storici, i passaggi che si susseguono nel tempo si presentano poi anche contemporaneamente nello spazio. Così oggi il riformismo comunista è la senilità precoce di un movimento che è stato strozzato nel crescere, più che da tutto il resto, da questa prodigiosa seconda giovinezza del suo avversario di classe, il capitale, passato dall’epoca della sua crisi mondiale all’epoca del suo sviluppo internazionale. E l’estremismo di oggi è la forzata e attardata sosta nell’infanzia, come riflesso di situazioni, marginali anche se macroscopiche, di arretratezza e di sottosviluppo dello stesso avversario di classe, del capitale, che non ha risolto alcune sue contraddizioni secondarie, che non riesce a risolverle, che non le risolverà comunque da solo, senza l’aiuto del suo nemico interno, la classe degli operai salariati. È su questo aiuto che si può dare e non dare – in alcuni casi sì e in altri no – è il discorso che può portare alla ricomposizione di una strategia internazionale della lotta di classe. Questo discorso non mancheremo di farlo. Ma adesso ci interessa sottolineare il riprodursi della spaccatura, all’interno del movimento comunista, oggi, tra estremismo e riformismo. È questo che rende possibile la ricerca della nuova soluzione politica dell’organizzazione in un superamento di sé del movimento comunista, che va preso, qui da noi, come punto privilegiato, come perno, come soluzione già tentata e non riuscita. Noi stessi, dobbiamo venire fuori dal movimento comunista, come la classe operaia viene fuori dal proletariato. Mai bisogna dimenticare che questo movimento ha una origine proletaria diretta, non mediata da nessuna iniziativa capitalistica, anzi nata come risposta tutta alternativa alla soluzione socialdemocratica in quanto mediazione capitalistica sui problemi di organizzazione del movimento operaio. Come nessuna parte della classe operaia, anche la più avanzata, può rinunciare alla sua nascita proletaria, così nessuno di noi ha il diritto di dimenticare che a livello di masse lavoratrici c’è stata una soluzione comunista ai problemi di organizzazione. Attraverso questa soluzione bisogna passare, se veramente si vuole arrivare al di là. È il cammino dell’Europa continentale e dell’Italia in mezzo ad essa. Questo ci interessa. Ed è inutile dire: questo discorso non vale per il resto, che è poi la parte più consistente e più qualificata della classe operaia in occidente, tutto il movimento operaio inglese e americano e giapponese. È inutile dirlo: perché noi siamo fuori dalla tradizione operaia anglosassone – e non ci saremo dentro per adesso – e ogni tentativo di adattarsi subito ad essa è di nuovo astrattezza e modellistica. In mezzo a tanta sacra polemica contro 1’eurocentrismo, una prima soluzione mitteleuropea – che faccia perno sul movimento operaio italiano, francese e tedesco più qualche democrazia popolare – sembra tuttora quella che ha più possibilità di espansione: se è attiva e moderna e avanzata, può riproporre in blocco il problema della linea e dell’organizzazione al movimento operaio anglosassone; e se è concreta, se è pratica, se è politica, può mettere in crisi, e rilanciare a nuovi livelli, organizzazione e linea già esistenti nell’URSS di oggi e nella Cina di domani.

