LA RIVOLTA DI PIAZZA STATUTO (I)

L’otto luglio 1962, a Torino in Piazza Statuto si verificarono violenti scontri tra gli operai metalmeccanici in sciopero e le forze dell’ordine. Gli scontri, iniziati il giorno prima, proseguiranno fino al nove.  In occasione dei 60 anni dalla rivolta, durante i primi mesi del 2022, la redazione di «Malanova» proporrà dei frammenti tratti dal testo di Dario Lanzardo, La rivolta di piazza Statuto, pubblicato da Feltrinelli nel 1979. Iniziamo dalla riproposta dell’Introduzione al volume (pp. 5-8) nella quale l’autore analizza il contesto sociale in cui scoppia la rivolta torinese, partendo però da un punto di vista di parte, quello dell’”autonomia operaia”, intesa come autonomia sia della lotta di ampi strati di classe dal comando capitalistico ma anche dalle tradizioni politiche delle organizzazioni del Movimento operaio (Pci, Psi, Cgil). Nel testo, e si tratta di un aspetto di indubbio interesse, inizia a prefigurarsi anche una critica al ruolo degli intellettuali: quando lo scontro politico è ad un alto livello, non c’è più spazio per la ricerca formale, ovvero essa appare chiaramente o accademica, inutile, oppure mistificante, al servizio diretto delle varie forze politiche. L’autore scava nella storia dell’intellettualità italiana scoprendone una identità da fabbricante della cultura saggistica, interrogandosi al contempo sul ruolo che l’intellettuale svolge: chi è, a chi serve o non serve il suo ruolo dì mediatore, di interprete, di narratore della realtà sociale?

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Perché a distanza di 17 anni un libro sugli scontri di piazza Statuto? Un primo motivo è molto soggettivo. Nel luglio del ’62 ero a Torino già da tre anni e da altrettanti facevo il ferroviere, militavo nella Cgil, nella corrente di sinistra del Psi, nel gruppo che aveva costituito Quaderni Rossi. Ho partecipato ai picchetti in occasione della ripresa della lotta alla Fiat e poi in piazza Statuto come tanti altri: più contro la polizia che contro la Uil, pieno di rabbia e di odio lanciavo sassi, gridavo “fascisti”, scappavo. Poi ci fu la presa di posizione ufficiale anche da parte di Quaderni Rossi che giudicava negativo per la classe operaia quel genere di lotta e parlava di provocazioni; e tale comportamento, anche in seguito, mi era restato oscuro. A me, ciò che era successo, sembrava naturale, logico; capivo tutt’al più i timori – e quindi l’opportunismo – del Pci, ma perché noi? Così ho cercato di rivedere la vicenda. 

Un secondo motivo, anch’esso soggettivo, ha un significato assai più generale. Ho vissuto molto intensamente la fase di storia di 15 anni che inizia con le lotte del triennio 1960-62 e si conclude nel ’74 con il recupero dell’egemonia politica da parte del Pci sull’insieme del movimento di classe. E come tutti quelli che hanno militato alla sinistra del Pci, ho fondato la mia ricerca di identità politico-sociale, cioè il mio ruolo nella lotta di classe, sulla ipotesi-osservazione diretta della “autonomia operaia” intesa come autonomia della lotta di ampi strati di classe non solo dal comando capitalistico, ma anche dalle tradizioni del Movimento operaio, dalla cultura dominante, dalla politica partitica; in alternativa, cioè, alla pratica che faceva coincidere gli interessi della classe operaia con la linea delle organizzazioni del Movimento operaio (Pci, Psi, Cgil). 

Militando però in una piccola organizzazione come i Quaderni Rossi che si poneva comunque il ruolo di analizzare le caratteristiche di tale autonomia per intervenirvi con una propria linea politica, ho avuto anch’io il mio rapporto con la teoria, funzionando, nel bene e nel male, come intellettuale; ma poi, nel 1974, apparsa evidente la sconfitta del tentativo di far nascere una nuova organizzazione della spontaneità, e le ”nuove” organizzazioni sono rimaste esse stesse come delle strutture morte, avulse dai rapporti sociali che in un modo e nell ‘altro le avevano prodotte; così la mia crisi di militanza l’ho vissuta soprattutto come crisi d ‘intellettuale, la cui scienza, il marxismo, era essa stessa, ormai, aliena dal proprio oggetto di ricerca: separata da quella da se operaia che avrebbe dovuto, nell'”uso alternativo del marxismo”, diventare soggetto, garante dell’unità di teoria e pratica; cioè anche il marxismo minoritario era incapace di prefigurare tanto le mosse del capitale, quanto quelle della classe operaia proprio come, agli inizi degli anni Sessanta, era stato rivelato nei confronti del Movimento operaio. 

