LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (V)

Nel quinto appuntamento con il testo di Dario Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto (Feltrinelli, 1979), in occasione dei 60 anni della rivolta, proseguiamo con un primo estratto del quarto capitolo Quelli di Piazza Statuto (pp. 101-113), caratterizzato dallo stile dell’inchiesta militante attraverso la quale l’autore raccoglie le testimonianze dei protagonisti diretti delle tre giornate torinesi e ai restituirci un quadro complessivo degli avvenimenti. 

Attraverso il metodo dell’inchiesta, dunque, lo scrittore spezzino riesce a mettere a confronto fra di loro (ma anche con le ricostruzioni dei giornali e delle organizzazioni politico-sindacali, come abbiamo avuto modo di evidenziare nelle precedenti puntate) alcuni tra i protagonisti di “Piazza Statuto”. Questo lungo quarto capitolo è attraversato infatti dalle testimonianze di operai, attivisti sindacali e giovani militanti del PCI e del PSI, ma anche di operai provenienti da altre fabbriche, giovani proletari e studenti che raggiunsero la piazza o che, passando casualmente, vi rimasero.

La prima di queste testimonianze che proponiamo è quella a Michele Dimanico, giovane operaio della Fiat dove risulta chiara l’evoluzione della composizione di classe, delle nuove forme del conflitto e dell’esplicitarsi di una violenza di classe non sterile ma rivolta a contrastare quella padronale. Emergerà in questa prima intervista la necessità di dotarsi di strumenti come un giornale espressione dell’autonomia di classe, il ruolo centrale degli operai meridionali e il consolidarsi delle divergenze con le organizzazioni, politiche e sindacali, del movimento operaio di allora.

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Io sono entrato nel ’59 alla Fiat, a maggio […] e seppure breve, è stato un periodo bellissimo perché diede il via a tutta una nuova concezione della vita da parte mia. I primi segni di avvertimento li avevamo avuti dalla famosa lotta della Lancia, che ha aiutato moltissimo psicologicamente gli operai. La lotta alla Lancia era molto diversa da quella della Fiat: io so che la Lancia faceva molte assunzioni soprattutto prevalentemente fra i meridionali, mentre invece la Fiat faceva una scelta più oculata nelle zone agricole del Piemonte. Che è stata una scelta buona, dal loro punto di vista. Non per niente hanno ritardato certi fenomeni di due anni. Allora dovevi sempre misurarti con questi compagni: i piemontesi non hanno mai avuto la rabbia che hanno i meridionali sradicati.

Sono entrato come addetto macchina alla Spa centro quando avevo 25 anni, e agli inizi era come un grosso traguardo entrare alla Fiat, il clima di allora era questo. E probabilmente se mi avessero accontentato in certe cose la coscienza di classe l’avrei acquisita molto più tardi. Avevo chiesto un posto come aggiustatore, perché avevo seguito una scuola e avevo una certa conoscenza del disegno e invece mi avevano messo a fare l’addetto macchina (tutti i lavori più schifosi) di terza e sono sempre rimasto di terza.

Di primo acchito la mia è stata una ribellione istintiva a un intervento del dottor Pistamiglio, che ha detto: “Ricordatevi che qui alla Fiat non si può sputare nel piatto in cui si mangia, niente contatti con alcuni comunisti che ci sono ancora perché noi abbiamo maniche larghe, ecc .” Questo fatto mi ha colpito e io mi chiedevo “perché non devo parlare, cosa sono questi comunisti?” E la prima impressione era che i comunisti, nella media dei lavoratori, erano i più preparati, erano quelli che leggevano o comunque facevano uno sforzo per leggere qualcosa e quindi se io da La Stampa avevo un certo orientamento, loro coi loro quotidiani ne avevano un altro. Ma comunque c’era in comune la possibilità di discutere. E a questo punto è cominciato un certo processo. D’altra parte tentavo di avere un rapporto con la gerarchia di fabbrica. Ma quest’ultima era un muro di gomma, per cui cercavi di parlare, di chiedere spiegazioni di certi fatti: perché aumentasse la produzione ma la paga era sempre quella; perché a un certo punto in una squadretta dove si facevano 100 pezzi, se mancava la metà degli operai si doveva continuare a fare 100 pezzi. Anche lì un muro di gomma con risposte evasive che ti dicevano che il cottimo era collettivo, ecc. Allora io rispondevo: come mai se il cottimo era collettivo pochi capitalisti riuscivano a impossessarsi di tante cose, se lo sforzo era collettivo… Quest’idea a me, abituato in un certo modo, uscito da un collegio, con nessun orientamento di lotta reale, mi aveva colpito.

