IL LEVIATANO, UN AUTOMA ARTIFICIALE CONTRO LA GUERRA PERPETUA

Hobbes o della fondazione razionale dello Stato, il “dio mortale”

Perché non possiamo dire che tutti gli automi (macchine che si muovono da sé mediante molle e ruote, come un orologio) hanno una vita artificiale? […] L’arte va ancora più lontano, imitando quella razionale e più eccellente opera della natura che è l’uomo. Poiché dall’Arte viene creato quel gran Leviatano chiamato Comunità Politica[1] o Stato (in latino Civitas) il quale non è altro che un uomo artificiale, sebbene di statura e forza maggiore di quello naturale, alla cui protezione e difesa fu designato. In esso la sovranità è un’anima artificiale in quanto dà vita e movimento all’intero corpo; i magistrati e gli altri ufficiali della giudicatura e dell’esecuzione sono le giunture artificiali; la ricompensa e la punizione (che, essendo attaccate alla sede della sovranità, muovono ogni giuntura e ogni membro al compimento del proprio dovere) sono i nervi, i quali fanno la stessa cosa nel corpo naturale; la prosperità e la ricchezza di tutti i membri particolari sono la forza; la salus populi (la sicurezza del popolo) i suoi affari; i consiglieri che gli suggeriscono tutte le cose che è necessario esso conosca, sono la memoria; l’equità e le leggi, una ragione e una volontà artificiali; la concordia, sanità; la sedizione, malattia; la guerra civile, morte. Infine, i patti e le convenzioni, da cui le parti di questo corpo politico sono state dapprima fatte, messe insieme e unite, rassomigliano a quel fiat, o a quel facciamo l’uomo pronunciato da Dio nella creazione[2].

Lo Stato (alias leviatano, dio mortale, comunità politica o civitas), secondo Hobbes, è un automa, un “organismo” artificiale, creato dall’arte dell’uomo per la sua stessa protezione. La sovranità è l’anima di questo automa, la forza che muove tutte le sue parti. La necessità di creare un tale automa, per Hobbes, deriva dalla volontà di risolvere la guerra in pace. Il bisogno di sicurezza deriva dalla volontà di disporre in pace della propria vita e dedicarsi con più facilità alle arti, ai commerci, ai piaceri e anche all’ozio. Di per sé l’egoismo insito nella natura umana lo inclina alla competizione e all’arricchimento personale e questo conduce inevitabilmente alla contesa con l’altro, bellum omnium contra omnes: La competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa, all’inimicizia e alla guerra, perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro[3].

Per tali motivi, per evitare l’insicurezza delle contese, dell’ingiusta sentenza “che vinca il più forte”, l’uomo tende a costruire questo potere, questo automa che sta sopra la moltitudine umana affinché sia esso a garantire le regole del gioco e una certa pace sociale: Il desiderio di agi e di diletto sensuale, dispone gli uomini ad obbedire ad un potere comune, perché a causa di tali desideri, si abbandona quella protezione che si poteva sperare dalla propria industria e dalla propria fatica […] Il desiderio di conoscenza e delle arti pacifiche, inclina gli uomini ad obbedire ad un potere comune, poiché tale desiderio contiene un desiderio di ozio, e, conseguentemente, di protezione da parte di qualche potere altro dal proprio[4].

Nell’analisi hobbesiana, dunque, il desiderio, le passioni, l’egoismo e quindi la forza, stanno alla base di tutte le possibili relazioni che si intrecciano nel mondo, di tutti i possibili sentieri dell’uomo. L’ignorante, infatti, colui che non conosce o non si occupa delle cause e delle leggi, della natura delle cose, è spinto ad agire secondo consuetudine: crede vere le cose che la maggioranza crede e false quelle che il sentire comune disprezza e punisce.

