NEL MONDO MA NON DEL CAPITALISMONDO

Militanza e coscienza di sé al tempo della sussunzione.

Un contributo di Wolf BUKOWSKI* in risposta al nostro articolo “SPOSSESSAMENTO E CONFLITTO

La pandemia è stata la cartina di tornasole della militanza, o più probabilmente il tracciato della fine dei suoi parametri vitali. Le aporie e anzi le miserie della militanza del tempo prepandemico, osservate col senno di poi, sembravano fatte apposta per incastrarsi e incastonarsi nella narrazione pandemica, cioè nella narrazione di una fine del mondo che non conduceva in alcun modo a una fine del capitalismo, anzi piuttosto promuoveva a un grado inedito la sussunzione integrale di ogni atto umano, produttivo o riproduttivo, al capitalismo stesso.

Ma andiamo per gradi. Ho fatto uso, in questo incipit, della semplicistica giustapposizione popolarizzata da Mark Fisher tra i concetti di fine del mondo e fine del capitalismo. Tale giustapposizione è espressione tarda delle aporie, dei detti-per-non-dire, del confusismo teorico che ci ha accompagnato negli ultimi almeno due decenni. L’arco temporale non è causale: il 2001 genovese non ne era affatto scevro, benché il suo finale tragico abbia comprensibilmente messo in ombra le sue premesse claudicanti. “It’s easier to imagine an end to the world than an end to capitalism”: di tale formula ci si è beati; in essa ci si è rigirati, e tale rigirarsi era già segno inequivocabile della fine del mondo della militanza. Inizialmente l’ho usata anche io, per pigrizia mentale e incapacità a resistere alla sua forza evocativa. Ma poi, mentre la pandemia acuiva i sintomi della malattia della militanza, ho iniziato a riguardarla con dubbio crescente. Perché ci piace così tanto?, mi domandavo. Forse perché tace su punti dolorosi (le aporie di cui sopra), e spinge invece sul proscenio una dualità facile da afferrare, quella tra mondo e capitalismo.

In un testo del 2021, pubblicato da Ortica edizioni in coda alla ristampa del mio racconto Il grano e la malerba, avevo messo in forma la riflessione su quella frase; ne riporto tra un momento alcuni passaggi. Il presupposto di quel testo era nella coincidenza a tre tra: capitalismo, tecniche del capitalismo e l’intero mondo di cui facciamo esperienza. Capitalismo e mondo, tramite le tecniche del capitalismo che tutto innervano, finiscono per essere la stessa cosa, allo stesso modo in cui Dio e Natura (natura nel senso secentesco di “ogni cosa che esiste”) si equivalevano in Spinoza.

Mi domandavo in quel testo: «cosa ci dice la formula, e soprattutto il consenso che riscuote?». La risposta che mi davo si incuneava nei non detti della frase, piuttosto che in ciò che essa rendeva esplicito: «se la tecnica è forma e sostanza del capitalismo avanzato (tecnica di calcolo, finanziaria, estrattiva, disciplinare, mediatica…), e tale tecnica del capitalismo coincide con il tutto della nostra esistenza, cioè col mondo, risulta di conseguenza chiaro che non possiamo pensare la fine del mondo e quella del capitalismo, cioè della sua tecnica, in modo separato e indipendente. Pensare la fine del mondo diventa così il solo modo di pensare la fine del capitalismo, poiché una fine (della tecnica) del capitalismo condurrebbe in effetti a una fine del mondo; mentre al contrario una fine del capitalismo che non sia anche al tempo stesso una fine del mondo è impossibile da pensare».

E ancora: «Ecco perché è più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo: senza capitalismo non c’è mondo residuo (la sua tecnica ha già occupato interamente il solo mondo disponibile, e va in cerca di altri mondi oltre la sfera terrestre), e dunque sul piano razionale meglio che non finisca, questo capitalismo, perché tale fine sarebbe appunto la fine del mondo». Ma il piano scelto dalla formula fisheriana non è il razionale quanto l’immaginario (“it’s easier to imagine…”), e dunque per veder soddisfatta l’esigenza di fantasticare la fine del capitalismo «ci arruoliamo al binge watching di un numero enorme di fini del mondo sotto forma di narrazioni distopiche. Esse sono infatti la sola fine del capitalismo che sia consentito immaginare».

