SALARIO MINIMO E REDDITO DI CITTADINANZA: L’ESITO DEL NEOLIBERISMO

Il dibattito delle ultime settimane, dentro e fuori dal Parlamento, si è spesso focalizzato su due questioni, la soppressione (parziale) del reddito di cittadinanza e la proposta del salario minimo per legge. Ora del reddito di cittadinanza ci siamo ampiamente occupati negli scorsi anni[1][2], un ragionamento a parte richiede invece la questione del salario minimo. Oltre a dare numeri non ci sembra che ci sia un reale dibattito che riesca ad andare oltre gli slogan e all’indignazione. Non ci è sembrato che le cifre sul salario minimo siano ancorate a considerazioni reali. Si danno i numeri, nove o dieci euro l’ora, che siano poi netti o lordi non si capisce. Ma sarebbe interessante capire se questi dieci euro sono una cifra che scaturisce da una analisi specifica sul potere d’acquisto o da una qualche indagine sul livello minimo necessario dei salari. A noi sembrano numeri dati un po’ a caso da esponenti di partito che pare non abbiano idea delle condizioni medie di lavoro in questo paese.

Il salario minimo dovrebbe forse riguardare i contratti di categoria o qualsiasi tipo di contratto? Non abbiamo sentore che questo provvedimento possa di fatto annichilire, ad esempio, il lavoro sommerso, o le contrattazioni anomale, tipiche del lavoro bracciantile e stagionale. Contratti part-time da 4-5 ore che celano, neanche tanto bene, 10-12 e più ore di lavoro quotidiano. Questi tipi di impiego semplicemente non subirebbero grosse limitazioni dall’introduzione di un salario minimo.

Ma ragionando sulla fase nel suo complesso è interessante capire come si è giunti a dover introdurre, per legge, l’ipotesi di un salario minimo e un sussidio al reddito. Appaiono incontrovertibili almeno due considerazioni, la prima è  che le leggi di mercato, nella fattispecie il mercato del lavoro, non siano in grado di regolare o autoregolare alcunché. La seconda è che se il salario deve essere blindato da una legge dello Stato, non possiamo che prendere atto che il potere di contrattazione dei lavori e delle organizzazioni sindacali è stato pressoché azzerato. 

È sempre un’arma a doppio taglio ciò che viene acquisito come diritto senza una effettiva base conflittuale che l’abbia ottenuto e un soggetto reale che sappia difenderlo. In altri termini, se non è la lotta che produce il diritto, il rischio è sempre quello di vedersi smantellare da un giorno all’altro una misura – come ad esempio il reddito di cittadinanza, utile in una fase di profonda crisi – solo per scelte ideologiche del Governo che sussegue.

È interessante, ad ogni modo, comprendere come si sia giunti ad immaginare dispositivi di legge che sanciscano un salario minimo e un sostegno al reddito per individui e nuclei familiari in difficoltà. Solo quarant’anni addietro avrebbero fatto accapponare la pelle perché considerati assurdi. Assurdità che risiedeva da un lato nel fatto che l’esistenza del welfare statale sosteneva le esigenze di base di individui e nuclei familiari e dall’altro nella struttura di un sistema economico che si sosteneva nell’equilibrio fra spesa pubblica ed export. 

Un sistema nel quale trasporti, istruzione, sanità e alloggi non solo erano accessibili, ma fornivano essi stessi una base reddituale stabile grazie alla forza lavoro necessaria al loro funzionamento (anche se spesso potesse apparire sovrannumeraria). Seppur tra alti e bassi e tra le mille pieghe dell’italica corruttela gli apparati statali hanno comunque garantito e sostenuto la crescita del Paese. Crescita che, seppur impostata su un modello “sviluppista” e senza badare ai costi sociali ed ambientali, ha consentito per oltre trent’anni quantomeno un miglioramento delle condizioni materiali della popolazione.