In ciò sono simili ai fanciulli, i quali non hanno altra regola di buoni e cattivi costumi se non le correzioni che ricevono dai loro genitori e maestri, salvo che i fanciulli sono costanti nella loro regola, mentre non sono così gli uomini, perché, divenuti forti e ostinati, si appellano dalla consuetudine alla ragione e dalla ragione alla consuetudine, come serve al loro scopo, recedendo dalla consuetudine quando il loro interesse lo richiede, e ponendosi contro la ragione tutte le volte che la ragione è contro di loro. Questa è la causa per cui nella dottrina di ciò che è retto e di ciò che è torto si disputa perpetuamente sia con la penna che con la spada, mentre non è così nella dottrina delle linee e delle figure, perché di quale sia la verità in quel soggetto, gli uomini non si curano, dato che è una cosa che non si incrocia con l’ambizione, il profitto o la concupiscenza di alcun uomo. Non dubito infatti che se fosse stata una cosa contraria al diritto di dominio di qualcuno o all’interesse degli uomini che hanno il dominio, il fatto che i tre angoli di un triangolo siano uguali a due angoli retti, tale dottrina sarebbe stata, se non disputata, tuttavia soppressa con il bruciare tutti i libri di geometria, per quanto ne era in grado quello cui ciò interessava[5].

Anche la dottrina di ciò che è retto, dunque, lungi dall’essere un mero fatto filosofico rimane un dato derivante da una conflittualità politica. Non perché non esista per Hobbes una verità razionale e quindi ‘naturale’ ma perché non bastano consuetudine e ragione per fare di un fatto una verità. Da qui quel certo relativismo che innerva di sé le comunità umane e che trova il suo momento genetico nelle passioni umane, nella convenienza, nella prepotenza, nella superbia del comando. Si passa da consuetudine a ragione e viceversa a seconda dell’utilità individuale e, in tal senso, la verità politica non è che il risultato finale di una disputa tra contendenti ed è accaparrata da chi è più convincente o meglio da chi domina essendo il più forte. Questo è un condensato di quel realismo politico hobbesiano che avrà tanti eredi nel corso dei secoli.

Quindi, la condizione normale – si potrebbe dire naturale – dell’uomo, senza l’invenzione di questo automa artificiale che chiamiamo Stato, sarebbe un continuo scenario di guerra “in cui ogni uomo è nemico ad ogni uomo”. Laddove l’uomo può confidare solo nelle sue forze per difendersi dalle altrui cupidigie o cattive intenzioni, tutte le forze saranno convogliate nell’armarsi, nel vigilare, nel garantirsi il necessario per sopravvivere. Non possono esserci, in questo stato di guerra, energie da dedicare all’ozio, all’arte, alla scienza, alle relazioni sociali: Cosicché nella natura umana troviamo tre cause principali di contesa: in primo luogo, la competizione, in secondo luogo, la diffidenza, in terzo luogo la gloria. La prima fa sì che gli uomini si aggrediscano per guadagno, la seconda per sicurezza, e la terza per reputazione. Nel primo caso gli uomini usano violenza per rendersi padroni delle persone di altri uomini, delle loro donne, dei loro figli, del loro bestiame; nel secondo caso per difenderli; nel terzo caso per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente, e qualunque altro segno di scarsa valutazione […]. Da ciò è manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La guerra, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia[6].

La condizione naturale dell’uomo ha le sue leggi (jus naturale) che prescrivono ad ognuno la libertà di usare le proprie energie e capacità per preservare la propria vita utilizzando i mezzi che più ritiene opportuni anche a scapito dell’altrui vita (mors tua, vita mea). Tutto è concupiscibile e accaparrabile nello spazio storico-naturale in cui si vive. Tutto ciò che ritengo mi sia utile posso anche accaparrarmelo se ne ho la forza.

Perciò, finché dura questo diritto naturale di ogni uomo ad ogni cosa, non ci può essere sicurezza per alcuno (per quanto forte o saggio egli sia) di vivere per tutto il tempo che la natura ordinariamente concede agli uomini di vivere[7].

