UNA STORIA PALESTINESE

È uscito, recentemente, per i tipi I VENTI della Lebeg Edizioni, L’ULTIMA TERRA, un’opera di Ramzy Baroud* (traduzione di Romana Rubeo), di cui pubblichiamo la prefazione di Ilan Pappe, docente di Storia e direttore dell’European Centre for Palestine Studies presso l’Università di Exeter (Regno Unito) e autore di numerosi libri sulla questione palestinese.

L’ultima terra è un focus puntuale, sulle vicende che hanno attraversato le terre palestinesi, condotto attraverso le lenti della critica alle pratiche colonialiste ed espropriative attuate da Israele. Un lungo viaggio narrativo che, a partire dalla Nakba (la “catastrofe” – come la chiamano i palestinesi – che battezzò il progetto sionista di uno Stato israeliano), giunge alle vicende politiche e sociali che caratterizzano la Palestina moderna.

In calce al testo, è possibile scaricare un estratto del volume, gentilmente fornito dalla case editrice.

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Al-Nakba al-Mustamera, letteralmente ‘la Nakba permanente’, per i palestinesi costituisce oramai un topos che indica l’epoca e il periodo storico che vivono da settant’anni a questa parte. Ciò significa che vari capitoli della storia palestinese, come la ‘Catastrofe’ del 1948, non sono soltanto eventi del passato, ma parte integrante dell’era contemporanea. Stiamo ancora attraversando quella particolare fase. Pertanto, scrivere la storia di quei momenti, quali la Nakba, significa descrivere vicende contemporanee e non eventi del passato.

Di recente, questa tesi è stata abbracciata da vari studiosi che hanno analizzato il caso della Palestina adattando e applicando il paradigma del colonialismo. Patrick Wolfe, che ha analizzato questo modello con particolare attenzione alla vicenda palestinese, ha asserito che il colonialismo non è un singolo avvenimento, bensì un sistema. E in effetti, esaminando la storia del movimento sionista in Palestina, emerge chiaramente come il progetto coloniale, avviato già nel tardo XIX secolo, non si sia ancora esaurito; così come non si è esaurita la lotta contro di esso.

I concetti di catastrofe permanente e di lotta sono ben rappresentati dalle vicissitudini e dalle tribolazioni dei protagonisti di questo libro, che appartengono a diverse generazioni di palestinesi e provengono da luoghi diversi.

È solo attraverso la narrazione dettagliata, quasi forense, delle vicende che hanno coinvolto più generazioni, che si può comprendere appieno l’impatto di un’esperienza così poliedrica sulla psiche collettiva dei palestinesi in generale, e dei rifugiati palestinesi in particolare. Il racconto in cui si addentreranno i lettori descrive molto bene questo unico arco temporale che i palestinesi stanno vivendo e il conseguente senso di precarietà esistenziale.

In questa fase della vita della Palestina e dei palestinesi, oppressione e vittimizzazione hanno assunto forme diverse a seconda del tempo e dello spazio. Nel 1948, i palestinesi hanno subito pulizia etnica e massacri. Chi è rimasto in Israele, come parte di una minoranza, è stato soggetto alle

leggi militari che violavano i diritti umani praticamente in ogni ambito dell’esistenza. I profughi, al contempo, si sono visti negare il diritto al ritorno. Peraltro, alla prima ondata se ne è aggiunta una seconda, in seguito a un’ulteriore operazione di sradicamento ai danni dei palestinesi, conseguente alla guerra del 1967.

Nel corso degli ultimi cinquant’anni, i metodi di espropriazione sono diventati più complessi e, per certi versi, più subdoli e brutali in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. È una tendenza che continua, anche mentre questo libro va in stampa. Poiché, dopo il 1948, le mutate circostanze hanno diminuito l’efficacia della pulizia etnica, Israele ha deciso di fare leva su nuovi metodi di oppressione. I metodi sono cambiati, ma la visione che li fonda è la stessa ed è ricorrente in tutti i movimenti coloniali del passato: conquistare un territorio senza un popolo.

