PER UNA STORIA DELLA RESISTENZA PALESTINESE (III)

di Nando Primerano*

L’eccidio efferato di Sabra e Chatila non è altro che un passaggio, seppure abominevole, della politica di annientamento operata dal sionismo, che si tratti di singoli o di intere comunità. In questa strategia di accaparramento di terre e risorse all’interno del territorio palestinese, di divisione del mondo arabo all’esterno, di annientamento della resistenza dentro e fuori la Palestina, Israele rivendica il diritto, unilateralmente sancito, di colpire i membri dell’OLP in qualunque paese si trovino, violando qualunque sovranità territoriale e in barba alle sanzioni internazionali, grazie all’ombra onnipresente e protettrice degli USA. 

I bombardamenti ed i raid nei paesi confinanti e le ripetute invasioni del Libano ne sono dimostrazione. Nel 1985, esattamente il 1° Ottobre, sei F-15 ed F-16, fabbricati negli USA ma a disposizione di Israele, attaccano con missili e bombe il quartier generale dell’OLP a Tunisi, facendo strage di civili, nel tentativo – non riuscito – di ammazzare Arafat. Ancora a Tunisi, il 16 aprile 1988, un commando di 39 uomini, sbarcati segretamente da una nave israeliana, attacca nella sua abitazione privata ed ammazza con 60 colpi di mitra Abu Jyad, il secondo di Arafat.

Arriva però un momento in cui l’arroganza e prepotenza dei colonizzatori, le violenze quotidiane o i ciclici massacri e stragi, i furti, le ruberie di terre, case e risorse, l’invivibilità di un quotidiano senza futuro, tocca il punto di massima sopportazione. Il 9 dicembre del 1987 due camion pieni di operai palestinesi di ritorno dal lavoro vengono investiti da un mezzo militare israeliano provocando quattro morti. In verità non c’è nulla di diverso da quanto quotidianamente avviene in tutti i territori occupati, ma è la goccia che fa traboccare il vaso. Scoppia così la  Prima Intifada (o sollevazione popolare).

Tutta la popolazione palestinese, bambini compresi, scende in piazza con fionde e pietre contro uno degli eserciti più forti del mondo. Nulla potranno repressioni di massa, torture istituzionalizzate, arresti con detenzioni illegali e infinite, penetrazioni dei mezzi blindati che distruggono in primis acquedotti, scuole, centrali elettriche, ospedali, ambulanze… Persino i cimiteri perché neanche da morti i palestinesi possono stare tranquilli sulla loro terra.

L’ordine di stroncare la rivolta popolare è perentorio quanto inutile, la rivolta di pietre e fionde non si può fermare. Allora si ordina“ spaccategli le braccia così non lanceranno più pietre”, come documentato dalla rete televisiva americana CBS. Il suo video virale fa il giro del mondo, mostrando i militari israeliani che infieriscono con massi e bastoni contro due prigionieri palestinesi inermi, legati e bendati, nel tentativo ripetuto di spaccare loro le braccia; e alla fine ci riusciranno.  Nella prima Intifada perderanno la vita circa 1.500 palestinesi e la rivolta si esaurirà solo nel 1993 con gli accordi di Oslo. Nella capitale finlandese vengono infatti create le premesse per la storica firma sugli accordi di pace, apposta poi da Yasser Arafat e Ytzhak Rabin, alla Casa Bianca, sotto la mediazione di Bill Clinton. L’evento storico, che conteneva la speranza di giungere ad una pace giusta e duratura dopo tantissimi anni di sangue, farà assegnare ai due firmatari il Nobel per la Pace del 1994.

Cosa viene stabilito in quel trattato? Non la restituzione dei territori illegalmente annessi dalla spartizione ONU in poi, non il diritto al ritorno, ma, fondamentalmente, viene fatta una ripartizione aggiornata della Palestina in tre zone di competenza, una zona A interamente sotto controllo palestinese, una zona B intermedia in cui l’autorità civile è di competenza palestinese ma il controllo militare resta israeliano, ed infine una zona C attribuita interamente agli israeliani. È chiaro che si tratta di un accordo che non soddisfa molti, ma, per la prima volta, viene ufficializzata l’esistenza di uno Stato Palestinese dotato di una sua Autorità Nazionale, di una propria polizia, addirittura di un porto e di un aeroporto. Restano i Bantustan o le Riserve indiane dei villaggi e città palestinesi separate tra loro e circondate dagli insediamenti dei coloni, ma è già l’inizio di un riconoscimento seppur minimo, il miraggio di uno Stato Palestinese in nuce.