Il nesso tra distopie e critica politica (più o meno militante: diciamo provvisoriamente “radicale”) è meno occasionale di quanto si possa pensare. La critica radicale oggi, infatti, non dispone di un’adeguata teoria e soprattutto di un adeguato rapporto tra teoria e prassi. Sul piano teorico, la dissoluzione dei confini tra stato e capitale ha confuso definitivamente tutta la parte genericamente comunista della critica radicale, che in una grossa sua componente continua a invocare uno stato che possa almeno concedere qualcosa, uno stato da cui si possa strappare qualcosa (spesso nelle forme indicate dal testo della Redazione, al punto 2) come se lo stato fosse qualcosa di radicalmente altro dal capitalismo. Da parte sua la componente anarchica della critica radicale, che alla comprensione di questa dissoluzione arrivava più preparata, si trova però nella dolorosa necessità di ammettere a sé stessa che i luoghi di autonomia degli individui e delle comunità risultano spesso incapaci di esprimere un’alterità che sia all’altezza di sé stessa. Come è stato ampiamente dimostrato dalle posizioni di subalternità alla narrazione pandemica del potere che si sono affermate anche in diversi luoghi “autogestiti” e “orizzontali”.

Ancora di più l’inadeguatezza della critica radicale si esprime nell’articolazione tra teoria e prassi: se piccoli gruppi riescono per esempio a evitare di precipitare nel vortice della comunicazione social, quello che era invece l’“antagonismo” diffuso (per esempio i centri sociali), che vi era già dentro prima con un piede, ora vi è sprofondato. Ricordo l’eterno ritorno, nelle assemblee del centro sociale che frequentavo, della questione del rapporto con Facebook, in cui era necessario ogni volta riaffermare che non bisognava avere una pagina del social, ma poi questa saggia decisione si risolveva con il fruire passivamente di pagine Fb altrui, o di pagine “civetta” dai nomi creativi e strampalati (cioè pagine in cui la creatività e la stranezza erano esercitate nel momento stesso in cui venivano sussunte dal capitale digitale). Nel quotidiano poi di compagni e compagne dell’antagonismo diffuso si manifestava anche anche una sorta di dissociazione, perché non riuscivano e neppure volevano rinunciare alla loro propria pagina Facebook personale. In essa postavano ovviamente anche pezzi della propria vita militante, a testimonianza del fatto che l’ultimo stadio  della dissociazione tra teoria e prassi è sempre quello personale, soggettivo; direi esistenziale.

Ultimo stadio o forse primo? Nasce prima l’accomodamento per pigrizia o la sua giustificazione in chiave personale e collettiva? Al giustificazionismo di ogni tipo di comportamento personale, compreso forse persino lo svaccamento e lo sdraiamento in posture gradite al potere, temo di aver nel mio piccolo contribuito anche io, insistendo in diversi scritti degli anni dieci sul fatto che “non si combatte il capitalismo con scelte personali, di consumo”, eccetera. Ora vedo la cosa sotto una diversa angolatura, e ritengo che se continua a essere vero che con i comportamenti personali non si cambia il mondo (ed è davvero così!), è altrettanto vero che senza una costante critica e revisione dei propri comportamenti personali si lascia infine che sia il mondo (e cioè il capitalismo, vedi sopra) a cambiarci integralmente, a fare di noi ogni cosa esso desideri; a fare dei nostri desideri niente più che uno specchio dei suoi. Ma non è questa la sede per illustrare la mia metanoia, anche se sul punto tornerò, in qualche misura, in conclusione di questo contributo. 