Ecco il perché di questa scelta del movimento comunista, come punto di partenza per andare oltre. Non ci devono essere ragioni sentimentali, che pure talvolta contano e giocano un ruolo inconscio nelle decisioni dell’uomo singolo, e cioè nelle prospettive che può crearsi il politico isolato. Le fotografie dei bolscevichi che abbiamo rivisto nel cinquantenario della rivoluzione ci sono troppo care, sono gli uomini che stanno dietro di noi e prima di noi, non ne potremmo comunque fare a meno, neppure volendo. Ma sono già lontani da noi come i comunardi, come gli insorti di giugno, un periodo eroico del nostro movimento che non ritorna, l’epoca delle illusioni rivoluzionarie che però avevano un significato positivo, una funzione dirompente, di rottura e di svolta. Adesso che son finite anche le cantilene delle commemorazioni, dobbiamo convincerci che no, qui da noi, in occidente, nel pieno del capitalismo, rivoluzioni d’ottobre non ce ne saranno più. Ma non ci devono essere nemmeno motivi di opportunismo. Il rapporto pratico con l’immediato passato dell’organizzazione non deve diventare culto della continuità, non deve essere la scelta della via più comoda e contemporaneamente non deve ridursi a chiacchiericcio ipercritico contro tutto ciò che è e che è stato. Certo, la condizione attuale del movimento comunista non è fatta per entusiasmare. Ed è necessaria una notevole dose di freddezza per scegliere questo come campo sperimentale più proprio.

È tanto facile guardare con simpatia la figura del vecchio bolscevico, quanto è facile sentirsi respinti dalla figura del comunista moderno, dirigente «di tipo nuovo» del partito. Eppure tra l’uno e l’altro corre un filo tenuto insieme dalle esperienze preziose di più di una generazione di militanti: esperienze che si sono tutte raccolte intorno a un tentativo di portata storica, anche se dalle infelici conseguenze politiche. No, non parliamo della costruzione del socialismo in un paese solo: questo non ci interessa qui, è un altro discorso e non è il caso di affrontarlo in questa sede. Il tentativo e quell’altro, che ha visto il movimento comunista, nell’Europa occidentale, impegnato nella ricerca di una terza via tra la socialdemocrazia da una parte e l’estremismo di sinistra dall’altra, maggioritaria ma riformista la prima, rivoluzionario ma minoritario il secondo. Non a caso proprio la Germania al centro dell’Europa aveva dato insieme il fallimento del riformismo e della rivoluzione. Questa lezione, al contrario di quanto si crede, non andò perduta. L’errore politico del movimento comunista, la sua colpa storica, non è stata quella di aver cercato una terza via, ma di non averla trovata. E non fu per tradimento dei capi, fu semmai per la loro incapacità e mediocrità e piccolezza, e neppure questo poi conta molto. La verità è che due grosse, formidabili e terribili, condizioni si abbattevano quasi contemporaneamente sull’Europa, cioè sul terreno che anche allora doveva servire all’esperimento, – due condizionamenti nuovi, non previsti e tremendamente dotati di forza: Stalin al posto di Lenin, il fascismo al posto del capitalismo. Lasciamo agli storici l’indagine dei particolari nell’influenza di questi due fattori sui contenuti politici, sulle forme organizzative della lotta di classe, e andiamo avanti. Questi due condizionamenti sono caduti, e ormai non da oggi, sono cadute le eredità passive che li hanno fatti rivivere con la guerra fredda, vanno cadendo gli ultimi residui di questa e su questa via nei prossimi anni ne vedremo delle belle. Ma i comunisti, almeno finora hanno continuato ad agire come se quelle due condizioni fossero ancora vive e presenti: di qui l’impossibilità di riconoscere o la volontà di non riconoscere il fallimento del loro stesso tentativo centrista. Bisogna riprendere questo tentativo nel suo momento leninista, del Lenin degli ultimi anni, capo del potere socialista in Russia e della rivoluzione operaia in Europa. È in questo che dobbiamo farci eredi del movimento comunista, riconsegnando ad esso l’ultima iniziativa pratica prima del suo tramonto in occidente. Per dirlo in altre parole: è necessaria una grande NEP politica se vogliamo puntare a rimettere in mani operaie il filo dell’iniziativa storica.

