L’AUTONOMIA NELLA PRODUZIONE: DAL RIFIUTO DEL LAVORO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEL LAVORO NECESSARIO

Riprendiamo il nostro lavoro di approfondimento intorno al concetto e alle forme del rifiuto del lavoro proponendo un pezzo del 1978 pubblicato sulla rivista ROSSO – PER IL POTERE OPERAIO (n.23-24, pag. 16). Nell’articolo vengono sviluppate alcune tracce di riflessione che provano a disarticolare il pensiero produttivista della sinistra riformista di quel tempo. Seppur da contestualizzare storicamente (il riferimento ad esempio all’operaio massa o al rapporto conflittuale tra il Pci riformista e la galassia antagonista degli anni ‘70), ci sembra che i contenuti proposti nel testo risultino ancora di estrema centralità.

Aspetti come le forme di autodeterminazione del lavoro necessario, la riduzione dell’orario di lavoro e il salario sociale come strumento che sviluppi l’autovalorizzazione della forza lavoro contro la riproduzione del capitale o, ancora, la socializzazione del lavoro vivo, restano, a nostro avviso, elementi teorici e di prassi che andrebbero ripresi e ricontestualizzati, come forme di lotta in controtendenza rispetto a una fase nella quale le spinte e le rivendicazioni politiche e sindacali tendono, paradossalmente e inconsapevolmente, a irrobustire la parte padronale. 

Un concetto marxiano estremamente semplice, ad ogni modo, fa da fil rouge nel testo: se il lavoro produttivo “costituisce un elemento del processo di auto-valorizzazione del capitale” allora il rifiuto del lavoro diventa la lotta contro la “disgrazia” dell’essere operaio, diventa – parafrasando Malthus – una pratica necessaria per ridurre la ricchezza del padrone.

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1. «Essere operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia»(K. MARX, Il Capitale, libro I, trad. it., Roma, 1970, p. 556).

La lotta dell’«operaio massa» contro il lavoro produttivo

La classe operaia che interessa al Pci è la classe operaia che conta, che è la spina dorsale della produttività del paese, quella solidamente ancorata al “lavoro produttivo”. Tuttavia questo ritorno all'”operaismo”, questa esaltazione della “centralità operaia” non ha nulla a che spartire con la storia della lotta dell’”operaio massa”, né con la saggezza marxiana, né con la centralità operaia oggi.

È dunque la esaltazione del “lavoro produttivo” come tale che serve a costruire le forze sane del paese, il benessere generale. Ma perfino Malthus si era accorto che “lavoratore produttivo è colui che aumenta direttamente la ricchezza del padrone”! Secondo Marx poi il lavoro produttivo “costituisce un elemento del processo di auto-valorizzazione del capitale… perciò la differenza fra lavoro produttivo e improduttivo è importante per riguardo all’accumulazione… si riduce a questo che il lavoro sia scambiato come denaro o contro denaro come capitale” (K. MARX, Il Capitale: libro I, capitolo VI inedito, trad. it., 1969, pp. 80, 83, 82). È il rifiuto del lavoro, la lotta contro la disgrazia di essere lavoratore produttivo che fonda la centralità operaia. Infatti la definizione di lavoratore produttivo varia con il variare dei modi di produzione di plusvalore, cioè dei modi in cui il capitale costringe l’operaio singolo e l’operaio collettivo al pluslavoro, cioè a un tempo di lavoro supplementare, non pagato, che riduce il lavoro necessario in cui l’operaio produce per sé. Lo sviluppo e la riproduzione di capitale tende a ridurre al minimo il tempo in cui la forza lavoro produce per sé — il lavoro necessario — per incrementare al massimo il pluslavoro: sia prolungando al massimo la giornata lavorativa dell’operaio singolo (plusvalore assoluto), sia intensificando attraverso l’automazione e l’organizzazione del lavoro combinato la produttività del lavoro sociale, “comandando” la cooperazione produttiva e le giornate lavorative simultanee (plusvalore relativo). Ma la variazione dei modi di estorsione di pluslavoro — cioè “la storia dell’industria — dipende dalla storia del rifiuto del lavoro: quanto più si sviluppa il rifiuto del lavoro, rigidità allo sfruttamento, tanto più il capitale deve aumentare la quota di forza lavoro occupata ma in proporzione tale da ridurre il costo del lavoro, cioè il lavoro necessario, il più possibile; al punto che la forza lavoro possa eseguire il lavoro necessario solo alla condizione che il suo plus-lavoro abbia valore per il capitale, cioè sia valorizzabile per il capitale. La tendenza di capitale è dunque quella di ridurre al minimo il lavoro necessario ma per riconvertire il tempo disponibile così creato in produzione di pluslavoro, di plusvalore.

