PALESTINA E ISRAELE: NOTE SULL’ATTACCO DEL 7 OTTOBRE

di Lorcon

Pubblichiamo il contributo giuntoci come collaborazione esterna nell’ottica redazionale di stimolare il dibattito anche su alcune tematiche da noi poco elaborate, il tutto all’interno di un nostro personale percorso di critica del presente. I contributi possono anche non rappresentare necessariamente le posizioni del collettivo redazionale di Malanova.

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L’attacco perpetrato da Hamas nei confronti delle città e dei villaggi Israeliani che si trovano a ridosso del confine e la risposta dell’IDF sono l’ennesimo capitolo di un conflitto pluridecennale. Non staremo qua a ricostruire la storia di quel conflitto, compito verso cui non siamo all’altezza e verso cui altri hanno diretto produttivi sforzi. Nel seguente scritto proveremo a delineare alcuni possibili scenari e ad analizzare quanto accaduto.

Il governo di Netanyahu è in profonda difficoltà da un anno. Per ottenere una coalizione governativa stabile in un paese che storicamente è invece caratterizzato da una certa instabilità parlamentare, il Likud si è dovuto alleare con gli elementi più oltranzisti del panorama politico, nello specifico con il variegato mondo del sionismo religioso e con raggruppamenti politici ultra-ortodossi. Nella storia politica israeliana tali gruppi non hanno mai goduto di peso politico come in questo momento. Il sionismo, sia nella sua componente socialista che in quella revisionista, ovvero liberale, nasce come progetto politico laico nelle sue componenti maggioritarie, e, soprattutto, trainanti, e tale rimane per decenni anche dopo la nascita dello stato di Israele. Le componenti religiose di estrema destra cominciano a guadagnare trazione a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Elettoralmente avevano un peso relativo ma riescono a influenzare pesantemente lo scacchiere politico fornendo una base di voti per il Likud. É da quegli stessi ambienti che arriverà l’assassino di Rabin nel 1995. Facciamo un salto avanti di una decina di anni. A metà anni 2000 il governo – per ironia della sorte del Likud – nell’ambito del processo di pace decide il ritiro dalla striscia di Gaza e la demolizione degli insediamenti dei coloni sul territorio che viene restituito alle autorità palestinesi. Bisogna qua chiarire alcuni passaggi: quegli insediamenti erano roccaforti dell’estrema destra religiosa e nulla avevano a che fare con Kibbuzim e Moshav dei pionieri e quel momento segna una frattura tra quei settori, dalla sinistra fino al centrodestra, della società israeliana che volevano un processo di pace con l’ANP e il movimento dei coloni che teorizza la necessità di stabilire l’autorità di uno stato con un’identità religiosa e politica – e non solo culturale – ebraica sull’intera area del cosiddetto Grande Israele. Il processo di pace di quegli anni naufragò ma la frattura, logicamente, non venne mai sanata.

Ma alla fine degli anni dieci del 21° secolo il Likud ha dovuto recuperare quella base elettorale per poter tornare al governo con una parvenza di stabilità, dopo anni di legislature instabili. Per farlo ha innalzato al potere una serie di personaggi parafascisti della destra religiosa che mai avevano avuto accesso alla stanza dei bottoni.

La contropartita che Netanyahu ha offerto a questa masnada è quella della sottomissione del potere giudiziario al potere legislativo. Da un lato permetterebbe di riaprire la partita degli insediamenti nella striscia di Gaza e di dare maggiore garanzie a quelli nella West Bank. Dall’altro permetterebbe allo stesso Netanyahu di cavarsi di impiccio dalle accuse di corruzione che rischiano di mandarlo in galera. Ma la partita non si ferma a uno scambio di favori tra personaggi inqualificabili: alla base del disegno dell’estrema destra religiosa vi è la necessità di sovvertire le basi stesse dello stato liberale per andare verso la costruzione di uno stato quasi teocratico. Forse si potrebbero tracciare dei paralleli tra questo progetto e il progetto bannoniano che ha caratterizzato le prime fasi della presidenza Trump basato sulla critica da destra allo stato liberale, sintetizzato nello slogan “We have to dismantle the administrative state” ripreso da J. Burnham collaboratore dell’amministrazione Trump. Anche se non disponiamo di tutti gli elementi per affermarlo il paragone è degno di approfondimento.

