IL RIBELLISMO NELL’ARTE TRA SISTEMA E ANTISISTEMA

Recentemente è venuto meno il mito dell’anonimato di Banksy: una denuncia lo ha obbligato a presentarsi in un’aula di tribunale dove il graffitaro dovrà tutelare la sua opera che, da arte di strada effimera e controcorrente, si è trasformata, suo malgrado, in oggetto commerciale a tal punto che lo stesso artista si è visto costretto a creare una “società di tutela dal mercato”. Assolutamente contro il copyright, l’artista inglese si è dovuto tutelare dall’utilizzo commerciale che viene fatto delle sue stesse opere. Dice Stefano Antonelli, in una recente intervista, che questa sua battaglia è iniziata anni fa, quando Banksy, per cercare almeno in parte di proteggere il suo lavoro, pur senza mai dichiarare la sua identità, ha costituito una società, la Pest Control (S. Antonelli, Certo, Banksy è Robin Gunningham. Ma il suo mito rimane intatto. E vi spiego perché, Artuu, 9 ottobre 2023).

Sul sito di questa società che tutela i diritti dell’artista nel tentativo di non sfociare nel copyright si legge: Puoi utilizzare le immagini di Banksy per divertimento personale e non commerciale. Stampali in un colore che si abbini alle tue tende, crea un biglietto per tua nonna, inviali come compiti a casa, qualunque cosa. Ma né Banksy né Pest Control concedono in licenza le immagini dell’artista a terzi. Si prega di non utilizzare le immagini di Banksy per scopi commerciali, incluso il lancio di una gamma di prodotti o indurre le persone a pensare che qualcosa sia stato realizzato o approvato dall’artista quando non lo è. Dire “Banksy ha scritto che il copyright del suo libro è per i perdenti” non ti dà libero sfogo nel travisare l’artista e commettere frodi. Abbiamo verificato (traduzione nostra).

Già in questo ravvisiamo l’avverarsi della constatazione che non esiste nulla che viva in un al di là rispetto al capitalismo. Non sarebbe altro che un luogo mitico e auto-affermato al pari della Terra di Mezzo di Tolkien o di Utopia di Tommaso Moro. Banksy partito dalla periferia di Bristol come un bandito graffitaro operante nella notte per non farsi beccare dalla polizia, dopo il successo planetario ha dovuto cercare una qualche ricetta per non farsi del tutto fagocitare dal sistema commercial-finanziario. Ricordiamo che le sue opere sono vendute a milioni di euro come il famoso quadro autodistruggente “Love is in the Bin” che è stato battuto all’asta da Sotheby’s a Londra per 18.582.000 sterline, pari a 25.383.941 dollari. 

Lo stesso Banksy è ovviamente conscio di questo ossimoro, un’opera artistica anti-sistema ma talmente famosa da essere oggetto di attività commerciali milionarie. Tante le critiche, come sempre accade, dalla stessa comunità dei graffitari, molto spesso sfigati o che non hanno goduto della stessa massmedialità, a cui l’artista stesso rispose nel 2010 in un’intervista come sempre caustica e multilivello: io dico a me stesso che uso l’arte per promuovere il dissenso, ma forse sto piuttosto usando il dissenso per promuovere la mia arte. Mi dichiaro non colpevole di tradimento. Ma mi dichiaro innocente parlando da una casa più grande di quella in cui vivevo prima (O. Ward, An interview with Banksy, Time Out London, 3 marzo 2010).