Cosi cominciavo a capire quali erano i meccanismi dello sfruttamento. Quello che mi colpiva di più, era che a un certo punto tu non contavi veramente niente. E l’istinto era di chiederti “perché non conto niente? mentre invece devo contare qualcosa!” E da questo, è nato il mio tentativo di collegamento con le forze politiche, con i sindacati, ecc.

Io sono entrato alla Fiat proprio nel periodo in cui si firmava quel famoso contratto del ’59, che è stato firmato al 3% (è una cosa irrisoria). Io non avevo cognizioni di fabbrica ma quello che mi aveva stupito è che si entrava, nel periodo dello sciopero (perché comunque il sindacato dichiarò degli scioperi), davanti a una forza pubblica massiccia. E io mi dicevo “ma come è possibile che si debba andare protetti dalla polizia a lavorare, capisco in un luogo di divertimento, ma a lavorare?!”

Poi la domanda “come organizzarsi?” Il problema era che non lo potevi fare con le tue forze. Dopo un po’ ti rendevi conto che cercare dei collegamenti era una cosa necessaria e terribile. Se andavi a dire a un compagno “riferiscimi qualcosa sulle macchine, come funzionano” il 99 % si tirava indietro; avevano la paura di farsi scoprire. Questo nel ’59-60. Dopo un anno di lavoro però mi sono reso conto che c’era il cambiamento.

Questo cambiamento era strano, ma era un cambiamento fatto di autocritica, di una autocoscienza nascosta. Perché un operaio che a un certo punto dice : “La colpa è nostra”, poi “non riusciamo a tirarci fuori”, era comunque una posizione di coscienza. E questo era però un fatto generico che non si traduceva in azione concreta, in coraggio.

Ti racconto un episodio. A me non davano il premio di produzione famoso (premio di produzione che era poi premio antisciopero). Il primo anno non l’ho ricevuto, né il secondo; ma il terzo anno gli operai quando hanno saputo che non ho preso questi soldi… chi 500 chi 1 .000 chi 300 lire e io ho preso molto più degli altri. Han fatto una colletta e m’han detto testualmente: “Di gente come te ne abbiamo molto bisogno.” Questo mi ha fatto capire che bisognava passare a delle azioni più decise.

E allora con alcuni compagni socialisti, A. B. e due o tre altri, abbiamo deciso che bisognava far qualcosa. In un primo tempo abbiamo detto: “Va be’ cerchiamo quanta più gente è possibile. “In realtà poi quando andavi a sollecitarlo per qualcosa questo non c’era, aveva paura. A quel punto lì maturava in me la convinzione che comunque bisognava iscriversi a una forza politica che ti potesse far esprimere. Allora io non riuscivo a ragionare dei limiti dei sindacati, non ero ancora addentro a queste cose. Mi sembrava opportuno entrare in una forza che, bene o male, era contro il padrone e cercare di marciare insieme a loro. Questa forza in quel periodo era la Cgil. Così per primo mi sono iscritto alla Cgil e in un secondo tempo mi sono iscritto al Psi. Devo dire però, che l’aiuto più grosso l’ho ricevuto dal Psi.