In questo stato di precarietà che contrappone uomo contro uomo in una costante probabilità della guerra e quindi della perdita di tutto, produzione, casa, parenti, vita, conviene all’uomo limitare la sua libertà di utilizzare le proprie sostanze e capacità, il proprio potere, anche contro gli altri. Da qui scaturiscono per Hobbes la prima e la seconda legge naturale (lex naturalis): L’enunciazione dei dettami della ragione naturale subisce lievissime variazioni nel passaggio dagli Elements al De cive, al Leviathan, e i mutamenti riguardano solo prescrizioni di rilievo minore; in ogni caso, le due leggi più importanti ai fini dello sviluppo del discorso hobbesiano permangono inalterate. Si tratta della prima, relativa all’associazione degli individui, a scopo di pace o di difesa, e della seconda, relativa all’osservanza dei patti: la prima comporta infatti tutta una serie di considerazioni riguardanti la rinuncia di ciascun uomo al proprio diritto su tutto, e quindi le modalità dell’abbandono e del trasferimento di un diritto[8].

L’uomo ancora non riunito in civitas, dunque, ha tutti i diritti naturali di usare le sue sostanze ed il suo potere come meglio crede nell’obiettivo di accrescere le sue comodità e ricchezze e preservare con questo la propria vita. Ma questo diritto proprio e comune a tutti gli uomini, abbiamo visto, genera inesorabilmente uno stato di guerra continuo. Per porre termine a questo stato e garantirsi la pace con la sicurezza che ad essa consegue e che è molto più utile a preservare la propria incolumità, l’uomo può decidere liberamente di limitare questi suoi diritti naturali per consentire ad altri una fruizione limitata e quindi godere della pace.

Legge civile e legge naturale non sono generi differenti, ma parti differenti della legge, di cui una parte, quella scritta, è chiamata civile e l’altra, quella non scritta, naturale. Però il diritto di natura, cioè la libertà naturale dell’uomo, può essere ridotto e ristretto dalla legge civile; anzi, il fine del fare le leggi non è altro se non tale restrizione, senza la quale non si può avere alcuna possibilità di pace. E non per altro la legge è stata introdotta nel mondo, se non per limitare la naturale libertà degli uomini particolari, in maniera che essi non si danneggiassero, ma si assistessero l’un l’altro, e si unissero contro un comune nemico[9].

Questa limitazione o trasferimento dei diritti si chiama contratto e prevede la decisione di più persone, perché limitare il proprio diritto senza che l’altro acconsenta ad una decisione analoga spoglia un uomo del proprio diritto divenendo preda del diritto altrui. Per questo motivo occorre una sorta di patto sociale che alla fine coinciderà con la creazione di quell’automa artificiale, il leviatano chiamato Stato che sia capace di generare un ambiente spazio-temporale pacificato. Non servirebbe a nulla, infatti, che molti uomini si decidessero per la pace mentre alcuni mantenessero i loro diritti a fare tutto ciò che la loro libertà ed il loro potere gli suggerissero: i primi diverrebbero mere prede dei secondi.

Mettiamo che, in una società naturale, la stragrande maggioranza di uomini in una comunità decidano di limitare il proprio potere, accontentandosi delle proprie sostanze per permettere agli altri di godere delle loro in pace, mentre una sparuta minoranza continui ad insediare le vite ed i possedimenti altrui. Quella minoranza, comunque, genererebbe uno stato di guerra perenne con la relativa insicurezza ambientale.

[…] vi sono coloro che in virtù della uguaglianza naturale permettono che gli altri compiano gli stessi atti che essi permettono a se stessi (ed è il modo di comportarsi di un uomo moderato, che valuta con esattezza le proprie forze); ma vi sono pure coloro che, stimandosi superiori agli altri, pretendono che sia loro lecita qualsiasi cosa, e chiedono per sé soli, di fronte a tutti gli altri, ogni sorta di onore (ed è il modo di agire proprio dei prepotenti)[10].