Ho fin qui detto dell’inadeguatezza della teoria e dell’inconsistenza della prassi, ma mi pare rimanga irrisolta la domanda sul nesso non occasionale tra distopie e critica radicale. Poiché appunto non c’è teoria adeguata, e non c’è prassi conseguente, per indicare i guasti estremi del capitalismo dobbiamo ricorrere ad altro. E cioè alla distopia. La narrazione così copre e sostituisce la teoria (vedi al punto 4 del testo della Redazione): è la narrazione a far capire le storture del mondo, per come le vede il/la militante, a chi militante non è. La nostra critica radicale non ha alcuna “parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe” (esse, le parole, ci sono state rubate dal capitalismo, e le poche residue le abbiamo stoltamente consegnate al decostruzionismo, che le ha letteralmente fatte a pezzi), né tantomeno abbiamo una “formula che il mondo possa aprir[ci]”: tutto ciò che possiamo dire è, col Montale di un secolo fa quasi preciso, “ciò che non siamo [e] ciò che non vogliamo”. Dunque per questo dire in negativo dobbiamo chiamare in ballo le distopie. A volte sono quelle nobili, come Huxley e Orwell (imprevedibilmente, quest’ultimo, il meno profetico della coppia); ma nel più dei casi useremo di preferenza i prodotti del più avanzato capitalismo, quelli di Netflix, come strumento narrativo per illustrare la nostra contrarietà al più avanzato capitalismo, cioè quello stesso di Netflix. Ovviamente questo produce un cortocircuito e non attiva alcun processo di soggettivazione: difficile credere il contrario. Induce invece solo a cibarsi di ulteriori distopie sullo schermo per trarne nuovo materiale di apparente critica radicale, ovviamente in chiave sempre più pop. Cosa che ha fatto la relativa fortuna di diversi siti di informazione suppostamente “militanti” e di “critica radicale”, che leggono la realtà attraverso le serie televisive, finendo così (come il detective che tende a somigliare al serial killer in un altro tipo di prodotti hollywoodiani), per fare da megafoni inconsapevoli ai contenuti ideologici del capitalismo più à la page; compresa, come ultima tra le mode da cui il capitalismo trae profitto e legittimazione sociale, la negazione della biologia, nella fattispecie la negazione del binarismo sessuale della specie cui apparteniamo.

Mancando teoria e prassi, ed essendo sprofondati in uno storytelling manovrato da altri, non possiamo, come militanti, agire in modo consapevole all’interno di un mondo e di un capitalismo che sono in realtà fusi, e le cui fini sono in opposizione solo nei desiderata (vedi Fisher) ma non nella realtà. Può accadere infatti che finisca il mondo senza che finisca il capitalismo; mentre non può finire, alle condizioni attuali, il capitalismo senza trascinarsi dietro una qualche fine del mondo. A fronte di questo legame si deve necessariamente ammettere che il solo modo di approssimarsi a una fine del capitalismo sia quello di separarlo con metodi brutali dal mondo, cosa quasi impossibile perché il mondo è innervato e irrorato di capitalismo, ma appunto cosa quasi impossibile alla quale deve essere all’altezza la militanza anticapitalista, pena la sua vanità e insussistenza. E invece, proprio al contrario, la pandemia, tracciato di un collasso epocale, ha prodotto in gran parte della militanza l’illusione di essere davanti a una “fine del mondo” che si sarebbe quasi spontaneamente risolta in una “fine del capitalismo”: questo il substrato concettuale del “nulla sarà come prima”, “non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”, eccetera. Nel frattempo, mentre l’intelletto collettivo si beava di questa illusione ottica, molti dei compagni e delle compagne, singolarmente o a grappoletti, si costruivano una profonda tana nelle apparenti comodità del capitalismo digitale, portando la dissociazione tra ciò che si pensa e ciò che si è a livelli vertiginosi, alimentando la confusione tra l’inazione indotta dall’abuso di app con il nobile “rifiuto del lavoro salariato” e con l’elogio dell’ozio. Ogni richiamo al tenere la schiena dritta e a non ascoltare le sirene assiepate sugli scogli dell’isola del silicio, legandosi all’albero maestro quando necessario, veniva e viene derubricato a “senso di colpa cattolico” e “vabbè tutti viviamo nella contraddizione”, e poi subito via di corsa a rotolarvicisi, in quella contraddizione, affinché il suo incavo prenda una forma ancor più confortevole, come i materassi in memory foam.