Poi ci siamo detti: “Facciamo un giornale.” Ma il tempo passava e non riuscivamo… perché A. B. giustamente diceva: “facciamolo fare da tutti, non deve essere un giornale che deve essere fatto da uno che è più bravo…”. E io dicevo: “Però bisogna far qualcosa, se si aspetta che tutti scrivano…” Tutti avevano paura perché probabilmente non sapevano scrivere anche se i loro sentimenti erano uguali ai nostri. Nel frattempo, in febbraio, erano capitati due o tre incidenti, di cui uno grave: un cavo di acciaio aveva mezzo massacrato un operaio e mezz’ora dopo la direzione faceva già riprendere il lavoro e la gente si era incazzata e una parte aveva fermato.

Verso febbraio del ’62 ci siamo chiesti: “Perché non facciamo sciopero?” E allora abbiamo fatto di tutto per far riuscire quel famoso sciopero nel febbraio del ’62 che mi sembra che quel giornalista chiamò le “fumisterie” criticando il sindacato perché in quello sciopero si mosse pochissima gente.

Ma, secondo me, questo sciopero il sindacato non ha avuto il coraggio di dichiararlo esplicitamente. Perché ci dicevano: “Dovete fare uno sciopero interno per vedere come riesce, per vedere poi se riusciamo ad allargarlo. Voi dovete essere in grado di fare uno sciopero interno, improvviso; e poi noi, vedendo come va questo, siamo poi in grado di darvi una mano preparando uno sciopero più grosso, di reparto o di fabbrica”. Allora noi abbiamo tentato questo. Ma quello che ricordo è anche la paura: “Lei lavora? E lei?” dicevano i capi avvicinandosi ai lavoratori fermi e gli operai: “Ma, noi… veramente…” Però, malgrado una giornata di questo genere, che oggi sarebbe abbastanza incredibile, alla fine della giornata avevamo una sensazione che davvero si fosse riusciti in qualcosa. E ci siamo resi conto che rappresentava l’inizio. Allora sono cadute le remore per quel famoso giornale e abbiamo cominciato a scrivere. Si chiamava Potere Operaio. Io non ce li ho neanche tutti, sono usciti tre o quattro numeri. A questo punto non ero ancora stato scoperto dalla direzione. Quindi continuai a riferire sia al partito sia alla Cgil. L’impressione era favorevole alla dichiarazione di sciopero, perché molta gente si diceva disponibile.

Passò un po’ di tempo. In fabbrica non si faceva altro che discutere che non eravamo capaci di muoverci, che eravamo dei conigli, che prima o poi dovevamo muoverci, ecc. ecc. A questo punto mi sembra che si stavano facendo i preparativi per la nuova Commissione Interna. Io sono stato ammesso come candidato. Quando la direzione vide il mio nome tra i candidati mi mandò a un lavoro più pesante, alle teste cilindri dei camion, con sette forature multiple, con 50-60 punte che lavoravano contemporaneamente. Dovevo alimentare contemporaneamente quattro macchine, con una polvere infernale (era tutta ghisa) per cui tu arrivavi a sera veramente stanco.

Mi sono trovato sbattuto lì immediatamente. Però prima di farmi questo la direzione mi aveva chiamato e mi aveva detto: “Ma insomma! Lei sa, può andare avanti, ci dispiace di…”. Neanche una settimana dopo mi davano tre giorni di sospensione perché avevano detto che io mi ero assentato dal posto di lavoro. E non era assolutamente vero. Allora io sono andato in ufficio, mi son

seduto, ho detto: “Io non mi muovo di qua finché non lo giustificate”. Me l’hanno tolta. Però son passati due giorni e me ne han data un’altra, di un giorno solo.

Ormai c’era la persecuzione, a quel punto lì non potevo assolutamente più muovermi. Poi terminai una relazione scritta da altri, dove però misi qualche parolina mia e un’altra volta alla radio della fabbrica, dove misi qualche parola un po’ più feroce, di quelle del sindacato.