Fatto sta che gli afferenti all’ideologia Hardal, ovvero ebrei ortodossi e sionisti – i cultori della materia ci perdonino se tagliamo con l’accetta la questione -, sono arrivati alle leve del comando. Le premesse di una tempesta perfetta c’erano tutte e questa si è avverata.

Avventatisi con voracità ad occupare qualsiasi carica pubblica possibile e attaccato il potere giudiziario hanno causato una frattura senza precedenti nella storia politica israeliana.

Le proteste di massa contro il governo Netanyahu hanno caratterizzato l’ultimo anno e hanno coinvolto anche ampi settori delle IDF con molti riservisti che si sono rifiutati di presentarsi ai periodici richiami. Molti di coloro che in questo periodo hanno protestato contro la svolta autoritaria impressa dal governo Netanyahu, hanno anche ben chiaro che è necessario risolvere il conflitto con la popolazione palestinese. La sinistra israeliana e tutti coloro che si riconoscono nei valori liberal-progressisti su cui è stata costruita non solo l’immagine ma anche parte dell’identità nazionale si sono trovati ad essere additati dal governo come elementi nemici, escrescenze infette, amici dei terroristi.

Netanyahu ha costruito la sua immagine pubblica come quella del Signor Sicurezza, “Mr. Security“. Questo passava da buffi spot elettorali come dal ricordare che è stato membro delle Sayeret Matkal con una esemplare carriera militare, al pari dei suoi fratelli, tra i quali spicca uno dei maggiori eroi militari israeliani, caduto a Entebbe. Bene, il 7 ottobre 2023 il Signor Sicurezza si è mostrato essere un Signor Imbecille. Un totale idiota che in un anno di governo ha abbattuto l’efficienza di quelle che sono considerate tra le migliori agenzie di sicurezza e intelligence del mondo sotto la soglia minima dell’accettabile.

L’operazione terroristica condotta da Hamas non è stata tanto un successo militare, non ha minimamente portato l’apparato militare Israeliano sull’orlo del collasso come l’attacco congiunto Egiziano e Siriano del 1973 ma è stato un enorme successo di immagine. Da un punto di vista puramente militare Hamas ha già – probabilmente – perso l’iniziativa. Certo sarà lo stillicidio degli ostaggi, vi sarà la penetrazione nella striscia delle divisioni corazzate e meccanizzate dell’IDF con una copertura aerea e un dispositivo di artiglieria che non si vedeva dalla guerra del 2006 nel sud del Libano. Ma intanto rimane il fatto che un gruppo che pratica la guerra asimmetrica è riuscito a compiere una serie di attacchi ben coordinati e sanguinosi contro la popolazione civile e le installazioni militari del nord del Negev e della fascia costiera. E’ un fallimento a tutto tondo e Mr. Sicurezza ne è il responsabile politico.

Proviamo a delineare alcuni possibili scenari sia inerenti alla situazione interna che alla più generale situazione internazionale.

