L’URGENZA DELLA CONRICERCA (I)

La conoscenza più di qualsiasi altro prodotto si presta a indurre processi di cooperazione, di socializzazione, di trasformazione. La sua caratteristica intrinseca forse più importante è sicuramente più potente sta nel fatto che essa si forma già per essere modificata dal fruitore e per modificare a sua volta chi ne entra in rapporto.
[R. Alquati, Per fare conricerca, 1993]

Per un nuovo progetto “malanovista”

La difficoltà di orientamento nella fase politica attuale è dovuto, tra l’altro, alla mancanza di una vera e propria strategia, fornita possibilmente da una approfondita analisi dei processi sociali, sempre più dinamici e camaleontici.  Fossilizzarsi  su acquisizioni (vere o presunte che siano), sugli snodi storici ‘riusciti’, può condurre facilmente fuori dal  percorso realmente interessato ad una rottura col sistema, conducendo ad una narrazione autoassolvente, se non si investigano le mutate condizioni del presente.

A nostro avviso, occorrerebbero dei “percorsi di elaborazione ed approfondimento di un punto di vista per guardare e stare nella realtà sociale, con la consapevolezza che questa non è statica, ma si forma e si trasforma all’interno di una processualità dinamica e dialettica destinata a non terminare mai. La realtà e i processi sociali, quindi, sempre possono essere trasformati, e il mutamento continuo può essere accelerato e portato alla rottura dalla concretizzazione di un agire consapevole e finalizzato: capace di ribaltarne i fini sistemici attuali”. (R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca edizioni, 1993, p.1).  

Già da queste pochissime righe del densissimo saggio alquatiano possiamo estrapolare tre ingredienti fondamentali: una “identità di parte”, intesa come l’elaborazione e l’approfondimento di un punto di vista “di parte” per guardare e stare nella realtà sociale; “strategia” e “tattica” come concretizzazione di un agire consapevole e finalizzato.

Nello specifico, è utile un ragionamento per inquadrare il problema dal punto di vista storico e sociale facendo riferimento a un processo necessario, che potremmo definire di “identificazione”, ossia il processo di percezione del proprio ruolo all’interno di un contesto storico, economico, sociale e politico. Processo a priori, rispetto alla ricostruzione del concetto di identità di classe. Un processo pre-politico necessario per poter approdare a una definizione dell’incompatibilità col sistema, la quale dovrebbe configurarsi come elemento essenziale per innescare una rottura sostanziale – quindi strutturale – con il sistema. L’incompatibilità è la prima importante fase da concepire, senza la quale si rischia di intraprendere percorsi che si ammantano di velleità antagoniste o di conflittualità col sistema ma che, nella sostanza, cercano di scavare nicchie comode all’interno dello stesso (spesso finanche nicchie di mercato). 

Cosa accade nel momento in cui alcune categorie sembrano saltare e la percezione del proprio essere parte di qualcosa viene meno? Spesso si genera una sorta di smarrimento edulcorato dalle esigenze e dai bisogni, si perde gradualmente la percezione di cosa si è, tentando di ristabilire un equilibrio gettandosi in granitiche convinzioni identitarie o nella strenua difesa di tradizionalismi, dei quali si è smarrita la memoria del senso. Identificarsi come componente sociale non è un passo semplice, non è un processo immediato; capire cosa si è e quale ruolo si svolge nell’economia della società vuol dire portare fino in fondo una critica alla struttura stessa della società, e al modo di riproduzione capitalista. 

Identificarsi vuol quindi dire, analizzare la fase attuale mettendola a confronto con l’analisi delle altre fasi nella storia, identificazione e identità sono due concetti dissonanti nella misura in cui il primo serve da bussola per capire in quale parte della società attuale dovremmo collocarci, in seconda battuta l’identità dovrebbe invece definire la presa di coscienza sulla condizione che comporta il nostro essere in un punto della piramide sociale piuttosto che in un altro. La fase storica che stiamo attraversando è complessa e parimenti confusa; lo schiacciamento che la classe media ha subito, come contrazione necessaria al modo di produzione capitalista, come eliminazione di una parte sostanziale di garanzie socio-economiche in nome della sopravvivenza del principio di accumulazione, non è vista da molti nella sua genuina “semplicità”. 

L’errore storico commesso spesso in questa fase è stato quello di adagiarsi solo sulle rivendicazioni della classe media, necessarie per riconquistare la sua egemonia perduta, in un percorso ammantato di antisistemicità. Il dilemma a questo punto apre una sorta di baratro, da un lato rivendicazioni per condizioni economiche migliori (tutte inscritte all’interno della società dei consumi) e dall’altra la rivendicazione di diritti civili in buona parte elargiti e definitivamente sussunti. Fuori restano rivendicazioni spesso per conto terzi, senza il vero soggetto richiedente, come nel caso dei migranti e del sottoproletariato in genere.  

In questo senso, è davvero utile, ancora oggi, insistere solo sui diritti umani? Facendo un giro tra i giovani, troveremmo davvero emarginazione per chi decidesse di fare una scelta di genere specifica? Serve ancora demolire il concetto di autorità familiare, genitoriale, patriarcale? Siamo convinti che facendo un giro nelle nostre città ancora troveremo un diffuso autoritarismo machista e patriarcale che comprime le vite dei pargoli? Non abbiamo ovviamente delle risposte pronte ma crediamo che immergendosi nelle città, nelle periferie, frequentando i marciapiedi della storia forse riusciremo a trovare le tante sfumature del grigio analizzando quelle prevalenti e quelle recessive. Questo è il compito che ci prefiggiamo in questa seconda fase malanovista.