Poi usci Potere Operaio con gli articoli tutti firmati, perché all’interno del nostro gruppo ci fu una lotta di un certo tipo. Noi abbiamo detto: “Dobbiamo fare in modo che la gente sappia chi scrive questi articoli”. Io ancora oggi sono convinto di queste idee. In fabbrica, almeno, è fondamentale. Certo non ha importanza che, a un certo punto, ti scopri con i padroni. A parte che ti bruci comunque. Uscì un articolo con le firme e da quel giorno lì la persecuzione aumentò. Però cresceva tutta una grossa solidarietà intorno. Era una solidarietà non ancora completa, con molti limiti, che non ti permetteva di muoverti seriamente. Ho cominciato a muovermi un pochino di più quando c’è stato il rinnovo del contratto.

Nel frattempo, ero già stato trasferito alla Spa Stura perché avevo dato dell’asino a un capo. E qui, dopo 5-6 mesi avevo già assistito a diversi incidenti. Ragazzi che si portavano via le dita, perché i ritmi erano abbastanza bestiali. Io non ce la facevo mai, la catena se ne andava per conto suo. Io mettevo la testa ai cilindri dei trattori piccoli; dovevo bloccarli, mettere le scodelline, mettere le punterie, chiudere tutto con la chiave tarata. E poi ruotarla per darla al collega che andava avanti. Lavoravamo tutti al limite massimo delle nostre possibilità. In quel periodo ho avuto quella crisi di rapporti che mi ha portato a scegliere proprio i lavoratori di cui la direzione diffidava e faceva diffidare.

Uno di questi, però, era un compagno vinto, che non aveva più coraggio. Lavorava con me alle teste cilindro, aveva una malattia agli occhi, una specie di cataratta, non lo muovevano di là e allora era l’unico che parlava con me. Un giorno m’ha detto: “Guarda che mi han chiamato in ufficio e mi han detto che non devo più parlare con te”. Io gli ho detto: “Fa’ un po’ come vuoi, ma una cosa devi fare: con questi occhi non puoi più stare qui”. Questo stava tre mesi a casa finché guariva, quando tornava lo rimettevano nuovamente lì . Era quel lavoro li che gli faceva male e in alto loco lo sapevano, si vede che era allergico. Come c’erano altri allergici che lavoravano con le mani completamente immerse nell’olio. C’era chi non reagiva, chi reagiva con foruncoli… guarivano con la pomata, tornavano e si ammalavano nuovamente. Di solito era la gente perseguitata, perché i lavori più nocivi non li davano a tutti. Chi era un uomo tranquillo spesso gli si trovava un posto adatto.

E poi è arrivata la lotta del ’62 che ha dato quella spinta. Il problema era questo: noi avevamo questo contratto. Penso che ci fosse una certa tendenza generale, nel ’60, a ritenere che l’Italia fosse entrata, economicamente, in un periodo buono. E quindi una certa forza di poter costringere i padroni a dare qualcosa di più, visto che guadagnavano di più. Penso che questo sia fondamentale nella coscienza comune della gente. Anche a me pareva esatta una cosa del genere. Poi il mito della Fiat immaginato come una grande famiglia, nel senso che aveva la propria mutua, i propri centri culturali ecc., cominciava a logorarsi. Nel senso che quei servizi, che quando la Fiat era piccola forse funzionavano meglio che altrove, quando sono entrato io non funzionavano più “tanto bene”. Tu andavi in mutua e aspettavi un’ora o due il medico per la coda; quindi c’era un mito che stava frantumandosi. E poi c’era la paga, che non ti dava più sicurezza.

Tutto questo influiva notevolmente sul nostro modo di pensare e di agire, e c’era la voglia di battersi per una cosa che non fosse ridicola. Io non sapevo allora la storia precisa del sindacato, ma mi è sembrata quella di aver dovuto resistere a tutti i costi, sotto un attacco violentissimo, mentre adesso si tentava di passare all’attacco.