La grande impresa degli anni sessanta intende appunto comandare la riproduzione della forza lavoro all’interno di tale tendenza: la finzione degli obiettivi egualitari e ridistributivi nella programmazione economica è esclusivamente diretta a imporre su scala sociale la regola della proporzione fra lavoro necessario e pluslavoro. È il mito del lavoro produttivo, dell’autovalorizzazione di capitale come condizione dell’innalzamento del benessere sociale. La centralità operaia è allora emersa nella sua gigantesca portata politica, come asse di ricomposizione dell’antagonismo sociale, esaltando la propria estraneità, la propria lotta rispetto al lavoro produttivo. L’innalzamento del costo del lavoro, che sconvolge le proporzioni del calcolo economico del capitalista collettivo, le conquiste normative e salariali, non sono il risultato del peso istituzionale che la classe operaia esercita nelle singole scadenze contrattuali, in maniera tale che il rifiuto del lavoro compaia come elemento residuale, primitivo, anarcoide, dell’operaio massa. La centralità operaia si impone e si sviluppa permanentemente, indipendentemente dalle scadenze contrattuali, attraverso la massificazione e l’organizzazione della strategia del rifiuto del lavoro, realizzando forme di autodeterminazione del lavoro necessario che incrementano il tempo in cui la forza lavoro produce per sé, valorizza se stessa, svalorizzando la capacità capitalistica di “comandare” la cooperazione produttiva. La lotta dell'”operaio massa” introduce una rottura politica a cui Marx riconosce una fondamentale importanza per la realizzazione del comunismo: il capitale attraverso il salario non riesce più a “comandare” il lavoro necessario in funzione del pluslavoro, del lavoro produttivo. È la riappropriazione di plusvalore, sia come crescente domanda di servizi (scuola, assistenza, ospedali, trasporti, ecc.), sia come rigidità all’attacco al salario reale (rivendicazione di “prezzi politici”, rigidità ai processi di ristrutturazione ecc.), che determina il lavoro necessario come strumento di autovalorizzazione operaia, come conquista di tempo disponibile per l’innalzamento dei bisogni operai. Nella grande impresa, l’organizzazione di forme di autonomia nella produzione (attacco alle gerarchie di fabbrica, sabotaggio, autoriduzione del carico di lavoro, sino all’assenteismo organizzato) ha costretto il capitale a pagare attraverso il salario di fabbrica le spese fisse di riproduzione della forza lavoro (soprattutto quelle più incisive relative alla assistenza mutualistica e alle pensioni), ma rifiutando al capitale le condizioni di disponibilità al lavoro produttivo. Il salario è perciò vissuto dal punto di vista operaio come “sistema delle garanzie” come vittoria politica rispetto al ricatto di capitale che deve finanziare forme di rifiuto del lavoro, forme di attacco al lavoro produttivo, di riduzione al minimo della giornata lavorativa che il capitale direttamente comanda e della erogazione del lavoro vivo. Il salario deve garantire la riproduzione della forza lavoro che valorizza se stessa sottraendo lavoro vivo al diretto comando di capitale. Più del 50% della popolazione attiva stabilmente occupata (dalla grande impresa al terziario, pubblico impiego, ai servizi) pratica il doppio lavoro; ed in tale percentuale si considera come seconda occupazione solo quell’attività che raddoppia con regolarità il reddito da lavoro dipendente (Cfr. L’occupazione occulta, CENSIS, Roma, 1976). Tale seconda attività non consiste nel ritorno ad attività artigianali, arcaiche rispetto all’astrattizzazione delle mansioni propria della grande impresa; ma consiste nell’autonoma innovazione della cooperazione produttiva, in cui cadono gli elementi di “coercizione” e di “disciplina” del regime di impresa in specie per quanto riguarda l’autodeterminazione del tempo di lavoro e l’assoluta intercambiabilità nella cooperazione.

2. «L’eliminazione della forma di produzione capitalistica permette di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario» (Il Capitale, cit., p. 578).

La centralità oggi

L’attacco operaio al plusvalore assoluto e al plusvalore relativo, l’organizzazione dell'”operaio massa” contro il lavoro produttivo è il reale soggetto che fonda processi di economia sommersa, processi spontanei di autovalorizzazione, di nuove forme di socializzazione di lavoro vivo. Con la ristrutturazione produttiva, il capitale sociale intende restaurare il comando del plusvalore sul lavoro necessario, cioè reimporre la produzione di plusvalore come condizione del lavoro necessario. Attraverso la fabbrica diffusa, il decentramento produttivo, inseguendo i processi di economia sommersa, sussumendo la spontanea socializzazione di lavoro vivo e gli elementi di innovazione della cooperazione sociale, la trasformazione di capitale impone il comando della valorizzazione al lavoro necessario, ricostituisce il calcolo economico della proporzione fra lavoro necessario e produzione di plusvalore. Conosciamo la strategia del capitale sociale per imporre la riduzione del costo del lavoro: attacco al salario reale attraverso l’aumento dei prezzi, la restaurazione della “disciplina” e del “controllo” mediante l’innovazione tecnologica (elettronica ed infortunistica), attacco al salario sociale attraverso la riduzione della spesa pubblica, generalizzazione dell’estorsione di plusvalore relativo attraverso la fluidificazione del ciclo produttivo, nuova divisione sociale del lavoro in maniera tale che il lavoro diffuso sia centralizzato sotto il comando di impresa, sia fonte di lavoro produttivo.