Facendo un esempio, potremmo pensare ad una comunità italiana dove la stragrande maggioranza dei cittadini abbiano deciso di sottomettersi al “contratto sociale” generale rinunciando del proprio illimitato diritto a favore della pace mentre in pochi abbiano preso la decisione contraria di istituire un altro patto sociale – in questo caso Hobbes direbbe segreto ed illegale – che chiamano ‘cosa nostra’, ‘ndrangheta’ o ‘camorra’ e che abbia come scopo quello di impadronirsi, anche con la forza, delle sostanze e dei diritti altrui per averne dei vantaggi personali. In questo caso di pura fantasia (sic!) o i primi si difenderanno collettivamente dai secondi, oppure i secondi renderanno schiavi i primi. Anche questo è un esempio attuale di realismo politico.

Da quella legge di natura, per la quale siamo obbligati a trasferire ad altri quei diritti che, se vengono trattenuti, ostacolano la pace del genere umano, ne segue una terza, questa, che gli uomini adempiano i patti fatti da loro: senza di essa i patti sono vani e solo vuote parole, e rimanendo il diritto di tutti gli uomini a tutte le cose, si è sempre nella condizione di guerra[11].

Come afferma San Paolo, noi conosciamo il bene ma siamo tentati ad agire il male. È il mistero del peccato che, secondo la teologia paolina, è dilagato nel mondo a causa della ribellione di Adamo, il primo uomo. Questo concetto teologico è sostanzialmente ripreso dal nostro filosofo politico quando descrive le leggi di natura che seguono concetti razionali ed utili come la giustizia, l’equità, la modestia e la misericordia secondo la sintesi evangelica del fare agli altri quel che vorremmo fosse fatto a noi. Purtroppo, però, queste leggi naturali non possono inverarsi nella realtà quotidiana senza il terrore di qualche potere che le faccia osservare. Questo perché, analizzando la realtà sociale, ci accorgiamo che queste ‘virtù’ naturali sono in contrasto e si oppongono alle umane passioni che ci spingono alla parzialità, all’orgoglio, alla vendetta e simili[12].

Queste passioni dell’umano spingono a fare più quello che conviene che quello che è vero. Se mi fosse utile allargare i miei campi per avere un maggiore introito o una maggiore sicurezza alimentare, questo potrebbe portarmi a occupare il campo altrui semplicemente facendo perno sulla mia più ampia forza. Se poi non ho la forza di coltivare tutta questa estensione potrò rendere schiavi i miei vicini e farli lavorare per me. Se poi la lussuria mi porterà a desiderare la figlia del fattore non avrò da fare altro che allungare la mano e coglierla. Questi esempi, potremmo dire di cronaca, suggeriscono ad Hobbes la sua analisi del comportamento degli uomini che naturalmente amano la libertà e il dominio sugli altri[13].

Ma questo comportamento passionale ha dei lati negativi. Infatti basterebbe che si avvicinasse ai miei possedimenti un altro uomo più forte di me per perdere tutto. Già questo sentimento di insicurezza è chiamato da Hobbes ‘guerra’, un pericolo potenziale che renderebbe comunque, reale o meno, la vita precaria e insoddisfacente. Per questo motivo l’uomo ha preferito rinunciare a questa libertà di dominare sul mondo e sugli altri per restringere la propria vita in una dimensione più angusta all’interno di uno Stato, di una comunità politica retta da norme che ne garantiscano però una certa sicurezza ed una certa sensazione di tranquillità.

La causa finale, il fine o il disegno degli uomini […] nell’introdurre quella restrizione su loro stessi (in cui li vediamo vivere negli stati) è la previsione di ottenere con quel mezzo la propria preservazione e una vita più soddisfacente, vale a dire, di uscire da quella miserabile condizione di guerra, che è necessariamente conseguente […] alle passioni naturali degli uomini, quando non c’è un potere visibile per tenerli in soggezione, e legarli, con il timore della punizione, all’adempimento dei loro patti e all’osservanza di quelle leggi di natura. […] Se potessimo infatti supporre che una grande moltitudine di uomini consentisse nell’osservare la giustizia e le altre leggi di natura, senza un potere comune che li tenesse tutti in soggezione, potremmo del pari supporre che tutta l’umanità facesse lo stesso; non ci sarebbe allora, né sarebbe affatto necessario che ci fosse alcun governo civile o stato, perché vi sarebbe la pace senza la soggezione[14].