Questa sensazione era dovuta a tutto un insieme di cose. Molte volte la gente più arrabbiata con la direzione, con la gerarchia Fiat non erano tanto i compagni militanti che erano più coscienti; spesso la più arrabbiata era la gente che veniva dalla campagna. Da noi c’erano ancora pochi meridionali; da noi c’erano dei relativamente giovani che venivano tutti dalla campagna piemontese. Allora c’era stato il grosso boom dei paesini piemontesi i cui parroci erano in pratica gli informatori della Fiat. Io mi ricordo che li mandavano a prendere dai paesi, ne ricordo tre o quattro del paese di mia moglie. Ed era un discorso molto difficile, però anche loro, lentamente, cominciavano ad aprirsi, con molta più difficoltà che per quanto riguardava i meridionali anche perché loro avevano degli sbocchi che i meridionali non avevano perché dovevano vivere con quello che la città, che il rapporto di produzione gli dava, mentre per i piemontesi c’era una mezza cascina… un orticello da qualche parte; c’era la possibilità di risparmiare e quindi la possibilità di avere condizioni meno dure. Questa gente (i non compagni) è riuscita a nascondersi in un movimento, non pagava di persona, ed è esplosa molto più duramente dei compagni. Gli altri avevano la coscienza e quindi la paura che ci fossero provocazioni e quindi erano anche frenati. Questa gente menava le mani, anche

se poi tendeva, per la paura, a nascondersi. E penso che siano stati questi che abbiano giocato un ruolo fondamentale nei fatti di piazza Statuto e nelle denunce di Valletta o degli 88 licenziati di quel periodo; perché i cosiddetti “atti di teppismo”, quando andavano a rovesciare la macchina del capo servizio o gli impedivano assolutamente di entrare in fabbrica o lo menavano, tutte queste cose qua, io sono convinto fossero un fatto spontaneo e incontrollabile. Il sindacato a mio parere in quel periodo comprese la tendenza e cercò di controllarla, ma in effetti io non conoscevo bene la situazione al sindacato anche perché i rapporti li mantenevo molto di più col Psi.

Comunque preparammo bene la lotta contrattuale. Alla prima dichiarazione di sciopero, il 13 giugno, quando sembrava sicuro l’esito positivo, praticamente fallì perché facemmo sciopero solamente i candidati delle liste di CI (e neanche tutti)… Al mio cancello eravamo, mi sembra, in cinque. Comunque una cosa che ricordo bene fu la sera stessa del fallimento. Perché lo sciopero non era riuscito? Non saper cosa dire, non saper bene come analizzare una lezione di questo genere davanti ai responsabili, davanti ai compagni della Camera del lavoro e del partito. Perché anche il partito sapeva che in quel momento era molto importante riuscire. E poi il secondo sciopero che riuscì in un modo meraviglioso… Quell’esperienza lì non te la saprei più raccontare… è stata talmente graduale e talmente enorme allo stesso tempo… è stato un salto di qualità… ma neanche un mese dopo ci hanno licenziati. Io sono stato licenziato il 3 agosto.

Del secondo sciopero ricordo soltanto una cosa: noi siamo andati là verso le tre e mezzo del mattino, c’era già la polizia, uno spiegamento enorme di polizia. I primi compagni che arrivavano, i soliti crumiri incalliti che arrivavano alle tre; però, man mano che veniva il grosso, vedevi che molti entravano con la testa bassa, ma una parte notevole stava fuori. Per la prima volta, io vidi dei compagni, che non avevano abbandonato, ma piuttosto subito, che erano stati dei vinti, giocoforza, sotto una situazione di lavoro, economica, familiare e che avevano riacquistato la propria capacità di dire no al padrone. Ho visto parecchi operai piangere, come credo di non avere visto mai; e piangere di un pianto così felice che questa è proprio una sensazione che non dimentico. E siamo andati poi al bar e abbiamo bevuto e abbiamo discusso di come andare avanti, come fare, ecc. ecc.

Quel che ricordo è che, ritornando in fabbrica, nelle rispettive squadre, c ‘era molta più umanità, molta più possibilità di parlare e di movimento, cosicché all’interno di questo primo successo lavorammo perché si allargasse ulteriormente e fummo aiutati anche dal clamore dei giornali che scoprirono che forse la politica di Valletta non era tutta da lodare… Al secondo sciopero fummo 700 su 5 mila, al terzo sciopero tutti.