Non ci si può mettere invece nel solco delle tradizioni socialdemocratiche. Neppure qui vale il discorso sul tradimento dei capi. Ma neppure si può parlare di errori della socialdemocrazia come si parla di errori del movimento comunista. La socialdemocrazia è fin da principio un’iniziativa del capitale, a differenza – abbiamo visto – del movimento comunista che si presenta all’inizio come un’iniziativa direttamente di parte operaia, anche se ad un livello e in una condizione storicamente proletaria. All’opposto, la base materiale della socialdemocrazia non è quella parte di classe operaia che raggiunge condizioni borghesi. Il concetto di «aristocrazia operaia» è di nuovo un errore che nel movimento comunista ha avuto molta fortuna. Oggi, nel linguaggio diffamatorio dell’estremismo contemporaneo, copre non più gruppi di operai privilegiati, ma l’intera classe operaia dell’occidente. Per questo non bisogna concedere che all’inizio una parte della classe operaia, entrata nel campo del capitale, abbia dato il via alla socialdemocrazia classica; perché allora bisognerebbe concedere che nel seguito della storia l’intera classe operaia ha seguito questo esempio, con le conseguenze appunto evidenti sul movimento comunista dell’occidente e dell’oriente russo. Per questa via si arriva a dire che contro il capitale ci rimangono solo quelli che sono ancora fuori di esso, che non vi sono ancora entrati, non sono stati ancora ammessi, malgrado la parabola evangelica, al banchetto dei ricchi. Si arriva così a cambiare volto al proprio nemico, ed ecco al posto della solida macchina ben funzionante del capitalismo contemporaneo farsi avanti il mostro malefico dell’imperialismo. Si discute oggi sulle tattiche della lotta, se dare la preferenza al fucile o alle elezioni, se organizzare un esercito di guerriglieri o una rete di consiglieri comunali, ma la visione strategica è la stessa, copre un largo arco di forze, è comune alla nuova sinistra dei professori di università e alla vecchia sinistra dei funzionari di partito. Non si può fare a meno di rimanere sorpresi a vedere quanta strada hanno fatto le ideologie antioperaie nel movimento operaio. Ma quelli che teorizzano un nuovo blocco storico di forze rivoluzionarie arretrate non si accorgono di diffamare le forze stesse che vogliono organizzare, condannandole ad un’azione di disturbo alla periferia del sistema capitalistico mondiale e, peggio, non si accorgono di portare a una sconfitta storica queste stesse forze, perché se il loro nemico diventa il capitale più la classe operaia, operai e capitale insieme, allora le parti chiaramente si rovesciano, è la rivoluzione che diventa una tigre di carta di fronte alia macchina di ferro della moderna società industriale; e si potrà vincere qualche guerra d’indipendenza, ma la lotta di classe è perduta in partenza per il semplice fatto che non è neppure cominciata. La verità è che già negli ultimi decenni del secolo scorso la classe operaia iniziava un cammino storico prodigioso, che doveva portarla ad abbandonare la condizione proletaria a cui l’aveva inchiodata il basso livello dello sviluppo capitalistico, che doveva portarla dunque a strappare, con la lotta e con l’organizzazione, concessioni su concessioni al suo nemico di classe, e a conquistare per sé e per il resto del popolo nuove condizioni di lavoro, nuove condizioni di vita, nuove condizioni di potere. La politica e l’organizzazione socialdemocratica del movimento operaio sono state la risposta capitalistica a questo salto in avanti che la forza-lavoro industriale aveva imposto a tutta la società. La socialdemocrazia ha dunque, se volete, un’origine operaia indiretta – di nuovo a differenza del movimento comunista – mediata da un’iniziativa capitalistica sulle organizzazioni operaie e come uso capitalistico delle organizzazioni operaie. Questo è il cammino, la crescita, lo sviluppo, la storia interna, anche solo sul terreno istituzionale, delle forze di classe degli operai e del capitale, ognuna per proprio conto e l’una di fronte all’altra, come potenze politiche abituate a misurare la propria forza sulle debolezze dell’altra, e con l’occhio sempre ai problemi di fondo non alle situazioni marginali, alle prospettive di sviluppo che un’accorta condotta pratica può accelerare e non ai residui del passato che il tempo, da solo, con la sua lentezza, basta a bruciare.