Nella prima abbiamo dovuto, necessariamente, fare i conti con noi stessi; conti ancora aperti nonostante tutto. Un’autocritica certamente feroce ma necessaria, non rivolta ad alcuno se non a noi stessi. Usciti al gelo dal calduccio di quella che oggi si usa chiamare comfort zone, ci tocca ora il percorso più complesso: sondare i processi sociali attuali in mutamento continuo, talmente liquidi da non offrire, almeno in apparenza, appiglio alcuno. Proprio questi appigli, da novelli scalatori, vorremmo individuare per aprire nuovi percorsi o ripristinarne di antichi. Sicuramente ci tenteremo evitando, per quanto sta a noi, cadute rovinose nel crepaccio del “già visto”:

è una proposta che naturalmente ha una valenza generale, ma che più nello specifico cerca come interlocutori copartecipi quei soggetti e quegli ambiti di aggregazione sociale che sono emersi in questi anni e stanno presentandosi come punti di aggregazione, di espressione di nuovi e diversi bisogni, comportamenti e soggettività” (Ibidem, p. 2).

Genealogicamente parlando, gli anni ’60 e ’70 hanno individuato questi ambiti nella fabbrica e nell’università in un mix poi risultato esplosivo. Negli anni ’90, Alquati li cercava nelle nuove forme di aggregazione rappresentati da radio, riviste, centri sociali, aggregazioni studentesche e giovanili, aggregati territoriali e lavorativi. L’ambito odierno è tutto da scandagliare. Certamente rimangono gli aggregati territoriali “classici” (città, quartieri) ma rimangono da indagare le aree rurali, attualmente oggetto di interessanti cambiamenti. Anche dal versante delle situazioni lavorative si deve attuare una profonda revisione degli schemi passati. Non essendoci praticamente più le conurbazioni industriali o i distretti, si deve analizzare quel che li ha rimpiazzati, pur nella loro complessità (call center, poli della logistica, uffici e centri direzionali, grande distribuzione organizzata). Dal punto di vista dei tentativi di aggregazione identitaria e di parte  rileviamo il rinascere embrionale delle riviste nella loro formulazione online e il tentativo di generare nuove tipologie di spazi sociali.

Navigando nella confusione  di questi ‘aggreganti’, cominceremo i primi passi dall’indagare il mondo della scuola, nei suoi diversi gradi, cominciando dai “lavoratori della conoscenza” – formatori e pedagogisti, dirigenti, personale tecnico ed amministrativo – e delle loro impressioni sulle trasformazioni di questo specifico settore e sulle inafferrabili “nuove generazioni”: 

certo non sono percorsi semplici e privi di difficoltà, sono momenti da sperimentare, da costruire, da sviluppare. […] Occorre quindi avviare e concretizzare i percorsi e i processi capaci di determinarlo l’antagonismo! Cosa né semplice né breve da realizzare! Proprio questo è uno dei principali problemi irrisolti: come costruire degli indirizzi e un agire che producano un salto qualitativo, creino comportamenti, smuovano identità, costruiscano percorsi reali. L’ attuazione della conricerca è andare in questa direzione (Ibidem, p. 3).

Innanzi tutto ci troveremo di fronte ad un tipo particolare di servizio e di merce: la conoscenza. Talmente importante per il capitalismo attuale da essere definito da diversi autori come capitalismo cognitivo (es. Vercellone, 2006) o neurocapitalismo (Griziotti, 2016). Le multinazionali che oggi guidano tutte le classifiche di fatturato sono quelle che operano nel settore dell’informatica (Facebook, Google, Tik Tok) e della logistica trasportata su rete (Amazon, Wish). Comunque il terzo settore, quello dei servizi, in realtà è oggi divenuto il primo per fatturato ed occupazione. La cultura e la scuola sono diventati con il tempo un particolare tipo di merce. Inutile ricordare, ad esempio, le varie riforme universitarie che hanno aziendalizzato gli Atenei  conformandoli sempre più ad un comparto privato con tanto di Consiglio di Amministrazione e Manager. Per un certo periodo, persino il personale che si dedicava a guidare gli studenti nei meandri del piano di studi veniva identificato con la qualifica di Manager Didattico. La Preside, negli Istituti Comprensivi, ha mutato il suo nome in Dirigente Scolastico e l’antico Segretario, responsabile del personale amministrativo, viene identificato come DSGA, Direttore dei servizi generali e amministrativi.

Tutte queste sono per noi le dimensioni da scandagliare per capire come si è evoluto e trasformato il settore della conoscenza e quali ripercussioni si sono date sull’esistenza di tante lavoratrici e tanti studenti: la conoscenza ha una potenza trasformativa incommensurabilmente più grande. Mentre in genere una normale merce viene prodotta per un singolo utilizzatore o al limite per pochi utilizzatori, la conoscenza e l’informazione sono appositamente prodotte tenendo conto che saranno utilizzate senza limiti di spazio e di tempo da una grande massa di persone. È corretto ipotizzare quindi che la conoscenza è oggi una merce potente e quindi qualitativamente considerata dal capitale e pel processo di produzione capitalistico. A maggior ragione andrebbe esplorata la potenzialità, la ricchezza e le possibilità qualitativa della conoscenza qualora si riuscisse a liberarla della caratteristica di mercità e a spostarla e inserirla in processi altri, tesi a sviluppare percorsi di liberazione e di antagonismo” (Ibidem, p. 5).

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