In effetti scriviamo sulla sua storia proprio per analizzare questo fenomeno di ribaltamento, i più saggi direbbero sussunzione, dei riottosi poveri in riottosi o integrati ricchi. Potremmo estendere questa analisi al nostro Zerocalcare che viene trasmesso da Netflix pur mantenendo la sua cifra stilistica o J-Ax che da hip-hopper di quartiere si ritrova a lanciare i tormentoni estivi: per fortuna si può dire tutto, pure che è incredibile che un ambiente tossico come quello dei centri sociali di Roma abbia prodotto una cosa così bella come “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare. E che lui sia riuscito a guadagnare come una Ferragni grazie al capitalismo di Netflix. Ero lì a guardare una sua intervista in cui girava per un Carrefour in cerca di ingredienti per preparare un hamburger, che era il format delle interviste, e prima del video partiva la pubblicità del supermercato (l’algoritmo non è antagonista). Lì ho ricostruito la parabola che parte dal Crack! del Forte Prenestino e arriva a Netflix. Tempo due anni e ce lo ritroviamo a promuovere i Suv della Mercedes e a far le pubblicità dell’Eni. E che male c’è? Non sto sostenendo non sia sincero: non m’importa neppure lo sia. Il capitalismo vince sempre, e se non puoi combatterlo finisci in catalogo (M. Peruzzo, Il successo di Zerocalcare è la vittoria del capitalismo di Netflix sui centri sociali, Il Foglio, 24 novembre 2021).

Un articolo che in fondo pone alcune questioni che sono la spina dorsale di questa riflessione: il fatto che alla fine il capitalismo riesce a normalizzare e portare a sé tutto ciò che può avere un impatto significativo tra i consumatori. Alcune grandi intuizioni sociali, spesso provenienti da esperienze dal basso (il biologico, i gruppi d’acquisto solidali, il software libero, solo per citarne alcune), da tempo sono diventate settori di business della grande distribuzione organizzata o delle multinazionali dell’high tech.

Ma torniamo alla nostra storia.

Banksy nasce in un ambiente, quello dell’arte di strada a Bristol negli anni Ottanta, in cui l’anonimato è non soltanto una pratica molto diffusa, ma è anche necessario e direi quasi obbligatorio. Negli anni in cui Banksy opera a Bristol, se ti trovavano a fare un graffito ti davano 16.000 sterline di multa e rischiavi di fare sei mesi di carcere, insomma era una cosa molto seria. Per tutti, sono gli anni della signora Thatcher ma anche del pugno di ferro contro i graffiti, della cosiddetta “Operazione Anderson” che è stata la più grande operazione anti-graffiti della storia, dove decine e decine di graffitisti vengono inquisiti e molti sono costretti a smettere, mentre altri, quelli che continuano ad operare, sono costretti a entrare in una vera e propria clandestinità. Da qua nasce il “metodo Banksy (S. Antonelli, Certo, Banksy è Robin Gunningham. Ma il suo mito rimane intatto. E vi spiego perché, Artuu, 9 ottobre 2023).

L’opera d’arte dello street artist non è soltanto un mettere una tela su un cavalletto ma consiste in appostamenti, sopralluoghi, blitz furtivi utilizzando la città come museo e una bomboletta come pennello. L’anonimato, inoltre, affascina di per sé, per il suo porsi in antitesi ad una società basata sul selfie e l’autonarrazione. Banksy è riuscito a diventare famoso saltando il sistema museale e dei critici d’arte; prima il popolo lo ha fatto suo e solo successivamente è passato al mainstream conquistandosi uno spazio comunicativo mondiale senza passare dai salotti televisivi, dai paparazzi o dalle foto nature su qualche calendario. Ma questa clandestinità non deve lottare solo contro la repressione delle leggi e delle guardie ma anche contro la normalizzazione del mercato. Se, infatti, rendi popolare e commerciale un’azione estrema e marginale, la rendi alla fine commerciale e ti accorgi che puoi farci dei soldi. Alla fine, nonostante i tuoi più puri pensieri, hai solo allargato i confini del sistema capitalistico e la sua presa sulle persone.

Daniel scrive: Non so chi siete né quanti siete ma vi scrivo per chiedervi di smettere di dipingere le vostre cose dove viviamo. In particolare strada xxxxxx a Hackney. Mio fratello ed io siamo nati qui e abbiamo vissuto qui per tutta la vita, ma in questi giorni così tanti yuppie e studenti si stanno trasferendo qui tanto che nessuno di noi due può più permettersi di comprare la casa dove siamo cresciuti. I tuoi graffiti sono senza dubbio parte di ciò che fa credere a questi segaioli che la nostra zona è bella. Ovviamente non sei di queste parti e dopo aver fatto salire i prezzi delle case probabilmente te ne andrai e basta. Fai un favore a tutti noi e vai a fare le tue cose da qualche altra parte come Brixton (lettera ricevuta sul sito di Banksy con nome e indirizzo non nascosti e resa nota dall’artista nel suo libro “Wall and Piece”).