Ma con la ricerca di una nuova identità, è andata maturando una vera e propria curiosità sulla storia degli intellettuali, del loro rapporto con il partito e la politica; un interesse per la verifica del marxismo – la sua storicizzazione – per individuarne e separarne gli aspetti di scienza da quelli ideologici, per arrivare infine a scoprire l’attuale identità del fabbricante della cultura saggistica: chi è, a chi serve o non serve il suo ruolo dì mediatore, di interprete, di narratore della realtà sociale. 

Poi il passaggio alla scelta dei punti più opportuni per la ricerca: se è la politica che determina la “scienza”, i momenti di svolta politica, per le tensioni sociali che li determinano, sono ideali per una verifica tanto della scienza quanto del ruolo degli intellettuali: quando lo scontro politico è ad un alto livello, non c’è più spazio per la ricerca formale, ovvero essa appare chiaramente o accademica, inutile, oppure mistificante, al servizio diretto delle varie forze politiche; di contro c’è la possibilità di fare ancora della scienza, di scoprire le contraddizioni reali che determineranno i nuovi equilibri economico-sociali: io sono partito da piazza Statuto-Fiat del luglio ’62 anche perché oltre ad essere il periodo in cui inizia il centro-sinistra ciò mi gratificava più facilmente di altri lavori, ma potevo anche iniziare da piazza De Ferrari a Genova del luglio del  ’60, da corso Traiano-Fiat del luglio ’69 o da tanti altri momenti dei primi anni del dopoguerra. 

E il metodo di ricerca? A questo punto è venuto fuori quasi naturalmente osservando il materiale prodotto allora. La cosa che mi aveva colpito era la varietà delle interpretazioni spesso antitetiche: “piazza Statuto” era stata una provocazione della destra contro il Movimento operaio; un tentativo di sovversione comunista contro lo Stato democratico; un tentativo rivoluzionario anticapitalistico, ecc., i manifestanti coinvolti negli scontri venivano rappresentati come sovversivi, provocatori, teppisti, elementi incontrollati, rivoluzionari, cittadini estranei, fascisti, ecc.

Una cosa saltava agli occhi: giornalisti, sociologi, politici, scrivevano fiumi di inchiostro sulle loro verità opposte con la più assoluta certezza. Quale di queste verità era la più vera? Nessuno, ovviamente aveva sentito il bisogno di far parlare qualcuno dei protagonisti, di fare una inchiesta seria. Poi l’avvenimento è stato rimosso o recuperato ideologicamente a distanza di anni – soprattutto a ridosso del ’69 quando poteva essere utile apparire marxisti rivoluzionari -, in un paragrafo di un libro di storia – come è il caso del segretario della federazione torinese del Pci nel suo libro Lotte e organizzazione di classe alla Fiat – o in un passaggio rapido di un saggio per pochi lettori abituati. E le decine di migliaia di persone, la massa, bombardati dai messaggi di allora? Se non si poteva fare più nulla per quei primi fruitori della storia appena narrata sotto forma di cronaca, anche perché “a posteriori” non poteva che essere riproposta attraverso la limitata influenza di un libro, mi sembrato che fosse un reale contributo al ristabilimento della verità, mettere a confronto, in quella storia, alcuni oggetti che vi avevano partecipato contrapponendoli anche a quelli che allora, facendo politica, l’avevano spiegata.

Ma cosi, com’era prevedibile, non sono mancati anche dei risultati di conoscenza più generale, rispetto ad alcuni problemi che hanno caratterizzato l’intera fase ’60-73 e che rivestono ancora oggi grande interesse. Si tratta del rapporto tra la violenza della lotta spontanea e la strategia democratica del Movimento operaio: in quali occasioni e in che misura, ad esempio, le sue organizzazioni, praticano la violenza, pur respingendola in linea di principio?; e in particolare del rapporto che si viene a stabilire fra chi milita come elemento di base nelle organizzazioni ufficiali e i componenti della “nuova” classe operaia: quella spoliticizzata, dequalificata, spontaneista, ecc.; e più in generale del rapporto tra lotta di fabbrica e lotta di piazza, tra lotta della classe operaia e lotta del popolo, tra lotta contro il padrone e lotta contro lo Stato.

Due parole infine sulla struttura con la quale questa “ricerca” viene esposta. 

Dato che la motivazione principale è stata la “critica delle ideologie” prodotte dagli “interpreti” di professione, la ricostruzione di quell’episodio non poteva essere fatta con un “saggio” interpretativo. Così nella prima parte del lavoro, titolata L’uso politico, il lettore rivive la vicenda così come era stata raccontata (cap. I I fatti) e interpretata (cap. I Le interpretazioni). con tutte le mistificazioni sociologiche necessarie alle varie tesi. A questa si contrappone una seconda parte, titolata La “memoria di parte” dove agli Antefatti (cap. III) seguono le interviste dei 15 testimoni (cap. IV Quelli di Piazza Statuto). L’autore, come si vede, ha scritto di suo ben poco, ha semplicemente offerto al lettore due storie contrapposte nell’ordine cronologico da lui stesso vissute. 

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