Poi venimmo a sapere anche del fatto di don Antonio, cappellano militare. Questo qui veniva in fabbrica e regalava le immaginette di Santi e Madonne. Allora io una volta lo fermo e gli dico: “Cappellano, non si vergogna di regalare le immaginette? Qui ci portano via la pelle”. E lui mi rispose : “Finché non vi tirate su le brache voi non c’è niente da fare”. Così diventammo abbastanza amici. E poi seppi che la direzione la sera stessa del contratto bidone l’aveva convocato: gli han detto: “Lei deve andare in giro dicendo che è un buon contratto (mi sembra che han chiuso al 6%) e che gli operai dovevano stare tranquilli ecc. ecc. E lui ha risposto: “Se volete un cappellano militare io sono qua, se volete un pompiere andate a prendervene un altro”; al che la direzione lo ha fatto accompagnare dal sorvegliante al cancello, gli ha tolto il tesserino e di lui non si è più saputo nulla. Infatti io due giorni dopo cercavo di questo prete per fargli una intervista per Potere Operaio, ma mi sembra che venne isolato anche dalle gerarchie religiose; cioè venne nascosto, praticamente non si riusciva più ad avere un colloquio con lui.

Alla Spa ci furono alcuni casi molto rari in cui alcuni crumiri vennero picchiati. Io non fui presente a questi fatti, però vidi un sacco di “barotti” i quali, avendo fatto sciopero prendevano delle zolle di terra che pesavano chili e le gettavano addosso ai crumiri dicendo: “Mangia, crumiro”. Erano forme di violenza apparenti, ma di liberazione reale, non c’era cattiveria negli stessi crumiri, abbassavano la testa e se ne andavano via. Non ricordo altri fatti di violenza alla Spa Stura in quel periodo. Avevano rovesciato qualche macchina, ma di prepotenti che volevano entrare a tutti i costi. Rappresentavano i dirigenti, comunque gente al vertice all’interno della fabbrica. Un altro particolare che mi sembra giusto ricordare è che un cronista della Stampa il giorno prima aveva firmato un articolo descrivendo com’era andata questa lotta; e ci aveva descritto come dei violenti. L’abbiamo circondato ben bene, un centinaio, e gli abbiamo detto: “Lei cosa scrive?” Lui ha cercato mille scuse, che non era colpa sua, che il pezzo era suo come firma ma che l’impostazione l’aveva data il direttore; allora un operaio gli ha detto: “Senta, se noi le vendessimo un’automobile con le ruote quadre, lei la prenderebbe? Lei le informazioni che ci ha dato è come se ci avesse venduto un’automobile con le ruote quadre”. Questo aveva una fifa matta, era arrossito come un peperone, sudava, non capiva più quello che si diceva. Anche lì non abbiamo avuto la capacità di dimostrare completamente che questo individuo era un burattino del padrone, perché c’era in molti una certa deferenza per il giornalista, per la persona importante, per il privilegiato. Non l’abbiamo neanche menato perché non eravamo dei violenti, questa era la realtà; perché mi sembra che a un certo punto un operaio gli abbia detto: “A questo punto dovremmo proprio menarti per dimostrarti che tu hai ragione, ma vai vai stronzo”. Partito subito, senza farsi più vedere, anche professionalmente anche dopo anni.