In questi casi è d’uopo formare governi di unità nazionale. Ma in questo caso l’accordo con il Partito Laburista e le altre componenti di centro e centro-sinistra significa necessariamente seppellire per sempre la riforma giudiziaria e mandare al diavolo, prima o poco dopo, l’estrema destra religiosa. In ogni caso la carriera politica di Netanyahu difficilmente si riprenderà da un tale smacco. Golda Meir, che pure era una leader enormemente più carismatica e intelligente di Bibi, terminò la sua carriera dopo la guerra dello Yom Kippur. E la guerra dello Yom Kippur terminò con le divisioni guidate da Sharon che varcavano il canale di Suez degradando in modo totale le capacità offensive egiziane sul fronte del Sinai mentre la controffensiva israeliana si fermava a 30 km da Damasco sul fronte del Golan. Nonostante l’oggettiva vittoria la carriera della Meir finì lì. La guerra portò all’accordo di pace con l’Egitto che spaccò il mondo arabo e il resto è storia. Ma oggi non vi sono né Meir o Dayan né Sadat. Da un lato vi è una banda di islamofascisti che considerano reali i Protocolli dei Savi Anziani di Sion e dall’altra una banda di fascisti con la stella di David che sono capaci giusto di bombardare un territorio sotto assedio quale la striscia di Gaza, facendo ogni volta strage di civili non combattenti mentre salmodiano qualche passo biblico. Per inciso parte della dirigenza della destra religiosa israeliana non ha neanche svolto il servizio militare: non per nobili obiezioni etiche e politiche come i refusnik ma perché imboscatisi con la scusa di dover studiare la Torah in qualche scuola ultra ortodossa, uno dei pochi motivi per cui si può evitare la coscrizione.

Certamente per il momento le manifestazioni contro il governo sono sospese. I riservisti che nell’ultimo anno si sono rifiutati di prestare servizio si sono ripresentati ai richiami. Buona parte dei villaggi, dei moshav e dei kibbutzim attaccati elettoralmente, ma soprattutto culturalmente, non sono dalla parte di Mr. Sicurezza ma, come notava Yossi Verter in un suo pezzo su Haaretz a poche ore dagli attacchi:

“[…]Chi sono i primi che si sono presentati per rispondere agli attacchi? Sono stati i cosiddetti “anarchici” [il riferimento è all’uso del termine come epiteto da parte del governo contro certi settori dei dimostrante, anche verso le organizzazioni dei riservisti militari come Brothers in Arms, ndt], “elementi infetti”, quelli a cui è stato detto di andare all’inferno, appellati come “non sionisti, non israeliani, non patrioti”. Chi sono stati i primi a imbracciare le armi per combattere i terroristi [di Hamas, ndt]? Sono stati i residenti delle comunità che si trovano sul confine con Gaza, comunità che nella loro totalità non hanno votato per questo governo e di cui Netanyahu si è disinteressato per anni, che per anni non si è interessato di visitare o dialogarci. Loro sono stati la prima linea di difesa e i primi ad assorbire colpi letali. Sono passati quindici anni da quando Netanyahu promise di rovesciare il governo di Hamas. In questi anni è riuscito a rovesciare la società israeliana, la sua capacità di deterrenza militare e di governance mentre Hamas è divenuta un esercito addestrato e capace. Nessun governo al mondo può uscirne indenne. E’ un fallimento storico, un totale collasso di tutti i sistemi.”

Per rincarare la dose il principale quotidiano della sinistra israeliana ha pubblicato un editoriale, firmato dal suo Editorial Board, in cui si accusa esplicitamente Netanyahu di essere il principale responsabile della situazione. Responsabile sia per non aver portato avanti uno straccio di processo di pace con i palestinesi, ovvero con i diretti interessati, preferendo tentativi di accordo con i vari paesi arabi, sia per essere a capo del governo che ha permesso una tale mattanza di civili.

Ma l’espulsione dalla scena politica di un tale inetto non sarà questione di giorni. Se la sua leadership è indebolita è probabile che le opposizioni decidano di rimandare la redde rationem a una fase in cui la situazione militare sarà ribaltata con il ristabilirsi della supremazia militare israeliana.

Questo si traduce in alcune conseguenze molto concrete: la necessità di ridurre ai minimi termini le capacità operative di Hamas e della Jihad Islamica, l’omicidio dei suoi dirigenti e di buona parte dei quadri, e colpi fermi e feroci a gli attori che hanno dato supporto ai due gruppi.

