IL CAPITALISMO COME RELIGIONE

Appunti di Teologia Politica (VIII)

Nel frammento n°74 che occupa i fogli dal 26 al 28 del blocco di appunti n. 1 di Walter Benjamin è contenuta una serie di  note e appunti non sistematici che si occupano della riflessione sul Capitalismo inteso come religione. Questo frammento, secondo alcuni studiosi, dovrebbe essere datato al 1921 vista la bibliografia appuntata dallo stesso Benjamin. Tra i libri citati c’è quello di Ernst Bloch, “Thomas Münzer teologo della rivoluzione”, e forse proprio da qui deriva il titolo che è stato dato al frammento. Secondo Bloch, infatti, la riforma calvinista, in seno del più ampio movimento protestante, ha avviato la distruzione moderna del cristianesimo ortodosso introducendo “gli elementi di una nuova religione: il capitalismo inteso come religione e chiesa di Mammona”. (E. Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, Milano, Feltrinelli 1980, p. 120).

Altri studiosi, sottolineando una frequentazione antica tra Bloch e Benjamin, ribaltano la genesi dell’espressione indicando in Bloch l’utilizzatore ultimo di una espressione genuinamente benjaminiana. 

A prescindere dalla paternità dell’equazione capitalismo=religione, possiamo affermare che è un’affermazione che si riscontra, con diversa intensità, in diversi pensatori tra i quali Max e Weber, quest’ultimo citato nel frammento in questione,  per il suo  contributo più famoso, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, con la sua tesi fondamentale per  la quale il capitalismo sarebbe una secolarizzazione della nuova etica protestante che fa del lavoro il centro dell’uomo e fa del successo, anche economico, la vera conferma del beneplacito divino.

Lo stesso Marx partecipa a questo tipo di riflessione: Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente sociale consiste nell’essere in rapporto coi propri prodotti in quanto sono merci, e dunque valori, e nel riferire i propri lavori privati l’uno all’altro in questa forma oggettiva come eguale lavoro umano, il cristianesimo col suo culto dell’uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente. Nei modi di produzione della vecchia Asia e dell’antichità classica, ecc., la trasformazione del prodotto in merce, e quindi l’esistenza dell’uomo come produttore di merci, rappresenta una parte subordinata, che pure diventa tanto più importante, quanto più le comunità s’addentrano nello stadio del loro tramonto. Popoli commerciali veri e propri esistono, solo negli intermondi del mondo antico, come gli dei di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca. Quegli antichi organismi sociali di produzione sono straordinariamente più semplici e più trasparenti dell’organismo borghese, ma poggiano o sulla immaturità dell’uomo individuale, che ancora non s’è distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini, oppure su rapporti immediati di padronanza e di servitù. Sono il portato di un basso grado di svolgimento delle forze produttive del lavoro, e di rapporti fra gli uomini chiusi entro il processo materiale di generazione della vita, e quindi fra loro stessi, e fra loro e la natura: rapporti che sono ancora impacciati, in corrispondenza a quel basso grado di svolgimento. Tale impaccio reale si rispecchia idealmente nelle antiche religioni naturali ed etniche. Il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano. Tuttavia, affinché ciò avvenga si richiede un fondamento materiale della società, ossia una serie di condizioni materiali di esistenza che a loro volta sono il prodotto naturale originario della storia di uno svolgimento lungo e tormentoso (K. Marx, Il capitale, vol.I, Sezione 1 – Merce e Denaro, Capitoli 1 – La merce, Paragrafo 4 – Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, Roma 1994, Editori Riuniti). 

In questo passaggio del Capitale di Marx, potremmo intravedere maliziosamente uno sviluppo inatteso. Marx che pone l’economia politica alla base dello svolgimento delle sovrastrutture politiche, giuridiche e religiose, individua uno svolgimento borghese della religione cristiana che passerebbe dal cattolicesimo al protestantesimo e quindi al deismo illuminista per poi trasformarsi nuovamente per combaciare alla forma economica specifica del capitalismo come società di produttori di merce. Il discorso è qui ovviamente e notoriamente ribaltato. Non la metafisica fa l’economia ma è quest’ultima che genera la propria metafisica. Il contrario del concetto Schmittiano. Ad ogni fase di sviluppo delle forze produttive, struttura economica – modo di produzione, corrisponde una sovrastruttura religiosa. Ad un basso grado di sviluppo associamo le religioni naturali, ad un grado via via più alto sorgono il cristianesimo ed i suoi sviluppi eretici, protestantesimo, deismo etc.. Nell’ultima fase, secondo Benjamin, non c’è tanto una trasformazione del substrato religioso, perché il capitalismo diventa religione a sé: Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo – non solo, come intende Weber, come una formazione condizionata dalla religione, ma piuttosto come un fenomeno essenzialmente religioso (W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013, p.41).