La pulizia etnica come principale strumento di compimento di tale visione è stata via via sostituita da una combinazione di espropriazione, arresti e restringimento dello spazio. Questo sistema è stato imposto inizialmente ai palestinesi rimasti in Israele, soggetti a un duro regime militare tra il 1948 e il 1967. Il principio era piuttosto semplice: se non è possibile rimuovere un popolo da uno spazio, bisogna imprigionarlo, per impedirne il libero movimento e l’espansione delle aree abitative. Tale strategia è stata perseguita cinicamente nelle aree territoriali palestinesi all’interno dei nuovi confini israeliani fino al 1967 e poi traslata in modo sistematico alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza.

In ogni caso, il metodo sionista si è scontrato con la resistenza palestinese. I palestinesi sono vittime, ma non vittime passive. Il dramma consiste nel fatto che, a causa dello squilibrio nei rapporti di forza (Israele è la principale potenza militare del Medio Oriente mentre i palestinesi sono i più vulnerabili), a ogni atto di resistenza – compresi quelli non violenti – Israele ha risposto con tutta la ferocia del potere. I vari aspetti e le sfaccettature di tale repertorio punitivo sono ben descritti in questo libro, attraverso i racconti dei protagonisti; per il lettore, questi costituiranno un’ottima base per approfondire la vicenda palestinese. Tra queste misure, si evidenzia la prigionia inflitta, senza equo processo, a uomini, donne e bambini, colpevoli non già di essere criminali, bensì solo di essere palestinesi.

Paradossalmente, il più grande traguardo del sionismo, quello della frammentazione dei palestinesi – che ha consentito di applicare la regola del divide et impera –, è stato mitigato dalla sostanziale uniformità delle condizioni a cui essi sono sottoposti da anni. Tale uniformità emerge con evidenza dai racconti di questo libro e trasforma la memoria, i ricordi e la storia orale dei palestinesi non solo in uno sterile elenco di atrocità, ma anche in uno strumento di resistenza culturale.

Antonio Gramsci sosteneva che la resistenza culturale può essere il presupposto della resistenza politica o l’insieme di strumenti impiegati quando la resistenza politica non si rende possibile. A mio avviso, entrambe le ipotesi sono valide nel caso palestinese, dove la resistenza si manifesta per mezzo di atti individuali amplificati dalla piena solidarietà collettiva. L’oppressione avviene su base quotidiana e il tempo a disposizione è poco, dunque anche gli atti di resistenza devono adeguarsi. Piccoli gesti, eroismo quotidiano e atti di sopravvivenza convergono in una storia di sumud, di ‘resistenza quotidiana’. Il messaggio convogliato da questo libro, come da altri volumi palestinesi, è che il sionismo non è un progetto di stampo coloniale che culminerà nell’eliminazione dei nativi. Perché i nativi sono lì per restare.

Come notato da Edward Said, una delle strategie di resistenza più efficaci è proprio la capacità che i palestinesi hanno di raccontare, nonostante questa condizione di perenne Nakba. Nel corso degli anni, la loro narrazione è stata spesso fraintesa, talvolta anche dagli stessi politici palestinesi, oltre che, ovviamente, dai media e dal mondo accademico occidentali; ed è proprio il racconto delle vicende personali, in grado di fornire una versione unica degli eventi, che riesce a sfidare e demolire suggestioni e miti infondati.

La tecnica, unica nel suo genere, usata da Ramzy Baroud in questo libro rende la narrazione ancora più potente, ponendola come un chiaro strumento di resistenza alla colonizzazione e all’espropriazione forzata. Le storie sono parte integrante di quella resistenza culturale a cui si è già accennato, che si è rivelata ben più uniforme e coerente rispetto alla resistenza politica che, invece, è stata minata, in passato come oggi, dal fazionalismo e dalla mancanza di unità. La memoria è diventata il principale mezzo usato dai palestinesi in Israele per identificarsi con le rivendicazioni dei rifugiati, che reclamavano il loro diritto al ritorno, e con i palestinesi in ogni parte del mondo, anch’essi vittime del sistema di stampo coloniale. Ne discende che ogni soluzione politica, tesa a perpetuare la frammentazione e la segregazione, finirà solo con il prolungare l’espropriazione e la sofferenza.