Il problema primo è di linea politica. È chiaro che occorre una nuova dimensione strategica rispetto a quella che si citava sopra con ironia. Ma è perlomeno inutile che sia del tutto alternativa ad essa. Non possiamo pensare di creare prima nuove forze per poi organizzarle. Intorno all’esigenza del mutamento della linea vanno riorganizzate le forze che già ci sono. Per questo il mutamento della linea non può essere un’astratta proposta di rovesciamento. Occorre una nuova strategia, ma di breve periodo; un nuovo programma politico, ma concretamente transitorio; una nuova forma di organizzazione, ma prima di tutto sul terreno istituzionale. In questo senso, tutto quanto c’è stato, specialmente nelle esperienze più recenti del movimento operaio, deve essere messo a frutto positivamente. L’esperienza del movimento comunista ci insegna che è possibile far giocare a livello di massa una linea di globale alternativa al sistema capitalistico, ci insegna che un movimento rivoluzionario non è destinato a rimanere minoritario. Il residuo storico che ci lascia il movimento comunista è un’opposizione di massa al capitalismo. L’esperienza della socialdemocrazia ci insegna che è possibile arrivare a manovrare le leve del potere dall’alto dello stato, e che il movimento operaio può porsi come obiettivo il governo del capitale. Il residuo storico che ci lascia la socialdemocrazia: è un controllo di vertice su tutta la società. Questi due residui sono due possibilità di fatto non realizzate. Il movimento comunista in occidente non è mai riuscito a mettere seriamente in pericolo il potere capitalistico, perché ha reso sempre più generico l’arco di forze che andava organizzando, perché qui dentro non ha mai scelto gli operai, cioè non ha mai usato l’arma della minaccia direttamente operaia, l’unica che il capitale è disposto a subire: eppure questa scelta, quest’uso erano possibili. La socialdemocrazia non è mai arrivata a conquistare un’autonomia al suo governo dello stato, non ha mai posseduto una forza indipendente per prendere un’iniziativa appena diversa da quella del capitale, è stata e rimane gestione passiva del potere, registrazione delle esigenze di sviluppo della società in un momento provvisorio di crisi politica dell’interesse capitalistico: questo suo destino non poteva essere diverso. Di nuovo balza in primo piano la differenza tra queste due grandi esperienze storiche: il movimento comunista ci lascia lo spazio di una iniziativa operaia da organizzare, la socialdemocrazia lo spazio di una iniziativa capitalistica da utilizzare. Mai mettere dunque sullo stesso piano i due movimenti, mai confonderne le origini di classe, ne pensare ad una sintesi dialettica che li superi entrambi. Da ognuna trarre invece l’indicazione positiva per la lotta di oggi e per l’organizzazione di domani: assumerne i risultati storici portandoli oltre i limiti politici che li hanno bloccati. E allora: opposizione di massa al sistema, ma guidata di fatto e non a parole dalla classe operaia; controllo di vertice sulla società, ma con le mani libere dai lacci dell’interesse capitalistico. Fino a che punto è possibile oggi proporsi concretamente questi obiettivi e raggiungerli nella pratica, è ancora difficile da dire. Ma certo nel modo in cui risolveremo nei prossimi anni questi problemi sta il segreto di una rinascita politica del movimento operaio.