Parrebbe, dunque, che Benjamin, più che ad una secolarizzazione delle idee cristiano-protestanti, pensi ad una strutturazione del capitalismo come una nuova religione, capace addirittura di rispondere alle stesse ansie umane arrivando a sostituire il ruolo delle precedenti religioni. Addirittura Benjamin ne elenca le caratteristiche principali: In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. In esso nulla ha significato se non in una relazione immediata con il culto; esso non presenta alcuna particolare dogmatica, alcuna teologia. L’utilitarismo acquista, in questa prospettiva, la sua tonalità religiosa. Un secondo aspetto del capitalismo è connesso a questa concrezione del culto: la durata permanente del culto, Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]reve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” […]. Questo culto è, in terzo luogo, colpevolizzante/indebitante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di culto che non espia il peccato, ma crea colpa/debito. […] Il suo quarto aspetto è che il suo Dio deve essere occultato, che non sarà permesso rivolgersi a Lui se non allo zenit della sua colpevolizzazione/indebitamento. […] L’estensione della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è venuta meno. Ma Egli non è morto, è stato incluso nel destino umano” (W. Benjamin, Capitalismo come religione, cit.).

Questo è lo stadio disperato e solitario, secondo Benjamin, proprio dell’ethos Nietzschiano. Il Superuomo non sarebbe che il primo individuo che “inizia coscientemente a realizzare la religione capitalista. Nel trittico sacerdotale di questa nuova religione capitalistica sono annoverati insieme a Nietzsche anche Freud e lo stesso Marx. Tutti esprimono questa teleologia del debito/colpa con la sua “demoniaca ambiguità”. Successivamente avrebbe modificato un parere così netto. Ricordiamo sempre che i contenuti di questo frammento erano appunti e non un lavoro sistematico: Il capitalismo si è sviluppato in occidente come parassita del cristianesimo – come dev’essere dimostrato non solo nel calvinismo, ma anche nelle altre correnti cristiane ortodosse – in modo tale che, in ultima istanza, la storia del cristianesimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo. […] Il cristianesimo dell’epoca della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, ma si è esso stesso trasformato nel capitalismo (W. Benjamin, Capitalismo come religione cit.).

Il “peccato originale” di questa nuova religione consiste in questa colpa/debito. Al contrario del cristianesimo, però, che cancella la colpa attraverso il sacrificio del Cristo che fa passare dal vecchio stato di morte ad una nuova vita, non c’è espiazione per il debito contratto con la società capitalistica.

C’è da puntualizzare però un fatto, che all’epoca nella quale Benjamin vergava questi appunti il debito era una colpa, un’onta e uno stigma, ma dopo la grande depressione e il secondo conflitto mondiale, l’indebitamento individuale è stato invece vivamente stimolato in quanto permetteva il rilancio del consumo. Una sorta di “nuovo testamento” del capitalismo sembra affacciarsi sul mondo. In realtà non si è fatto altro che annoverare tra i soggetti “autorizzati” ad indebitarsi anche i lavoratori. Prima l’indebitamento era riservato a chi produceva, ma nel momento in cui c’era da stimolare pesantemente la domanda non si poteva attendere che la popolazione risparmiasse a sufficienza per comprare, bisognava levare lo stigma del debito e farne un nuovo verbo di prosperità. 

Questo fin quando il meccanismo di riproduzione del capitale non ha acciacchi e la crescita economica va avanti a ritmi sostenuti. Ma quando il processo incappa nelle fasi critiche (siano esse le onde lunghe di Kondratiev, le crisi cicliche di Marx o i cicli economici di Shumpeter) il debito torna a trasformarsi in colpa. Soprattutto quando viene usato per ristrutturare, sostenere e ravvivare i cicli speculativi. Questo indebitamento non è più il verbo di prosperità ma torna ad essere uno stigma, e il senso di peccato torna a far capolino nella narrazione mainstream con frasi stile Repubblica piagnona “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità ora è tempo di abbracciare l’austerità”.