Non sarà semplice. La prassi militare israeliana prevede l’applicazione della così detta dottrina Dahiya, ovvero la distruzione sistematica delle infrastrutture in grado di fornire supporto a gruppi terroristici comprese le strutture civili con capacità dual-use, ovvero civile e militare. Questo comprende infrastrutture dei trasporti, infrastrutture energetiche, industriali, residenze dove si sa essere presenti sedi o abitazioni di quadri politici e militari. In un’area ad altissima densità abitativa – come è Gaza – questo si traduce nell’accettare di colpire la popolazione civile non combattente.

Forse Hamas ha scommesso sulla presa di ostaggi per mitigare i bombardamenti. Ne dubitiamo. Hamas sa benissimo dell’esistenza della Procedura Hannibal (o Hannibal Directive), ovvero delle regole di ingaggio delle unità militari davanti alla presa di propri prigionieri da parte di un nemico asimmetrico e sa che queste regole non pongono la vita dei prigionieri al primo posto. Ed è molto probabile che – almeno in una prima fase – questo si applicherà anche a una situazione in cui molti ostaggi sono civili israeliani. La presenza di molti cittadini dalla doppia cittadinanza – tra cui almeno una decina di israelo-statunitensi – complica il quadro in quanto moltiplica gli attori interessati e rende la partita un possibile campo minato per la dirigenza israeliana. Non si può assolutamente escludere che la presenza di così tanti cittadini statunitensi porti a un maggior coinvolgimento delle risorse militari, anche solo in funzione logistica, e di intelligence a stelle strisce. L’intero medio oriente ricade sotto i dispositivi militari della Quinta e della Sesta flotta della Marina, cosa che permetterebbe anche di tenere a bada possibili interventi iraniani.

Sul fronte palestinese sicuramente i vertici Israeliani, così come i quadri intermedi, dovranno rivedere l’intero dispositivo di difesa. Ancora una volta nella storia una difesa statica, per quanto imponente, si è dimostrata vulnerabile e bucabile da nemici dotati di creatività e determinazione. Si porrà la questione di costruire un sistema di difesa di profondità, maggiormente elastico e dotato di elementi celermente mobili in forze, capace di evitare simili smacchi. Uno stravolgimento dell’intera dottrina difensiva israeliana dai tempi del governo Sharon, uno stravolgimento che accelererà le dinamiche di militarizzazione della società già ben presenti nel paese.

Il governo israeliano è sicuramente in difficoltà, sfiduciato da buona parte della popolazione, con interi segmenti sociali che hanno solo rimandato il momento di uno scontro frontale ma che torneranno ad esso con una maggiore carica di rabbia. Bisognerà vedere se gli eventi di questi giorni faranno coagulare questa rabbia verso elementi politici guerrafondai, anche se di opposizione, o se il tema del processo di pace riuscirà a essere imposto.

In ogni caso alla crisi politica va aggiunta la crisi economica, che ha visto erodere i salari, e che la crisi militare di questi giorni ha acuito, con il corollario di quote di forze lavoro richiamate dalla riserva per servire sotto le armi. La partita per il governo israeliano è estremamente difficile.

La ierocrazia di Teheran e i suoi alleati/proxy di Hezbollah potrebbero essere tentata di approfittare del concentrarsi Israeliano su Gaza per lanciare ampi attacchi missilistici verso il nord di Israele, come nel 2006. Inutile dire che anche in questo caso la reazione del fuoco di controbatteria israeliano e, soprattutto, dell’aeronautica sarebbe esponenziale. Le guerre contro apparati militari come quello israeliano si basa sull’essere disposti a sacrificare un altissimo numero di combattenti e di civili che hanno la sventura di vivere nell’area. Se i secondi vanno inseriti in un cinico calcolo – puoi sempre costringerli ad appoggiarti anche se diventassi meno gradito – i primi, tra cui molti volenterosi martiri, vanno comunque dosati con cautela.