Il mondo intero ci stava credendo. Troppo pericoloso dunque per il sionismo: occorreva pianificare qualcosa che allontanasse definitivamente quell’indesiderato scenario. Il 4 novembre 1995, durante una manifestazione a Tel Aviv, un soldato israeliano “estremista e pazzo” ammazza Rabin. Successivamente salirà al potere il Partito di estrema destra del Likud con Presidente Netanyahu, avverso all’accordo sottoscritto, per quanto formalmente impegnato a sostenerlo. Di nuovo nel luglio del 2000 le parti vengono convocate a Camp David, ancora con la mediazione di Bill Clinton, ma la smilitarizzazione dei territori occupati non va avanti, così come l’attuazione del processo di pace.

Occorreva qualche altra forzatura per eliminare definitivamente dalla scena la possibilità dell’autonomia palestinese. Il 28 settembre del 2000 il generale Ariel Sharon, responsabile della efferata strage di Sabra e Chatila, fa una “passeggiata”, accompagnato da mille soldati, alla Spianata delle Moschee, dove si trovano la Cupola della Roccia e la Moschea di Al-Aqsa,  tra i luoghi più sacri per i musulmani. L’evidente sacrilegio sortisce, come auspicato e preventivato, l’indignata protesta dei palestinesi: si scatena così la Seconda Intifada

Questa volta contro aerei da guerra e carri armati di ultima generazione a pietre e fionde si sostituiscono qualche pistola e kalashnikov. Vengono immediatamente rioccupati  i territori palestinesi, distrutte tutte le infrastrutture del nascente Stato di Palestina, stragi e massacri perpetrati dappertutto, con delle punte di devastazione massima come a Jenin. A Ramallah, la Muqata (il Palazzo presidenziale) viene bombardato e circondato dai carri armati; dentro le mura crollate, nelle poche stanze ancora agibili, il Presidente Arafat e la sua scorta personale resistono all’assedio israeliano. Ma dipendono interamente da loro, anche per il vitto e il vestiario e più di qualcuno sospetta che si sia approfittato di questa occasione per avvelenare Arafat col polonio. Sebbene Arafat, quale rappresentante di una borghesia nazionalista corrotta che si spartiva le grandi risorse garantite dalla fratellanza araba, non fosse benvoluto da tutto il suo popolo, in quel momento però, assediato tra quelle mura, diventava il simbolo di tutto un popolo prigioniero. A seguito di un lento e “misterioso” avvelenamento morirà nel 2004. Gli succederà Abu Mazen. 

Vorrei qui fermare un momento questa fredda cronistoria che non rende giustizia dell’arroganza della forza, dell’ingiustizia subita da generazioni e generazioni no-future cresciute nell’incubo dei campi profughi non solo nei paesi limitrofi, ma anche all’interno della stessa Palestina.

Se la prima Intifada aveva come icona il bambino di 4 anni che affrontava con una pietra in mano un carro armato, la seconda quella del padre che, disarmato, implorava invano pietà quel figlio terrorizzato difeso col suo corpo dietro un masso, sotto una pioggia di pallottole israeliane. Uccisi infine tutti sotto gli occhi del mondo intero. E ancora le magliette indossate dai soldati israeliani con una donna musulmana incinta inquadrata attraverso il mirino di un fucile e  sotto  la scritta” con una sola pallottola ne ammazzi due”. E poi gli ulivi centenari sradicati da enormi bulldozer e messi a testa in giù per non potere più attecchire, paesaggio lunare di una devastazione ambientale tesa a sottrarre le poche fonti di sostentamento, e poi gli ospedali bombardati, le ambulanze crivellate o asfaltate dai tank, le case distrutte e la gente fuori tra le macerie, sotto le tende, ostinata a non abbandonare la propria casa, la loro terra.