Non è un sussulto di nostalgia, ma solo una descrizione, seppur molto spiccia, di come funzionava il sistema socio-economico fino ai primi anni ‘90. In una sorta di rapporto sussidiario l’industria dava lavoro e lo Stato pensava, attraverso le commesse e i vari appalti, a garantire una domanda di un certo rilievo ai settori produttivi chiave. Senza contare al diretto impegno statale in alcune branche dell’economia e dell’industria. Queste con le varie catene di valore (chiamiamolo indotto se vogliamo) trasferiva la domanda sotto forma di produzione. Il tutto si concludeva con la paga di stipendi e salari, che seppur non stratosferici venivano compensati dai servizi che de facto agivano come reddito indiretto. L’equo canone, per esempio, ha mantenuto calmierati i prezzi degli affitti consentendo di massimizzare anche i salari più bassi (pur se con alterne fortune), favorendo mobilità geografica. A questo si univa il corollario di servizi alle famiglie, da quella pediatrica agli asili nido ecc.; pur con molti limiti e disfunzioni, consentivano di tenere alta la natalità. Fattore questo che manda in crisi il modello di sviluppo liberista. Analogo ragionamento si potrebbe fare sulla funzione che ha svolto per lungo tempo lo strumento economico della scala mobile sul potere d’acquisto dei salari attraverso l’indicizzazione automatica degli stessi in funzione degli aumenti dei prezzi di alcune merci.

Non era il paradiso socialista e non era la terra promessa, era molto semplicemente un sistema socio-economico nel quale la spesa pubblica mandava avanti non solo le cordate di banchieri, industriali e costruttori, ma cercava di ingraziarsi il popolo con una serie di servizi, dietro ai quali ovviamente c’era un complesso meccanismo di nepotismi, clientele, feudi, potentati e baronie varie. Un sistema che ammetteva la raccomandazione come elemento necessario per inserirsi nei ranghi. Quindi una architettura complessa di interessi politici ed economici che trovavano punti di equilibrio più o meno stabili nei gangli della burocrazia. Nella quale era assai normale essere servo di due padroni. Ma nella sua assurda complessità quel sistema non avrebbe mai preso in considerazione questioni come salario minimo o reddito di cittadinanza. Non tanto per ragioni ideologiche, ma perché non se ne ravvedeva la necessità.

La svolta ultra liberista o neo liberista, ha imposto un radicale cambio di rotta, diradando, fino a farli scomparire, i servizi gratuiti o a canone agevolato attraverso la progressiva aziendalizzazione del comparto pubblico. Con questo si è rarefatto il potere decisionale politico all’interno del meccanismo di spesa dei fondi pubblici, forse ciò ha contribuito a erodere la fiducia nella politica rappresentativa: se non mi puoi assumere cosa ti voto a fare? Ma quel che è peggio è che con lo sgretolamento di quel modello di economia mista pubblico-privato, sono saltati i calmieri sui prezzi di alimentari, casa ed energia. Assieme a ciò è stata ridisegnata l’architettura del diritto al lavoro e dello stesso mercato del lavoro. Più dinamico e flessibile, in altre parole la necessaria precarizzazione per garantire profitti più alti e meno problemi per licenziare.

Assieme a questo cambiamento strutturale si sono ovviamente “riconfigurati” (per non dire adeguati) soggetti socio-politici storici come partiti e sindacati, i quali perdendo gradualmente, ma inesorabilmente, terreno in termini di consenso, potere contrattuale e di mobilitazione, hanno assunto una funzione completamente diversa da 30-40 anni a questa parte. Soprattutto le organizzazioni sindacali, cosiddette di sinistra, sono passate nel giro di circa sessant’anni da soggetti politici con l’intento di organizzare le masse dentro e fuori dai posti di lavoro, a soggetti di mediazione fra il capitale e il lavoro per terminare come agenzia di servizi e facilitatori. 