In Italia e nell’area mitteleuropea si pone e si porrà con sempre maggior forza quello che si dice il grande problema dell’unità fra tutte le forze socialiste. Qui da noi la cosa è complicata dall’esistenza di un partito cattolico complesso nella sua struttura, mobile nella sua azione, abile in alcune delle sue iniziative, ben inserito ormai nelle strutture amministrative dello stato data la sua lunga esperienza di governo, forte della fiducia del ceto imprenditoriale, ma capace al momento opportuno di scavalcare a sinistra la stessa socialdemocrazia. È chiaro che questa macchina va spezzata. È chiaro che forti minoranze cattoliche sono disponibili per un’azione socialista. Ma prima di pensare a questo, o mentre si pensa a questo, non è da scartare la possibilità di un rapporto con il vertice democristiano come forma di pressione sugli stessi incerti e debolissimi socialdemocratici di oggi, perché rompano gli indugi e marcino verso una rapida unità a sinistra. Il processo di unità sindacale va anch’esso favorito e utilizzato in questo senso, come necessario rammodernamento delle strutture della contrattazione a livello di lotta economica, e come creazione di un nuovo spazio per il nuovo partito sul terreno della lotta politica. Ancora qui da noi, c’è stata, per un brevissimo periodo, un’altra possibilità: quella di isolare la socialdemocrazia subito al suo nascere, chiuderla in un angolo, renderla minoritaria togliendo ad essa l’iniziativa pratica, con un’operazione di unificazione a sinistra che avrebbe raccolto nel paese una larga eco di consensi soprattutto tra gli operai e tra i giovani, le due forze che oggi contano e che sfuggono. Era una via originale da tentare con entusiasmo. Ma in questo caso la tempestività era tutto; ci voleva una macchina organizzativa duttile e rapida nell’eseguire e cervelli freschi e audaci nel dirigere: proprio quello che manca. Nel modo invece in cui si ripropone oggi l’unita PCI-PSIUP è facile scorgere la prima tappa della più vasta unificazione con il resto della socialdemocrazia. A questo punto non è male che sia così. Quando un processo storico avviene, e non si hanno forze sufficienti per batterlo e rovesciarlo, è inutile puntare il dito accusatore e fare profezie di grandi sventure; conviene adattarsi al processo per controllarlo e disporsi subito nella dimensione della sua utilizzazione. Tra i massimi problemi ancora insoluti c’è anche quello di un possibile uso operaio della socialdemocrazia. Storicamente, e a un livello di pura spontaneità, si può dire che qualcosa del genere è già avvenuto, quando la classe operaia con una serie ininterrotta di conquiste parziali ha fatto quei salti in avanti di cui si diceva nelle sue condizioni di lavoro e nel suo livello di vita, anche, tra l’altro, con la partecipazione formale al potere. Storicamente, e sul terreno della più alta coscienza del capitale, è pure avvenuto, e più spesso, il contrario: la socialdemocrazia al governo come ritorno alia stabilizzazione politica del sistema – l’uso socialdemocratico, e quindi capitalistico, degli operai – rimane la forma classica di questa esperienza e, tutto sommato, non sarà facile rovesciarla. Ma è al punto d’origine che bisogna aggredire il problema. Prima di tutto è necessario ritrovare un aggancio reale, realistico, con la situazione di fatto della classe operaia, ristabilire con essa un rapporto corretto, assumere cioè a livello politico generale – di partito subito, di stato in seguito – il suo stretto interesse particolare, al di fuori di tutti gli schemi ideologici tradizionali. Dobbiamo convincerci che senza questo non è possibile oggi nessuna ripresa di contatto politico con la fabbrica, con il luogo di produzione, che è centro, motore e cuore pulsante di tutto il meccanismo sociale, al punto che chi veramente lo possiede, possiede già il dominio sull’intera società, e chi lo perde non ha altro destino che quello di ridursi, come merita, a forza subalterna. Spezzare il canale capitalistico che unisce fabbrica-società-stato e sostituirlo con un canale operaio, è questo l’obiettivo strategico per raggiungere il quale tutte le armi tattiche sono buone. L’errore non è quello di utilizzare le istituzioni democratiche: l’errore è di credere nella democrazia. Lo stesso discorso e un atteggiamento simile vale per la socialdemocrazia. Se la fonte del potere è nel processo produttivo, chi controlla questo vince. Quando interviene la mediazione istituzionale – il partito, lo stato -, quando interviene cioè il momento della diffusione del potere, il gioco è già fatto in un senso o nell’altro. Se il partito vuole veramente puntare allo stato, deve portare la minaccia sul terreno della produzione sociale. Se non fa questo, è il vecchio riformismo che dal vertice dello stato non può scendere alla base di classe, o è il vecchio estremismo che dalla base di classe non sa salire al vertice dello stato.