In conclusione, riflettendo su questi pensieri di Benjamin non può non venirci in mente la classica proiezione del rapporto tra debito pubblico e popolo secondo cui ogni neonato, in ogni parte del mondo, nasce già debitore nei confronti della società. Ancora devi esprimere il primo vagito che già ti trovi sulle spalle un debito accumulato che la società stessa ti affibbia. Se poi vuoi curarti devi contrarre un debito o stipulare una polizza assicurativa. Se vuoi studiare puoi farlo ma poi, a fine ciclo, ricordati che hai un debito da pagare: Per ora Joe Biden è riuscito a “parcheggiare” il colossale debito degli studenti americani, in uno dei 17 ordini esecutivi firmati appena entrato alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio: ha prolungato un congelamento del debito che sarebbe scaduto alla fine di gennaio fino al 30 settembre e non ha raccolto l’appello della sinistra del suo partito che voleva fin da subito un’azione più incisiva. Ma la sfida, colossale, sul piano economico, finanziario e sociale oltre che politico, resta: come trattare i 1.600 miliardi di dollari di prestiti contratti dagli studenti americani e dalle loro famiglie per poter pagare le rette universitarie e prendersi una laurea? […] La stragrande maggioranza del debito, oltre il 95%, è infatti detenuta dal governo americano che carica tassi fra il 3 e il 4%. Una riduzione unilaterale del debito sarebbe come concedere un taglio fiscale mirato. C’è da dire che il peso di questi debiti sulle casse familiari, soprattutto in mezzo al Covid è insostenibile: alla fine del 2019 ben 43 milioni di americani erano indebitati per poter studiare, con un onere mensile di interessi medio fra i 200 e i 300 dollari. E quando un giovane americano entra nel mondo del lavoro ha già accumulato un debito fra i 40 mila e i 60 mila dollari per un’università statale e fra 200 e 300 mila dollari per una privata. Cifre che non hanno paragoni con il resto del mondo industrializzato. […] La dinamica è esplosiva. E indebolisce l’America nella competizione globale: la Cina manda i suoi studenti all’università gratis e sforna 60 milioni di ingegneri all’anno (M. Platero, Usa, sull’America di Biden la zavorra del debito per chi studia, la Repubblica, 25 gennaio 2021).

Una colpa/debito immane che colpisce l’individuo, capitalista, occidentale, sin dalle fasce e che prosegue con la scuola e continua con il lavoro. Se non sei realizzato, dice il liberal-capitalismo, se non lavori, è colpa tua. Evidentemente preferisci poltrire invece di darti da fare. E qui ci discostiamo dall’analisi di Benjamin che su abbiamo assunto tal quale risulta dal frammento. Il nostro, infatti, parla di una religione capitalistica senza teologia e senza dogmi. In realtà, come vedremo, in un prossimo articolo, il capitalismo ha i suoi dogmi e la sua teologia. Nell’esempio appena posto, il disoccupato è in realtà un nullafacente agli occhi dei sacerdoti liberisti perché uno dei dogmi sistemici è quello dell’uguaglianza dei punti di partenza e delle possibilità. La società è libera, meritocratica, tutti possono competere ad armi pari, e se tu non ce la fai vuol dire semplicemente che non hai saputo competere, ti sei arreso. Colpa/debito. Parleremo successivamente degli altri dogmi di questa fede.

La redazione di Malanova

I precedenti contributi:

Appunti di Teologia Politica (I) – LA POLITICA COME PENSIERO SCORRETTO

Appunti di Teologia Politica (II) – SPAZZOLARE LA STORIA CONTROPELO

Appunti di Teologia Politica (III) – GLI ALBERI DEL BOSCO ANDARONO PER UNGERSI UN RE

Appunti di Teologia Politica (IV) – SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE (I)

Appunti di Teologia Politica (V) – SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE (II)

Appunti di Teologia Politica (VI) – LA PIETRA DEL VATICANO: POLITICIZZAZIONE DELLA TEOLOGIA

Appunti di Teologia Politica (VII) – PROFANARE LA RELIGIONE CAPITALISTICA

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