Su questa evoluzione del ruolo sindacale  centreremo parte della nostra analisi. Ora è chiaro che non possiamo considerare i sindacati come capro espiatorio per tutti i disastri, gli arretramenti e l’erosione dei diritti dei lavoratori. Però se il sindacato diventa il fluidificante per i fisiologici attriti fra capitale e lavoro, facendo digerire dei contratti di categoria via via sempre più dequalificanti, non può neanche dirsi scevro da responsabilità.

Se da un lato abbiamo contratti di categoria fatti accettare come inevitabili, dall’altro abbiamo categorie non sindacalizzate, che devono accettare forme di sfruttamento e precariato senza alternative (vedi gli stagionali, dalle mondine degli anni ’20 ai camerieri di oggi non c’è quasi soluzione di continuità). Quindi si configura un mondo del Lavoro a tutele differenziate, con i lavori tradizionali (industria su tutti) con contratti ancora accettabili e Iavori di nuova introduzione (vedi i riders) che non hanno una loro categoria di riferimento. Poi troviamo lavori sia storicamente non tutelati (stagionali agricoli e turistici) sia lavori che permangono nel sommerso come accompagnatori e badanti.

L’incedere della precarizzazione per flessibilizzare il mercato del lavoro, unito alla sparizione dei calmieri per le fluttuazioni di prezzo insite nell’aggressività di taluni mercati come quello immobiliare, ha finito per configurare una costante compressione della capacità di spesa di buona parte della popolazione. Ma la trasformazione da società in chiave socialdemocratica in una ultra capitalista non implica solo che la domanda di beni e servizi cresca. Quello che determina la regola del gioco è la concorrenza e il vantaggio competitivo.  

I due sistemi non differiscono solo per il dinamismo intrinseco, ma per il piano della concorrenza, che fra gli anni ‘80 e ‘90 si è spalancata al mondo intero in maniera sempre più caustica. Da qui nascono le prime problematiche strutturali, la necessità cioè di essere competitivi e flessibili, di poter delocalizzare e ridisegnare l’architettura aziendale in tempi rapidi. L’esternalizzazione di parti della produzione in aree più convenienti ha aumentato i dividendi ma ha ridotto la forza lavoro. Lo spostamento del baricentro di interessi dal mercato nazionale a quello globale ha fatto sì che il consumo interno cominciasse a non essere più un assillo per determinate industrie, che nel tempo avevano cominciato ad invadere altri mercati. 

Ma un’altra parte dell’economia nazionale si regge sui consumi, che venendo meno innescano un fenomeno anomalo, ossia alcuni settori in rapida crescita e altri in stagnazione, solo che a crescere non sono i settori che impiegano forza lavoro di massa, crescono i servizi con contratti a tempo determinato e salari bassi. Questo non stimola nessun tipo di crescita. Tutto ciò unito alla sparizione del welfare in tutte le sue declinazioni ha condotto ad un periodo di instabilità continua.

Gli alloggi costano sempre di piú sia da acquistare che da prendere in locazione. Il che implica o una spesa familiare che grava da un terzo a piú del 50% del reddito per la casa o trovare alloggi economici ma piú distanti dal luogo di lavoro, il che implica costi crescenti per gli spostamenti. Dove prima equo canone e trasporto collettivo riuscivano a mitigare le spese e massimizzare il potere d’acquisto del salario oggi il meccanismo è saltato. Il che vuol dire che tutto o quasi grava per intero (ossia a prezzo di mercato) su redditi discontinui ed esili.

È abbastanza ovvio che la domanda di beni e servizi tende ad assottigliarsi con questo meccanismo. Da qui l’esigenza di supportare la domanda con un sostegno al reddito[3]. É in quest’ottica che a nostro avviso vanno inquadrati tanto il reddito di cittadinanza quanto il salario minimo. Per ottenere i quali si deve ricorrere alla spesa pubblica. Quindi un processo di sostegno pubblico alla crescita della domanda. Non vediamo in questa strategia nessuna ombra di keynesismi di sorta.