Il discorso ritorna dunque al tema salario. A un livello più alto: il salario sì, ma in mano al partito. Con due risultati: la ripresa del rapporto classe-partito, una crisi del rapporto stato-capitale. La politica dei redditi è destinata a rimanere ancora per qualche tempo il punto più delicato nel funzionamento complessivo della moderna macchina economica. È qui che va puntata l’arma del no operaio, e qui che va fatta pesare la minaccia dello squilibrio. C’è una scala di priorità non solo nei bisogni del capitale, ma anche nei punti di attacco al suo sistema, e quindi nelle richieste di classe della parte operaia. Individuare questo terreno, che non è mai lo stesso, che volta a volta cambia, storicamente nel tempo e orizzontalmente nello spazio, è il compito appunto della nuova politica operaia. La lotta sul salario assicura da un lato a questa nuova politica un’adesione di massa della classe operaia – si presenta quindi in modo corretto come organizzazione della spontaneità -, d’altro lato fa saltare un’iniziativa storica del capitale e in questo modo mette in forse la sua stessa capacità di autogoverno. Solo così diventa utile mettere in programma la possibilità di una gestione non capitalistica del capitale, in questa forma aggressiva, che vede un attacco di parte operaia, a cui il ceto politico tradizionale non trova altra difesa che cedere per un momento le chiavi del governo. L’origine della socialdemocrazia al potere è stata, anche nel passato, sempre questa. Ma la spinta operaia che la precedeva era un fatto spontaneo, non rilevato dall’organizzazione e quindi politicamente tutt’altro che aggressivo, anzi nel suo controllo, nella sua autolimitazione, nel suo culto dell’interesse generale, elemento positivo di equilibrio e di stabilizzazione. Di qui la debolezza storica e la vocazione e battuta. Un nuovo cammino va iniziato e perseguito con costante chiarezza. Bisogna strappare il salario dalle mani del sindacato e consegnarlo a una politica di partito. Il partito sì, ma in rapporto con la classe. La classe sì, ma con una scelta di governo, con il suo senso del potere, la sua volontà di dominio. Cominciano così a precisarsi i termini di quella strategia provvisoria che la classe operaia va cercando a livello di capitale avanzato, o se volete i gradi intermedi, le tappe ravvicinate di una tattica di lungo periodo: lottare sul salario, ricostruire il partito, puntare al governo. Salario-partito-governo è la forma scheletrica, lo schema-guida, che assume oggi, nella congiuntura presente del capitale internazionale, il cammino storico classe-partito-stato.

È facile rendersi conto a questo punto della sorpresa di molti. Ma la crescita del nostro discorso ci impegna a questo sviluppo, e chi non lo aveva previsto, poco aveva capito di esso. Nel momento in cui la nuova forza dei giovani in quanto tali, puntuale all’appuntamento, arriva sulle posizioni del rifiuto e della rivolta, noi vogliamo di nuovo precedere il movimento, avanzando su questa che è la strada più ardua, esposta, secondo il solito, alle più dure incomprensioni. Ci viene rimproverato il fatto di non rendere mai esplicita la metodologia della ricerca. Facciamo una concessione anche su questo punto. E a conclusione di questa prima parte, mettiamo un’indicazione di metodo che vuole correggere la saggezza con l’ironia, a metà strada com’è tra Machiavelli e Mao. Per essere produttivi, e creativi, sul terreno della teoria, bisogna rompere con la tradizione e saltare in avanti, badando a rimanere sempre noi stessi; per essere produttivi, e pratici, sul terreno della politica, bisogna legarsi al livello ultimo raggiunta dall’organizzazione, cambiarlo gradualmente e cambiare noi con esso.

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