Tale memoria collettiva, come esperienza unitaria, è particolarmente viva al giorno d’oggi, ma non viene sempre riconosciuta da una classe dirigente frammentata, che rende inefficace la lotta. Fondere simmetricamente la memoria collettiva a un mezzo efficace di resistenza culturale è un’esigenza che viene dal basso, ed è proprio attraverso quello che Baroud definisce «storia dal basso» che possiamo ricostruire una narrazione del passato molto diversa e mettere a sistema le ambizioni del presente.

Il lettore può avvalersi di questo libro come fonte sulla storia della Palestina e dei palestinesi, insieme ad altri eccellenti volumi prodotti negli ultimi anni. Il testo va a integrare la tradizione accademica esistente, aggiungendo la voce autentica degli individui – che diventano i principali narratori del passato – e sovrapponendola alla narrazione basata su documenti e materiale storico tradizionalmente inteso, oltre che alle cronache giornalistiche, in riferimento agli eventi più recenti.

Il testo differisce dalle opere accademiche anche per lo stile, più propriamente letterario. Qui la storia si congiunge al racconto; non perché falsa, costruita, o frutto di fantasia. Il racconto della storia, però, non può prescindere dagli aspetti più propriamente emotivi: dalla rabbia, dal senso di ingiustizia, dalla speranza. Non sempre le opere accademiche riescono a entrare in connessione con questi onnipresenti aspetti dell’umanità, anche quando l’oggetto della scrittura è l’essere umano stesso. È solo attraverso lo stile letterario, anche per mezzo della figura del narratore, che si può entrare in connessione con questi lati dell’umanità, i più vulnerabili ma anche i più evocativi.

Forse, è solo usando questo approccio che possiamo comprendere appieno la connessione tra la distruzione dello spazio urbano in Palestina nel 1948 e quello della Siria dal 2011 a oggi. Tra le molte vittime della più recente tra queste atrocità figurano, di nuovo, i palestinesi (come nel caso degli abitanti del campo di Yarmuk in Siria), questa volta in tutto il Medio Oriente e non solo in Palestina.

La disumanità che, anche in questo caso, ha fagocitato i palestinesi, ha stravolto le vite di altri milioni di persone nella regione. La barbarie che ha investito la Siria, l’Iraq, la Libia e lo Yemen merita la nostra attenzione e una ferma condanna. Tuttavia, non possiamo dimenticare che questa disumanità è la regola in Palestina da oltre un secolo e che, tra le ragioni principali che rendono l’Occidente impotente di fronte alla carneficina del presente, dobbiamo considerare l’indifferenza globale, quando non addirittura il sostegno nei confronti dell’oppressore. È solo sottolineando il ruolo dell’Occidente nell’espropriazione e nell’ingiustizia subite dai palestinesi, iniziate un secolo fa con la Dichiarazione Balfour, che si può capire fino in fondo la sua responsabilità nel caos totale che oggi investe la regione. Il destino della popolazione autoctona della Palestina, così come quello di molte altre popolazioni native nel mondo distrutte dall’Occidente, è strettamente connesso a un futuro migliore e più roseo per l’intera regione mediorientale.

Per capire meglio come tutto è iniziato, per discernere i significati più profondi, è indispensabile ascoltare la voce di chi ha vissuto quegli eventi nel ruolo di vittima dell’imperialismo occidentale e del colonialismo sionista. Questo libro costituisce un ottimo strumento per intraprendere questo viaggio.

Ilan Pappe

*Ramzy Baroud è nato nella Striscia di Gaza nel 1972. È giornalista, autore e direttore del«Palestine Chronicle», ex Managing Editor del «Middle East Eye» e del «Brunei Times», exDeputy Managing Editor di «Al Jazeera online». I suoi articoli sono stati pubblicati sucentinaia di riviste e giornali in tutto il mondo.Ha conseguito il PhD in “Palestinian Studies” presso l’European Centre for PalestinianStudies dell’Università di Exeter (Regno Unito). Attualmente è Non-resident Senior ResearchFellow presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA) dell’Università Zaim di Istanbul(Turchia).È autore di sei libri tradotti in molte lingue tra cui il francese, il turco, l’arabo e il coreano. Ilsuo ultimo volume, co-edito con Ilan Pappe, è Our Vision for Liberation: Engaged PalestinianLeaders and Intellectuals Speak Out (Clarity Press, Atlanta, 2022).

R. Baroud – L’ultima terra SCARICA QUI

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