In piú ravvisiamo il fallimento del comparto sindacale, nel pur misero ruolo di mediatore per la ridistribuzione della ricchezza prodotta. Se deve intervenire un dispositivo per imporre un trattamento salariale minimo per mantenere un certo equilibrio nei consumi significa che, come già accennato, il mercato tende a massimizzare il profitto più che trovare un optimum di equilibrio per garantire il prosieguo dei cicli di produzione. Ma significa anche che tutto l’apparato sindacale ha come obiettivo tutt’altro rispetto all’emancipazione di classe dal lavoro salariato.

In questo meccanismo manca ancora una considerazione, ossia che gli stati membri dell’UE non possono indebitarsi all’infinito per garantire il rientro dei prestiti contratti sui mercati azionari. Ciò apre un campo di analisi abbastanza complesso ma oltremodo interessante ossia il conflitto tra capitalismo finanziario e capitalismo produttivo. Il secondo tende a soccombere alle richieste del primo se la spesa pubblica (o i mancati introiti fiscali) non può crescere per sostenere la domanda.

È un circolo vizioso, solo che dalla parte della finanza c’è il mastodonte dell’UE, con le sue regole e i suoi apparati (Commissione europea MES e BCE), mentre dalla parte della produzione ci sono i goffi tentativi di governi sempre più improbi e male assortiti. Ora lungi da noi liquidare la questione del salario minimo o del reddito di cittadinanza. Sono comunque sostegni a situazioni di indigenza. Ma cosa succede quando questi vengono poi realmente applicati?

Il Reddito di Cittadinanza è stato smantellato e sarà ripristinato nell’ottica del workfare sul modello tedesco[4], un reddito condizionato non solo in entrata, ma anche in uscita. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che sarà condizionato all’accettazione di qualsiasi tipo di lavoro e in qualsiasi luogo e per periodi variabili. Immaginiamo una persona residente in provincia di Messina che per mantenere il reddito deve lavorare per Tre mesi a Milano, potrebbe tranquillamente accadere se entra il modello Hertz IV. Ora per mantenere 800 euro al mese dovrebbe spendere in quei Tre mesi magari 900 euro per alloggio, trasporto e alimenti. Come se non bastasse nell’ipotesi in cui restasse qualcosa in tasca, questo non sarebbe liberamente spendibile per comprare ciò che si vuole. Sarebbe invece vincolato a determinati prodotti. L’avvento della valuta digitale favorirebbe il processo di controllo della spesa. 

Avviandoci alla conclusione possiamo considerare quindi il sistema nel suo complesso avendo qualche idea in più per confrontarlo con il passato. Il sistema attuale prevede comunque un esborso di fondi pubblici, ma mentre fino a circa trenta, trentacinque anni orsono la spesa pubblica era uno dei pilastri dell’economia reale. Oggi la spesa pubblica è sempre più imbrigliata dai grandi interessi finanziari, ostaggio del patto di stabilità e sempre meno utile a mantenere attiva l’economia reale. In sintesi si spende di più ma gli effetti di questa spesa non sono percepiti come investimento per la società ma per mantenere interessi particolari. Al di là della parentesi della pandemia nella quale si è potuto (o dovuto) spendere per puntellare un sistema economico fragile, oggi si intravede nuovamente la scure dell’austerity. 