Ricordo anche alcuni episodi secondari. Di Todisco (militante comunista divenuto nel ’68 uno dei principali leader operai della Lancia, nda) che fu portato di forza dalle guardie nella guardiola. Era uno del Pci, l’han preso perché dicevano che aveva picchiato qualcuno, non ricordo bene; lo prendono e dopo neanche trenta secondi vedi un manipolo di operai, saranno state 100 persone, che vanno alla guardiola, se lo prendono e se lo portano via di brutto. Ho l’immagine di alcuni carabinieri giovani, vestivano con la divisa color caffè, col tascapane pieno di armi. Ricordo di essere passato in macchina, perché anch’io ogni tanto volevo fare il giro di tutta la città quando eravamo in sciopero. Ne avevano preso sei o sette e li avevano messi nel muro della Lingotto e li si erano trovati isolati. Gli han detto: “Non vi muovete! State solo tranquilli che nessuno vi fa niente, ma non rompete i coglioni”. E quelli erano più bianchi che mai, sull’attenti … Ricordo poi, un guardione particolarmente… bastardo come pochi, che credeva ancora nella forza della sua divisa, e a un certo punto tra un gruppo di operai uno gli ha gridato: “Io ti prendo a te e ti ammazzo, bastardo; e quello : “Ehi tu, qui”. E i suoi colleghi: “Stai zitto che se no ci ammazzano tutti, stai zitto”. Insomma, dopo un po’ vedo un mucchio di operai dopo aver scavalcato il cancello inseguirlo di corsa in mezzo ai capannoni.

Poi c’è lo scontro di piazza Statuto. Io sono andato ma poi sono scappato via subito. Io col gruppo del Psi siamo andati a mangiar fuori il sabato pomeriggio, talmente contenti… Quando siamo tornati sai cos’è capitato? Io abitavo dall’altra parte della città, loro mi hanno accompagnato in macchina, tornando sono passati da piazza Statuto e hanno preso un sacco di legnate: dagli operai, perché facevano i pompieri, dalla “pula” perché li conoscevano per sindacalisti.

I fatti ricordo si svolsero in questo modo. Al mattino ci si svegliava sempre un’ora prima per andare a far picchetto; sentiamo che quella notte c’era stato l’accordo, allora incazzati come una bestia, insieme ad altri abbiamo cominciato a fare casino. Allora A . B. ha cominciato a dire: “Non c’è stato ancora nessun volantino, formiamo tutti dei gruppi sparsi, andiamo in piazza Statuto a farla vedere alla Uil”. Eravamo davanti alla fabbrica a fare i picchetti. Io non sono andato, questo devo dirlo per onestà, comunque la maggioranza è andata, alla spicciolata, con in testa A . B. Militanti in questo gruppo ce n’erano pochi, erano quasi tutti spontanei, gente incazzata per essere stata presa in giro e che voleva fare casino e menare giustamente le mani . A. B. aveva ascendente, era un capo-popolo. È riuscito a convogliare un bel po’ di gente. Evidentemente la voce si è sparsa perché poi in piazza Statuto ce n’era un fottio. Sono partiti e poi mi hanno raccontato che sono entrati dentro, che hanno fatto un casino della Madonna; però con precisione io non ricordo molto bene. E so però che l’iniziativa era partita dalla Spa Stura. C’era voglia nella gente di picchiare, dopo quell’accordo, c’era una gran voglia di menare le mani. Da noi in fabbrica i rappresentanti della Uil erano spariti. Vidi molti iscritti alla Uil che minacciavano il proprio rappresentante; io, devo dire onestamente che tendevamo, anche se non chiaramente, a un’azione che ci salvasse il contratto, perché il nostro problema fondamentale era quello, e quindi questa rabbia radicale nei confronti della Uil era proprio dettata da questo.

Certo io ricordo la campagna di calunnie contro il movimento di piazza Statuto… Tutte balle, a un certo punto la gente s’era incazzata davvero. Io come l’ho vissuta? Un po’ sul piano sindacale, anche perché i punti più nevralgici di questo impatto radicale non li ho vissuti direttamente; perché quando hanno rovesciato la macchina del direttore Pistamiglio, non c’ero anche se poi mi hanno accusato di questo […] per potermi buttare fuori dalla fabbrica. Il problema della violenza vista dalla parte operaia io non l’ho visto come lo potrei vedere oggi, l’ho vista dalla parte del sindacato, che comunque ritengo ancora oggi, difendeva gli operai che erano andati in piazza Statuto, anche se sempre più blandamente, se ricordo bene. Si invitava la gente alla calma, perché la loro analisi di fondo era che la rabbia non serviva nemmeno ai lavoratori a liberarsi della loro alienazione.