Teheran lancia messaggi ambigui su quanto sia stata direttamente coinvolta nella pianificazione e nell’esecuzione. Sicuramente sapeva molti dettagli, sicuramente ha fornito molti degli asset militari usati e copertura finanziaria. Se emergesse anche un coinvolgimento diretto nell’esecuzione degli attacchi è inutile dire che questo sarebbe un casus belli sufficiente e bastante anche a norma di diritto internazionale. E lo sarebbe non solo per Israele ma anche, e soprattutto, per gli Stati Uniti.

Ma sul campo rimangono anche altre incognite: Gaza condivide il confine terrestre con l’Egitto. Questo è corresponsabile dello stato di assedio decennale della striscia ma dai tunnel sotto il confine sono transitate tonnellate di attrezzatura per Hamas. Hamas è organizzazione gemella della Fratellanza Musulmana egiziana e contro questa è concentrata la quasi totalità degli sforzi delle potenti agenzie di sicurezza egiziane. Come non hanno fatto ad accorgersi di nulla? Come mai hanno sottovalutato la situazione? E se si sono accorti e non hanno sottovalutato perché non hanno avvisato i servizi israeliani con cui sono in buoni rapporti, come le economie dei due paesi?

E ancora, ci si può chiedere, quale è stato il ruolo del regime di Damasco, che ancora deve riconquistare parte dei territori che da un decennio sono finite sotto il controllo di altri attori – Jihadisti, opposizione laica, SDF, milizie filo-turche – e che proprio negli ultimi mesi sta aumentando il conflitto con le SDF?

Ma soprattutto: che influenza avrà quanto sta succedendo sugli accordi trilaterali israelo-sauditi-statunitense in corso di trattativa? L’architettura di un Medio Oriente sotto nuova guida statunitense, condito con il riconoscimento reciproco tra le due maggiori potenze militari ed economiche dell’area e un’alleanza formalizzata in funzione anti-iraniana è l’obiettivo strategico della diplomazia statunitense da anni. È una questione complessa, prevederebbe anche uno sblocco del processo di pace israelo-palestinese che l’attuale governo israeliano ha dimostrato di non volere, pur anelando a un’accordo con i Sauditi, e ampissimi segnali vi sono stati in questo senso, ma prevederebbe anche un colpo alla Cina, paese che si é inserito con un ruolo di mediazione sulla faglia geopolitica del Golfo tra Iran e Arabia Saudita.

Le variabili in gioco sono diverse e le diverse classi dirigenti dovranno essere in grado di affrontare la sfida della complessità e l’emergere di possibili cigni neri. La compagine governativa israeliana al momento non è palesemente in grado di farlo e grosse saranno le spinte per togliere centralità agli elementi più oltranzisti ma palesemente incapaci.

Abbiamo però alcune certezze: chi pagherà il prezzo immediato delle manovre sarà la classe subalterna di tutti gli attori in gioco, classe che al momento non è nelle condizioni di farsi classe per sé.

Questo dato di fatto permane anche a fronte della feticizzazione del lottarmatismo palestinese operato da buona parte delle sinistre di derivazione emmelle e terzomondista o di quel variegato calderone del post-tutto, formatosi più a botte di meme su Instagram che sullo studio della situazione mediorientale.

Coloro che hanno fatto finta di non vedere – quando non hanno direttamente esultato vedendole – le immagini di ragazze israeliane esposte come trofeo al pubblico ludibrio e stuprate in diretta social da una banda di islamisti che le avevano rapite, che hanno fatto finta di non vedere i quasi trecento giovani massacrati a un rave party o le centinaia di civili, di tutte le età, tra cui vecchi inermi rapiti insieme agli infermieri che li accudivano, ammazzati nei kibbutz, nei moshav e nei villaggi vicino al confine non sono differenti rispetto agli amanti dei bombardamenti punitivi sulla popolazione di Gaza “perché tanto forniscono il terreno fertile per Hamas”, affermazione per altro tutta da dimostrare data la sempre maggiore insofferenza di molti giovani davanti al regime islamofascista.