Quindi il “dilemma”: elargire denaro direttamente agli individui e famiglie per scongiurare tanto una recessione quanto una crisi sociale, oppure investire denaro pubblico per risollevare l’economia secondo uno schema tipicamente keynesiano. A quanto pare ambedue le soluzioni sembrano essere escluse dal dibattito. Si preferisce una sorta di terza via, un workfare misto ad un minimo salariale garantito, sostenuto dal taglio delle imposte. Sarebbe interessante qual è la contropartita. Un taglio alla contribuzione o un taglio alle imposte delle aziende (IVA, IRPEF, addizionale IRPEF, IRI, IRES e IRAP) sembrano quelle più gettonate, ma non sono provvedimenti senza conseguenze e non possono durare a lungo. La prima indebolirebbe la previdenza sociale già di per sé traballante in quanto il precariato ha ridotto il flusso di cassa in entrata dell’ INPS e gli investimenti hanno fatto il resto. Il taglio alle imposte alle imprese ridurrebbe sensibilmente una delle voci in entrata più corpose del bilancio statale. Certamente – qualcuno potrebbe obbiettare – ci sarebbero altre corposissime voci di bilancio “distratte” o “dirottate” altrove (vede le spese militari, ad esempio) ma resta, a nostro avviso, sempre una considerazione di fondo e cioè da cosa e da chi sono indotte le scelte economiche di governo. Sono effetti del conflitto capitale-lavoro o semplicementi aggiustamenti strutturali di un sistema economico in adattamento permanente? Visto l’attuale panorama del conflitto di classe, noi crediamo sia la seconda.

Al di là di speculazioni e tecnicismi rimane un punto fermo in questo discorso. Oggi si spende molto più di ieri[5], questa spesa ci costa in termini di tagli continui ai servizi e privatizzazioni continue. Da tale indebitamento non sortiscono vantaggi per la popolazione ma solo per determinati interessi. In tutto questo meccanismo  le voci contrarie sembrano sparite del tutto o, se ancora esistono, sono ridotte al silenzio. Tutto ciò che un tempo si muoveva fuori dal parlamento sembra preoccupato da ben altri problemi più che dagli scenari da qui ai prossimi cinque o dieci anni. Quando cioè potrebbero esserci da un lato delle strette dell’austerità dall’altro potremmo arenarci un una stagnazione recessiva. Non che ci interessi molto che il motore economico si fermi, ma a livello sociale cosa può accadere nel momento in cui i riferimenti storici sono evaporati e al loro posto c’è un misto fra il “si salvi chi può” e “ognuno pensi per sé”? 

Nel momento in cui il germe più nefasto dell’ideologia dominante, il liberismo più bieco, ha infettato tutta la struttura sociale, l’individualismo spinto ha soppiantato l’agire comunitario, collettivo e sociale. Quando questo sistema mostrerà tutte le contraddizioni in un vacillamento più evidente di quelli che ormai riteniamo la normalità, cosa ne sarà del rancore e della rabbia degli “ultimi” che nel frattempo lo saranno diventati ancora di più? Purtroppo non abbiamo notizia di organizzazioni che stiano prevedendo gli scenari più cupi e stiano cercando di creare quelle necessarie interconnessioni sociali che solo il recupero dell’agire collettivo può assicurare.

Ci giungono al contrario notizie di proteste contro l’eliminazione del reddito di cittadinanza – legittime per carità in un momento drammatico come questo – ma se possiamo esprimere un pensiero alla luce di quanto fin qui detto, va benissimo pretendere che il denaro pubblico sia speso per il popolo e non per mantenere i mercati finanziari o per gonfiare le spese militari ma, nell’ottica del significato che il reddito di cittadinanza ha nel sostegno all’economia, crediamo che forse assieme a tale rivendicazione, o attraverso tale rivendicazione, si dovrebbero costruire processi di critica al significato del reddito in questa fase storica[6]. 

Note:

[1].  Cfr. EFFETTO CORONAVIRUS: CRESCITA DOMANDE REDDITO DI CITTADINANZA, Malanova, 21/04/2020

[2].  Cfr. COSA SUCCEDE AL REDDITO DI CITTADINANZA?, Malanova, 19/04/2019

[3].  Cfr. REDDITO DI CITTADINANZA: UN RATTOPPO A UNA TRANSIZIONE DI FASE, Malanova, 13/07/2022

[4].  Cfr. LAVORO, REDDITO E CONSUMO (II), Malanova, 02/09/2022

[5].  Cfr. Il debito pubblico italiano: storia di un sasso diventato macigno,  Intesa Sanpaolo, Focus maggio 2020

[6].  Cfr. REDDITO E MOVIMENTO, Malanova, 28/02/2023

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