Certamente non era obiettivo di Banksy quello di far salire il prezzo delle case di un anonimo Quartiere ma il sistema sa utilizzare bene anche le idee antisistema più radicali per lucrarci sopra. Una lotta impari tra comunicazione e pubblicità, tra realtà militante e verità mass-mediale. Tutto può essere utilizzato, anche l’icona del Che Guevara per fare magliette, spillette e cappellini: Un martedì sera d’estate ho provato a dipingere il ponte ferroviario che attraversa Portobello Road, nella zona ovest di Londra, con i manifesti che raffigurano il leader rivoluzionario Che Guevara, che a poco a poco si staccano dalla pagina. Ogni sabato il mercato sotto il ponte vende magliette, borsette, bavaglini e spille di Che Guevara. Credo di aver cercato di fare una dichiarazione sul riciclo infinito di un’icona riciclando all’infinito un’icona (Banksy, Wall and Piece, 2012).

Il bipolarismo che è costretto a vivere Banksy nella sua azione artistica è molto simile a quello che vivono i movimenti anti-capitalisti: ad ogni spinta in avanti corrisponde una spinta ulteriore del sistema tendente ad inglobare la novità. Una lotta senza quartiere che trova però il sistema con il coltello dalla parte del manico, più organizzato e con maggiori risorse. Quando il “movimento” di lotta con fatica riesce a creare una frattura nel meccanismo sistemico, a generare una breccia nella narrazione mainstream, spesso si lascia cullare da questa vittoria parziale, si ferma a prendere fiato generando una consuetudine antagonista, un’auto-narrazione dell’impresa che serve a riprendere fiato ma che inesorabilmente si fossilizza formalizzandosi in una conformistica tradizione ribelle destinata a spegnersi inesorabilmente, braccata e poi superata e conquistata dal tumultuoso fluire del capitalismo che non conosce requie. Di fatto, l’avanguardia che informa di sé la storia promuovendone passaggi e mutamenti è oggi rappresentata dal capitale mentre i movimenti popolari di lotta si muovono invariabilmente su temi da retroguardia, seguendo l’agenda dettata dalla comunicazione mass-mediale. Laddove c’è una telecamera accesa lì c’è lo striscione del comitato di turno, vero o improvvisato che sia, ma tutto ciò nel mentre il capitale si è già mosso per programmare il prossimo scacco matto.

C’è un lavoro che rifiuterebbe per principio? “Si, ho rifiutato quattro proposte della Nike, sinora. Ad ogni nuova campagna mi mandano una mail chiedendo di fare qualcosa per loro. Non ho preso nessuno di questi lavori. La lista dei lavori che ho rifiutato è infinitamente più lunga di quella dei lavori che ho fatto, al momento. È una specie di CV al contrario, tipo, strano. La Nike mi ha offerto delle cifre pazzesche per far qualcosa per loro”. Cosa intende per cifre pazzesche? “Un sacco di soldi!” risponde impacciato. E perché allora ha rifiutato? “Perché i soldi non mi servono, e perché non mi piace che i bambini lavorino fino a consumarsi le dita all’osso per niente. […] Voglio restare fuori da questa merda, per quanto possibile (Simon Hattenstone, Something to spray, The Guardian, 17 luglio 2003, contenuto in La vera arte è non farsi beccare, Interviste a Banksy. 24 Ore Cultura srl, Milano, 2020).

Cosa vuol dire questo “restare fuori dalla merda, per quanto possibile?”. Quali sono i confini da non superare? È possibile contro-utilizzare quella merda per concimare l’orto del futuro? A nostro avviso, queste dovrebbero essere le domande che un pensiero militante dovrebbe porsi, in un permanente lavorio tra teoria e prassi.

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