«NOI È PIÙ CHE IO»

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato d’eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La cui chance sta, non da ultimo, nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia. – Lo stupore perché le cose che noi viviamo sono ‘ancora’ possibili nel xx secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile[1].

Com’è possibile che ai nostri giorni si professino ancora queste puerili filosofie? Dopo un secolo da questo scritto nulla è cambiato e la gente vive dell’errore filosofico segnalato da Benjamin. La fede messianica nel progresso non ha nulla di sostenibile ed il fascismo non è stato sconfitto una volta per tutte. Non esiste alcuna linearità. Il Messia della teologia è stato crocifisso dalla storia ma è risorto nei panni secolarizzati della politica. In Draghi we trust. Nella situazione ereditata dalla pandemia del 2021 e dalla guerra europea in Ucraina, solo un euro-burocrate, un tecnico che dà del tu alla Troika, avendone fatto parte, poteva risollevare le sorti del paese italico. Solo lui poteva essere capace di tradurre i linguaggi geroglifici contenuti nel salvifico PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Solo lui, Draghi, aveva la statura curricolare per poter stare ritto dinanzi al gotha europeo.

Sappiamo con chi poi propriamente s’immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta non può non essere: con il vincitore. Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico, si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si definisce patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Perché tutto ciò, deve la sua esistenza non soltanto alla fatica dei grandi geni che l’hanno creato, ma anche all’anonima servitù dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. Nella misura del possibile il materialista storico, quindi, ne prende le distanze. Considera suo compito spazzolare la storia contropelo[2].

Le tradizioni, tutte le tradizioni storiche, vanno recuperate ma guardate con sospetto, come ogni tradizione umana. La lente della teologia le illumina e le relativizza perché il Sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il Sabato (Marco 2,27). 

Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?” – dicevano gli scribi e i farisei al Cristo. Ed egli rispose loro “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini (Marco 7,5-8).

Tutte le tradizioni, anche quelle rivoluzionarie, possono essere recuperate dai vincitori, sussunte direbbero i grandi pensatori. Tutte le pratiche, anche quelle più radicali possono essere utilizzate a favore dei vincitori. Vanno allora guardate dall’alto, messe alla prova dei fatti, spazzolate in contropelo per vedere se effettivamente reggono alla critica: Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo ‘proprio come è stato davvero’. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi a essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l’Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere[3].

Con questo pensiero Benjamin riprende il concetto di rivoluzione così come sopra lo abbiamo esposto. Non un concetto statico ma obbligatoriamente dinamico. Un percorso che procede dando le spalle al futuro affinché neanche il passato venga imbrigliato dal nemico. Più che un progresso lineare è un eterno ritorno alle necessità originarie degli sconfitti della storia, anche in momenti di vittoria. Molto facilmente, ci ricorda Benjamin, la trasmissione del passato può diventare conformismo che è sempre più utile al nemico che a noi.

Non esiste un concetto magico della rivoluzione. Mi armo, parto, prendo il potere, sovverto l’esistente, instauro il migliore dei sistemi possibili. La rivoluzione, dicevamo, non è una realtà statica, puntuale, una data nella storia. Non c’è stata nel 1789, dato che poi è arrivato Napoleone e ancora dopo la Restaurazione. Non è avvenuta nel 1917 visto che poi il tutto è imploso nella fine della storia con la vittoria del capitalismo. Non è autonomo il proletariato così come non è autonomo il politico, il cambiamento delle cose presenti non può che passare dalla complessità dei ruoli e delle situazioni. In questo sbaglia chi crede di stravolgere le cose dal basso; per lo stesso motivo sbaglia chi crede di poter trasformare le cose dall’alto.

Cosa può un rivoltoso fattosi sindaco di una città se non cambia il sistema in alto e, contemporaneamente, il sentimento laggiù in basso. Può certamente galleggiare tra i marosi della storia, può ben amministrare la nave istituzionale, ma non può stravolgere le cose se non riesce a condurre un moto di precessione dell’asse di rotazione dal basso verso l’alto e viceversa intorno ad un secondo asse rappresentato dagli interessi degli sconfitti. Ruotare sempre intorno al medesimo asse significherebbe generare quella tradizione fatta di conformismo facilmente sussumibile dal nemico. Il lavorio politico sta proprio nello spostare continuamente ed anticipatamente l’asse di rotazione per strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Sentiamo che il grido di Zarathustra dice oggi: il popolo è morto! Come è possibile che voi, vecchi viandanti, non ve ne siete accorti? Ma il messaggio collettivo, che proviene da due secoli di lotte dei lavoratori, a loro volta eredi di una millenaria storia di rivolte delle classi subalterne, quel modo profondo di essere convinti che «noi è più che io», questo messaggio possiede ancora le condizioni per vivere, anche se non esprime adesso la volontà di vivere, in un’altra idea di solidarietà umana di parte. Quale questa deve essere, in quali soggetti incarnarsi, con quale forza imporsi, su quali tempi distendersi, è tutto questo che non si sa. E questa è la via della ricerca. «Profeta – dice Padre Turoldo – non è uno che annuncia il futuro,/è colui che in pena denuncia/il presente…». […] Contro quanto pensano tutti, la colpa del comunismo è quella stessa del moderno, secondo Nietzsche e Hölderlin: di non aver saputo generare nuovi dei[4].

Da questo «noi è più che io» proveniente dalla parte degli sconfitti c’è bisogno di far ripartire la ricerca affinché possa tornare ad essere principio vitale, strategico-programmatico che inveri nuovamente quella sana tradizione non conformata né conformista che ci ricorda come la moltitudine […] aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto […] e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (Atti 4,32-35).

È la comunità reale che si costituisce come controllo delle condizioni di esistenza di tutti gli individui componenti è ciò avviene quando essa si appropria delle forze produttivi e degli strumenti materiali di produzione promuovendo lo sviluppo di una totalità di capacità: In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni[4].

È l’epilogo dell’etica marxiana, direbbe Galvano della Volpe riferendosi al testo marxiano summenzionato, dove il moro di Treviri immagina una fase suprema della società comunista dove la socializzazione dei mezzi di produzione diventa creatrice di nuovi valori[5].

Note: 

[1] W. Benjamin, Sul concetto di storia, op. cit., p. 486.

[2] Ibidem, p. 486.

[3] Ibidem, p. 485.

[4] Mario Tronti, Con le spalle al futuro, Introduzione, Editori Riuniti, 1992.

[5] K. Marx, Critica del programma di Gotha, I, 1875.

[6] G. della Volpe, La libertà comunista, Bordeaux edizioni, 2018, p. 89.

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