Alcuni aneddoti anche dalla solidarietà internazionale che supplisce, per quel che può, all’acquiescenza supina di quasi tutti i governi del mondo di fronte all’ignominia ed alle aberrazioni sioniste: febbraio 2002 Ramallah, Arafat è prigioniero nel Palazzo Presidenziale, assediato e circondato dai carri armati israeliani. Un piccolo gruppo di internazionalisti, principalmente italiani, riesce a superare l’assedio, entrare fra quelle mura bombardate e sventrate, incontrare Arafat ed emettere un comunicato di solidarietà ad un Presidente già in evidente stato di avvelenamento. Pochi mesi dopo, a Betlemme, un improvviso rastrellamento e coprifuoco dei sionisti isola per strada centinaia di palestinesi ed una troupe della RAI. L’unica salvezza è rifugiarsi dentro la Chiesa della Natività, con Padre Ibrahim che apre le porte a tutti. L’assedio si protrae per il rifiuto del francescano a consegnare i suoi ospiti, anche se cibo e medicine stanno per finire. La troupe italiana contratta col proprio governo che media la sua uscita, abbandonando alla loro sorte quanti avevano condiviso con loro il poco cibo rimasto. L’assedio continua, intervallato da qualche tentativo di irruzione dei militari e da colpi che crivellano quel luogo santo per i cristiani, inficiando ancor più le pochissime risorse rimaste ed ormai praticamente esaurite. Ad un certo punto un gruppo di ragazzi, belgi e olandesi mi pare, con fare disinvolto e zaini pieni sulle spalle, distraggono e superano il cordone dei mezzi blindati dirigendosi verso la chiesa,  incuranti delle minacce gridate dietro. In quegli zaini portano cibo, acqua e medicinali che permetteranno agli assediati di resistere ancora per un po’. E poi Rachel Corrie, giovane pacifista americana, stritolata dai cingoli di un enorme blindato nel tentativo di impedire la distruzione di una casa con la gente dentro, pratica usuale come raccontava  lei stessa prima di essere ammazzata. E la Freedom Flotilla, coalizione internazionale di solidarietà, che con le sue navi tenterà ripetutamente di forzare il blocco illegale che impedisce di portare rifornimenti ed aiuti umanitari a Gaza assediata. La Flotilla subirà attacchi pirati in acque internazionali con morti ed addirittura il sabotaggio di diverse unità pronte a salpare da vari porti del mediterraneo.

L’inumanità, l’odio razziale, bestiale, di un popolo che ha subito l’Olocausto sulla propria pelle ed ora lo riversa a piene mani contro un altro è inaccettabile, ma ad Israele tutto è permesso. La Resistenza palestinese adesso è dotata di qualche razzo artigianale capace quasi mai di raggiunge un bersaglio, a fronte dell’armamento chimico e persino nucleare di Israele, unico fra tutti i paesi dell’area. Con la Seconda Intifada cresce a dismisura la violenza e l’orrore dell’invasore a fronte di una resistenza fatta spesso solo di mani nude. Il senso di impotenza cresce. Una giovane infermiera, stanca di vedere arrivare corpi maciullati troppo spesso anche di bambini, indossa una cintura esplosiva, si avvicina a dei soldati e si fa saltare in aria. È la prima kamikaze, o martire come viene chiamata dai palestinesi e darà il via a questa pratica disperata di fronte all’impotenza ed alla passività del mondo intero, pratica che verrà implementata e ripresa poi dalle formazioni religiose fondamentaliste.

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*Nando Primerano, insegnante, vive e lavora a Reggio Calabria. Ha fatto parte per oltre dieci anni della redazione della rivista “Sud/Sud” dove si è occupato di Movimenti di Liberazione e Solidarietà Internazionale. Ha pubblicato: Di fumo e di spari, di sangue e di pianto… di questo vi conto… di questo vi canto (2021), I trip dell’elefante (2017), Ci sono storie di donne…(2011), Diario di bordo (2009), Vite desaparecide (2007), Solo fumo è la paura che nasconde il tuo orizzonte (2005), L’ombrello di Pedro (2003), La piazza e la montagna (1991), A nueve anos… è necessario sognare (1988), Il Nicaragua è un dolce che prende il bus(1986).

Eventuali copie dei libri possono essere richieste direttamente all’autore scrivendo alla seguente e-mail: rosmaro@tin.it 

Le puntate precedenti:

PER UNA STORIA DELLA RESISTENZA PALESTINESE (I)

PER UNA STORIA DELLA RESISTENZA PALESTINESE (II)

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