Ritorna qui il dato analitico che riporta alla realtà politica ogni riduzionismo utopico. Certamente sarebbe auspicabile, sembra dire Hobbes, che ogni uomo sapesse liberamente auto-governarsi seguendo la giustizia e le leggi di natura. Non servirebbe in tal caso nessun governo, nessuno Stato. Purtroppo non risultano verificati esempi di una tale comunità per pur piccola che possa essere. Sono molto di più gli esempi di fallimento di comuni e collettivi che dopo un primo slancio della volontà si ritrovano inevitabilmente a scindersi in gruppi sempre più piccoli e poi disperdersi a causa di incomprensioni dovute sempre alla passionalità umana. E se dunque questa caoticità passionale è la vera natura dell’uomo, affinché ci sia una qualche possibilità di vita sociale, occorre che si instauri un governo statale.

Questo è più del consenso o della concordia; è un’unità reale di tutti loro in una sola e medesima persona fatta con il patto di ogni uomo con ogni altro, in maniera tale che, se ogni uomo dicesse ad ogni altro, io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamato uno Stato, in latino Civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa[15].

Tutto questo ragionamento viene condotto da Hobbes per fondare razionalmente quello che precedentemente era fondato teologicamente. Ogni autorità viene da Dio, per San Paolo il potere secolare era teologicamente fondato perché la sua spada serviva da contenimento alle nequizie degli empi. Nulla avrebbe dovuto temere il cristiano dal potere secolare visto che con la sua condotta di vita supera le leggi positive. Questo non impedirà, comunque, come sappiamo dalla storia, lo scontro tra il cristianesimo nascente e l’Impero Romano. Evangelicamente, fa fede la massima del Cristo che comanda di dare a Cesare quel che era di Cesare (la moneta, l’amministrazione) ma a Dio quel che era di Dio (ovvero tutto l’uomo in spirito, anima e corpo). Rispettando il dettato di queste ipsissima verba, i cristiani potevano partecipare come normali cittadini alla vita della polis ma non potevano assolutamente concedere nulla sotto il profilo spirituale e quindi, ad esempio, non potevano partecipare al culto pubblico e civile dell’Imperatore, che era uno dei fondamenti dell’Impero Romano con il suo corollario di offerte e venerazione quasi fosse una divinità.

Successivamente, però, quando con Costantino la ‘nuova’ religione cristiana da illecita divenne lecita per poi diventare, successivamente, addirittura la fede ufficiale dell’Impero, gli stessi imperatori divennero ‘simili agli apostoli’, santi venerati dalla Chiesa che si organizzava pubblicamente e, in certo senso, vicari di Dio in terra. Lo Stato quindi era così di fatto fondato su principi teologici: gli imperatori vigilavano sulla corretta dottrina della fede, erano interessati a questo dai vescovi e spesso furono loro ad indire concili ecumenici per risolvere le controversie di fede che grossa eco avevano anche negli strati popolari dei cittadini romani.

Con l’età dei lumi, con il razionalismo che poi sfociò in positivismo, questa fondazione dello Stato non poteva più andare bene e quindi, per adeguarsi alla nuova temperie culturale, il fondamento della civitas doveva essere trovato nella ragione. Non esisteva più quella omogeneità sociale che accettava globalmente il messaggio cristiano. Le credenze venivano sempre più spesso tacciate di superstizione e fanatismo rispetto al metodo scientifico che da Cartesio in giù iniziava a prendere forma. Tra credenti e non credenti, teisti, deisti e atei, cominciarono a crearsi delle crepe che non potevano che sfociare in un conflitto strisciante o aperto. Quello stesso clima di guerra che Hobbes attribuiva alle passioni umane, agli interessi confliggenti, per rimediare al quale urgeva creare un potere sovrano capace di garantire pace, sicurezza e norme. Questo leviatano moderno, però, non poteva trovare più fondamento nella Scrittura dei cristiani ma doveva essere fondato razionalmente: la matrice di questa comunità politica non potevano più essere i rotoli della legge dati da Dio stesso a Mosè ma il nuovo legislatore doveva avere una natura più mortale, umana. Dopo il Dio immortale, afferma Hobbes, è il dio mortale a prendersi cura di creare le basi di un ambiente umano pacificato e che possa prosperare nel benessere e nel progresso.