Credo che in quel periodo non ebbi coscienza della differenza tra lotta in fabbrica e lotta in piazza; pensavo che fosse molto importante che lo sciopero riuscisse e io rimasi a fare il picchetto comunque.

Ecco perché io non vissi direttamente la violenza dei lavoratori, contro una violenza più forte nei loro confronti; ecco perché non ho ricordi molto ben specificati. In quel momento lì, siccome sapevo che una parte di compagni andavano in piazza Statuto, per me era importante non indebolire l’altro centro, perché era molto importante che lo sciopero riuscisse.

Io pensavo all’inizio che piazza Statuto dovesse rappresentare un momento in cui un gruppo di compagni decisi, spaccasse un po’ di tutto, ma che rimanesse limitato; non supponevo che assumesse le dimensioni che ha assunto. Siccome partivo dalla logica che in fabbrica avevamo sempre avuto molte difficoltà per lo sciopero, era giusto che noi rimanessimo li, e io sono rimasto li,

mentre A. B. che da questo lato, secondo me, ha sottovalutato, è partito, slegandosi da una disciplina e dicendo: “Adesso andiamo a menarli lì”. Infatti io sono convinto che è nata da lì piazza Statuto. Non so bene la genesi, ma se vai a informarti bene, vedi che non è partita né da Mirafiori né da altre parti. […] Io allora ero limitato ad una realtà complessa; sapevo quant’era stato difficile cominciare a lottare alla Fiat, per cui era fondamentale difendere questa lotta. Evidentemente il sindacato aveva la stessa paura. Poi c’era la paura di essere accusato come sovversivo – infatti io ho avuto due o tre riunioni in quel periodo – non so perché, forse perché di me si fidavano. Ricordo addirittura che partecipai alla segreteria quando venne Foa da Roma con Garavini e Pugno, però ero troppo immaturo per capir certe cose, oggi non mi farei più fregare tanto facilmente, ma allora…

Mi ricordo che prima di agosto ho partecipato anche al comizio dell’Alferi. Mi ricordo che ho parlato anche con Panzieri. Panzieri con il suo gruppo, che i sindacalisti ufficiali non volevano vedere né far parlare. Io non la ricordo positivamente, perché intuivo che cominciava già la rissa contro questi gruppi; e io devo dire con tutta onestà, che oggi soltanto posso capirlo, ma allora mi… riusciva assurdo. Non vedevo tanto la differenza tra questi, la differenza tra Panzieri che diceva: “Portiamo avanti un certo discorso” e il sindacato che invece si crogiolava in queste vittorie.

Io ero entrato talmente in fretta in questa situazione che non riuscivo a sapere la storia di prima; e questo mi handicappava notevolmente, perché se avessi saputo gli antefatti… In quel momento, non ho fatto una scelta tra uno e l’altro proprio perché non sapevo e non volevo fare una scelta di quel tipo che mi pareva scissionistica. Questo era il discorso di fondo; poi ho fatto le esperienze più tardi, quando sono ritornato al lavoro operaio.

Questa è l’esperienza che ho avuto allora, però la ricordo con un certo rimpianto in questo senso: le occasioni perdute. Perché è stato travolgente e non ero esperto perché avrei potuto sfruttare di più la situazione, nel senso che non ho colto tutte le implicazioni politiche ecc., ero troppo inesperto per poter capire certe cose. Ad esempio, ero molto contrario che prendessero i compagni di fabbrica e li mandassero al sindacato: io dicevo che dovevano prenderli per sei mesi, massimo un anno e rimandarli indietro; invece ci fu la prassi di prenderli, di slegarli dalla realtà, di farne dei burocrati. Però quando feci questa proposta anche alle alte gerarchie, caro mio, mi guardarono brutto. In una riunione io dissi che forse la mobilità per i dirigenti sindacali andava bene, tornarsene in fabbrica ci avrebbe riequilibrati; ma la mobilità va bene per una parte sola, come sai . E loro al lavoro, quello vero, sono ancora abituati?

I PRECEDENTI APPUNTAMENTI:

LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (I)

LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (II)

LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (III)

LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (IV)

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