Alla completa ignoranza della questione, assolutamente centrale, del rapporto tra mezzi e fini, si aggiunge l’incapacità di riconoscere l’elemento antisemita alla base dell’ideologia islamista, in tutte le sue declinazioni, elemento presente – anche se meno visibile – anche nelle società europee, come nodo centrale nell’azione dei gruppi che di questa ideologia sono i portatori. Hamas e Hezbollah non combattono per la liberazione della Palestina, combattono per l’espulsione da un Medioriente arabo di quello che è rappresenta un unicum: un territorio in cui a dominare non è un élite araba di osservanza musulmana con gli altri gruppi sociali-religiosi relegati a posizioni subordinate.

È possibile ipotizzare che le comunità di confine attaccate con violenza da Hamas il sette di ottobre non siano state attaccate solo per una questione di opportunità geografica, sono quelle più vicine al confine, ma anche perché rappresentano l’antitesi dell’ordine sociale proposto dall’islamismo. Il movimento dei kibbutzim, nonostante l’oramai trentennale declino, ha rappresentato una sfida costante a chi propone, sia nel campo islamista che nel campo del sionismo religioso, un’ordine sociale basato sulle comunità escludenti. Gli islamisti non possono accettare l’esistenza di comunità con una forte eguaglianza di genere, in cui per altro per decenni si è destrutturato il concetto stesso di famiglia, e in cui i rapporti sociali sono messi in discussione. Lo stesso è inaccettabile anche per le componenti reazionarie della società israeliana per cui i kibbutzim sono stati una deviazione secolarista e di estrema sinistra rispetto a quello che per i sionisti religiosi dovrebbe essere il cuore dell’identità ebraica, la pratica religiosa entro i canali dell’ortodossia Haredi. Per costoro così come per gli islamisti i kibbutzim sono inaccettabili così come sono inaccettabili i giovani che vanno a ballare a un festival psy-trance.

Islamisti e sionisti religiosi non possono neanche accettare ciò che quelle comunità secolariste e progressiste – e non nella declinazione liberal del termine – continuano a esprimere a livello politico e anche militante: l’opposizione agli elementi guerrafondai israeliani, che con Hamas hanno un oggettivo rapporto di reciprocità, il movimento dei refusnik, l’appoggio ai raggruppamenti politici che sostengono un processo di pace, i tentativi, in alcuni momenti coronati anche da locali successi, di creare rapporti con la popolazione araba.

Chi si illude dell’esistenza di una soluzione militare che non prenda le forme di una pulizia etnica, e in questo ci rientrano dagli imbecilli del Likud che pensa di poter barattare la pace con i Sauditi e i Qatarini trasferendo lì quota parte della popolazione palestinese, in paesi che “hanno bisogno di manodopera” come i dementi che cianciano di distruzione dello stato Israeliano da parte di una banda di feroci antisemiti come Hamas e suoi alleati, gente il cui massimo successo militare nella propria storia è stato il massacro di un migliaio di civili, non ha capito nulla per quanto ami – magari – costruire sofisticate narrazioni teleologiche sulla necessità storica di questo o quello, siano esse supportate da qualche versione postcoloniale del DiaMat o da qualche ubriacatura sulla necessità storica del suprematismo israeliano, magari a nome d tutte l’Occidente.

Alla fine gli unici che danno un segnale che non sia di accettazione della mortifera politica degli apparati statali sono quelle centinaia di migliaia di persone che in terra israeliana e iraniana in questo ultimo anno sono scesi in piazza contro i loro governi, individuando nello stato di guerra permanente promosso dai propri governi la causa dell’immiserimento delle proprie vite, sono i giovani palestinesi che anche sotto l’assedio militare israeliano e il governo diretto di una banda di schifosi reazionari islamici, o della corrotta e marcescente ANP nella West Bank, cercano la loro via di uscita. Se dobbiamo augurarci qualcosa ci auguriamo che un giorno saranno loro a spezzare le multiple cinte di assedio e lo faranno con chi vive, anche se in modo diverso, simili assedi nel resto della regione. Se qualcosa di buono un giorno verrà, verrà da loro.

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