La nuova proporzione fra lavoro necessario e produzione sociale di plusvalore relativo si impone nella combinazione capitalistica fra mercato del lavoro ufficiale e mercato del lavoro occulto in maniera tale che il salario di fabbrica ed il salario sociale non siano più sufficienti alla riproduzione della forza lavoro se non si combinano con la seconda occupazione; ed in maniera tale che per il proletariato giovanile e per la forza lavoro femminile l’economia sommersa cessi di costituire una fonte di reddito che garantisce autovalorizzazione, nella forma dell’autodeterminazione del lavoro necessario, ma diventi piuttosto fonte di lavoro produttivo per il capitale, che impone il suo comando come unica alternativa all’esclusione dal reddito. Il capitale entra così nelle case proletarie, non paga né affitto, né riscaldamento, né luce; entra nella veste di capitale fisso e “comanda” la cooperazione produttiva, appropriandosi in modo coercitivo e selvaggio di una nuova fonte di produttività. Ma tale “ricomposizione” di capitale fra lavoro necessario e plusvalore pone oggi una nuova forma di centralità operaia che intensifica la strategia del rifiuto del lavoro produttivo, come rigidità diffusa alla nuova disciplina del lavoro sociale complessivo, e come diretta rivendicazione di ricchezza. L’autovalorizzazione operaia e proletaria non può realizzarsi che limitando la giornata lavorativa al lavoro necessario, imponendo la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro attaccando l’accumulazione di plusvalore nel rifiuto del lavoro produttivo e nella diretta rivendicazione della ricchezza. E questo salto qualitativo nella storia del rifiuto del lavoro oggi è possibile non solo perché nella nuova composizione di classe si danno tali potenzialità di dissoluzione della forma capitalistica della produzione, ma anche perché la strategia del rifiuto del lavoro ha costruito le basi materiali di una nuova forma di produzione. La produzione di plusvalore oggi non può più porsi come condizione del lavoro necessario, nella misura in cui il lavoro necessario – il lavoro in cui la classe produce per sé – tende a svilupparsi in forma autonoma e separata dalle esigenze di comando di capitale. La combinazione reale fra mercato del lavoro ufficiale e mercato del lavoro occulto, nella conservazione della loro separatezza formale, coercitiva, come unica possibilità, come sola condizione di riduzione del costo del lavoro, di funzionamento della legge del valore, sta ad indicare che la liberazione del lavoro necessario dallo sfruttamento, dal pluslavoro sta nella dissoluzione del “mercato del lavoro”, nell’attacco alla separatezza “formale” che il capitale produce per porsi come condizione del lavoro necessario. La socializzazione di lavoro vivo non può svilupparsi che nella sua “separatezza” rispetto alla formazione di capitale: il lavoro necessario come autovalorizzazione della forza lavoro non può essere “misurato” dal comando di capitale, non può più combinarsi con il pluslavoro, il tempo di lavoro supplementare non pagato di cui il capitale si appropria, ma solo con l’organizzazione del rifiuto del lavoro produttivo, con l’attacco politico, organizzato all’accumulazione di plusvalore per la formazione della nuova società. “È questa una visione radicalmente diversa da quella degli economisti borghesi – e dei riformisti! – che, impigliati come sono nelle rappresentazioni capitalistiche, vedono come si produce entro il rapporto capitalistico, ma non come questo rapporto è prodotto e come, nello stesso tempo, si sprigionano dal suo seno le condizioni materiali della sua dissoluzione, sopprimendo così la sua giustificazione storica, in quanto forma necessaria dello sviluppo economico, della produzione della ricchezza sociale” (K. MARX, Il Capitale: libro I, capitolo VI inedito, cit., p. 100).

Se il capitale ha convertito l’ economia sommersa a “sua” fonte di produttività, per ridurre il costo del lavoro, la centralità operaia deve colpire ogni forma di occupazione “occulta”; e imporre nel “mercato del lavoro ufficiale” i nuovi costi dell’autovalorizzazione della forza lavoro: la riduzione generalizzata della giornata lavorativa e un salario sociale che sviluppi l’autovalorizzazione della forza lavoro contro la riproduzione di capitale.

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