In questo senso, il nostro filosofo politico trova due possibilità genealogiche del potere sovrano fondate sulla ragione: la prima è la via dell’acquisizione, o della forza, la seconda è quella istituzionale o pattizia. Lo Stato, il potere sovrano, emerge dalla forza di un uomo o di un gruppo di uomini capace di imporre le proprie volontà grazie ad una forza soverchiante quella degli altri uomini assoggettati. L’altra via è quella del patto tra eguali che decidono di rinunciare a parte della propria sovranità per costituire, istituire questo dio mortale, questo automa artificiale capace di fare sintesi tra le volontà plurime del popolo e realizzare così pace e sicurezza.

Dio, dunque, non è ancora morto in Hobbes ma ha subito la sua prima secolarizzazione, in senso teologico-politico, che lo ha confinato nella sua immortalità per lasciare spazio, quaggiù, ad un altro dio, questa volta mortale, capace di dirimere le questioni nella quotidianità terrosa della vita degli uomini storici. Sostanzialmente vince il discorso teologico-politico deista o agnostico per cui se un Dio esiste certamente è il fattore di tutto ciò che è materiale ma che poi ha abbandonato a se stesso, alle sue leggi autonome, naturali. Un Dio disinteressato delle sorti dell’uomo e del creato.

È chiaro che il concetto di secolarizzazione, che tanta strada farà nel pensiero politico contemporaneo, porta con sé un processo di depotenziamento del fondamento. Se alla base dello Stato è posta la stessa legge di Dio, questo fondamento risulta certamente più granitico rispetto ad una base meramente pattizia e contrattuale. In questo secondo caso, filosoficamente, il ‘patto sociale’ non è generato dalla divinità suprema e super partes ma si fonda sulla volontà parziale e temporanea degli uomini. Si passa concettualmente dal regno della fede in cui vige l’infallibilità, al regno della ragione che prevede la fallibilità umana. Chi sono, infatti, questi uomini che si sono riuniti per costituire lo Stato? Oppure, nella seconda modalità, chi sono questi forti che un tempo ci costrinsero a sottometterci a loro? Un conto, quindi, è controvertere la parola di Dio, un conto discutere quella di uomini che un tempo si misero d’accordo per redigere un patto. Quale diritto ha la loro decisione volontaria e storicamente data sulle generazioni successive? Al contrario il giudizio di Dio non può che essere a-temporale e quindi valido per sempre, di generazione in generazione. Questo, dunque, la prima demolizione del fondamento politico attuato per mano di un processo di secolarizzazione pur sempre generato da nuove idee metafisiche e come tali teologiche con ripercussioni politiche. Il quadro teorico diventa più problematico nel suo fondamento ma rimane l’unico quadro possibile.

Note

[1] Nel testo originale “Common-wealth”

[2] T. Hobbes, Il leviatano, BUR, Introduzione

[3] Ibidem, XI, Della differenza dei costumi

[4] Ibidem, XI

[5] Ibidem, XI

[6] Ibidem, XIII, Della condizione naturale dell’umanità…

[7] Ibidem, XIV, Della prima e seconda legge naturale…

[8] A. Pacchi, Introduzione ad Hobbes, Laterza, p. 46

[9] Ibidem, XXVI, Delle leggi civili

[10] T. Hobbes, De cive, I, 4

[11] Ibidem, XV, Delle altre leggi di natura

[12] Ibidem, XVII, Delle cause, della generazione e della definizione di uno stato

[13] Ibidem, XVII

[14] Ibidem, XVII

[15] Ibidem, XVII

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