L’accogliere, anche in ambito militante, senza conflitto alcuno, nemmeno interiore, le innovazioni tecniche del capitalismo (e tali innovazioni sono oggi la stessa essenza del capitalismo, come detto), nonché le “comodità” che esse offrono, impedisce altresì di trarre le necessarie conseguenze di fronte alla sempre rinnovata accumulazione per spossessamento – fenomeno da cui peraltro muove il testo dei nostri curatori. La parte prevalente delle spoliazioni che il capitalismo realizza nei nostri luoghi di vita (intendo in questo paese e continente) avviene infatti per via tecnologica e di “comodità” indotta. I servizi, gli uffici pubblici, i luoghi di cura sanitaria… non spariscono mai sic et simpliciter, il che causerebbe forse scompiglio e reazione popolare (forse, ripeto), ma sono già da prima sostituiti da un qualche app ben propagandata, da un “fascicolo telematico” o “identità digitale”, da una qualche minchiata online per mezzo della quale si otterrà faticosamente e con logorio nervoso e oculare qualcosa di vagamente simile a ciò che si cercava, rimanendo frustrati dal risultato, che malamente cela l’espropriazione e la conseguente privatizzazione di un bene pubblico, ma anche, in qualche modo, trovandosi sedotti dalla capacità della tecnologia, vieppiù tramite il feticcio smart che ci parassita e che abbiamo sempre in mano o in tasca, di penetrare questo ennesimo servizio che fino a un attimo prima era incarnato da nostri simili che si guadagnavano uno stipendio dietro uno sportello, con le loro simpatie, antipatie e variabili umori, e ora risulta annesso al regno magico e cosale degli schermi retroilluminati. Dimenticando così facilmente, oppure ricordando ma in modo sterile, che la “comodità” ottenuta non è assoluta ma solo relativa a disservizi creati appositamente (innanzitutto con tagli al personale) proprio per rendere “comoda” e favorevolmente accolta la soluzione digitale. Se si aggiunge che la stessa creazione di consenso attorno a questo inganno clamoroso è in sé una tecnologia sociale (i passaggi sono di fatto standardizzati, la propaganda è studiata con approccio rigoroso, eccetera), l’incapacità di metterla al centro di una lotta anticapitalista, il cui obiettivo minimo sia quella di respingerla in toto, mi pare ancor più grave.

Ineluttabile giunge qui il momento di una parte costruttiva del discorso. Se la biologia non è un opinione non lo è neppure del tutto la biografia. Il mio tempo sulla Terra, fin qui, ha conciso con mezzo secolo di trionfi del capitalismo, trionfi realizzatisi attraverso le sue crisi (attraverso, cioè, le sue apparenti fini del mondo), da quella petrolifera del 1973 fino a quelle, incontabili, di oggi. Da ognuna di queste crisi il capitalismo è uscito rafforzato; e il concetto stesso di crisi risulta sottoposto in conseguenza al suo uso ripetuto a continue torsioni, al punto che alcune crisi sono vere e verissime, altre false, altre ancora sono fatte di una sostanza mista, impossibile da sceverare una volta miscelata, come il latte e il caffè nel cappuccino. Da una tale biografia si esce necessariamente zavorrati, visto che non si è esperito altro che sconfitte; eppure un tale gravame, nel procedere delle generazioni che è oggi contestuale all’estendersi incessante dei confini del capitalismo, potrebbe farsi condizione generalizzata, col rischio che le sconfitte neppure siano più percepite come tali, perché a ogni sguardo, generazione dopo generazione, non si troverà che “ingiustizia e nessuna rivolta” (Brecht). Non dispongo quindi di alcuna rotta, né indicazione, eppure sento (accontentatevi di questo sento, ve ne prego) che solo riannodando i fili dell’esistenza con le ragioni dell’anticapitalismo si può riconquistare uno strumento di navigazione. Solo operando su di sé, su di sé come persona e su di sé come parte di contesti collettivi, in modo da far emergere il discrimine tra esistenza (cioè mondo in potenza) e capitalismo, solo così si può almeno riacquistare coscienza di ciò di cui il capitalismo ci sta derubando, e di ciò che invece potremmo essere e che, almeno in parte, siamo stati. E poiché il capitalismo si e ci nutre della nostra presunta comodità, della nostra passività indotta tecnologicamente, della nostra mollezza posturale, questi sono i primi luoghi in cui il bisturi deve agire.

Non si può stare comodi e autogiustificati nel capitalismo ed essere pienamente anticapitalisti. Bisogna starci solo per quanto è necessario, non un’unghia in più, e sempre con l’obiettivo di essere sì nel mondo ma mai del capitalismondo. È solo rinnegando la cittadinanza del Paese dei Balocchi che Pinocchio si è fatto persona, da burattino qual era. La strada per divenire un anticapitalista militante in carne e ossa è ancora lunga, ma senza quel primo passo resterà per sempre sbarrata.

*Wolf Bukowski ha scritto per GiapInternazionaleNapolimonitor e altre testate. I suoi libri sono pubblicati da Alegre ed Edizioni Ortica; il più recente è Perché non si vedono più le stelle (2022, Eris)

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