PENSARE INSIEME, FARSI CAPIRE, CRESCERE

APPUNTI SUL CONCETTO DI “AUTONOMIA DEL POLITICO”

“Il primo passo è pensare insieme: insieme al movimento delle lotte
e insieme all’organizzazione di partito;
insieme ai militanti di base e insieme alle strutture di vertice.
Il secondo passo è farsi capire.
Il terzo passo è crescere, il contrario di scomparire…“
(M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, 1977, p. 8)

Secondo Tronti, la storia del capitalismo è una storia fatta di una continuità discontinua. Da una parte la continuità economica che si relaziona però con i salti della discontinuità rappresentati dal politico. Questi salti si intravvedono nel concetto stesso di crisi. Se un tempo si riteneva che fosse la crisi economica ad assorbire le tensioni politiche per procedere a riavviare lo sviluppo, adesso si deve addirittura ribaltare l’ordine del discorso: è lo Stato, come detentore del politico nelle sue componenti istituzionali e soggettive, che è chiamato ad assorbire in sé la crisi dell’economico. Tra le due sfere, dell’economico e del politico, di fatto, non si dà quella relazione diretta che si suppone nei concetti di struttura e sovrastruttura per cui tutto ciò che avviene a un certo livello, a livello cosiddetto superiore, è mosso da ciò che sta di sotto, a livello inferiore, dalla mano invisibile, si può dire, dei cosiddetti livelli strutturali. È una spiegazione da un lato comoda, perché è facile da comprendere e facile da utilizzare; d’altra parte è una spiegazione paralizzante, dal punto di vista della ricerca e dell’intervento pratico (M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli, 1977, p. 10).

Tronti rileva una scollatura tra la sfera del politico e la sfera dell’economico con un’arretratezza congenita della prima rispetto alla seconda. Cosa sia questa arretratezza è tutto da indagare. Non è certamente un meccanismo pianificato, voluto dalle istituzioni o dal ceto politico ma sicuramente ha a che fare con la risoluzione della crisi economica: il pensiero politico del movimento operaio ha oggi gravi problemi di produttività, di ammodernamento dei vecchi impianti ideologici, di investimenti in aree concettuali sin qui a sviluppo bloccato, di lotta alla rendita parassitaria che grava sul latifondo marxista. Deve pur esserci un nuovo modo di fare teoria politica. O lo cerchiamo con strumenti anche tecnicamente diversi, vicini ai nuovi modi del decidere politico, o ritroveremo la muffa di un’altra logica del discorso (ibidem, p.5).

Accanto ad un ciclo economico, così come deriva dalla teoria marxista, si deve ipotizzare un parallelo ciclo politico. Lo schema marxista delle due classi in lotta, la borghesia ed il proletariato, si sviluppava a partire dal ciclo economico che avrebbe prodotto lo scontro politico che alla fine avrebbe condotto al potere la nuova classe emergente con l’instaurazione di un nuovo modello economico e sociale. Proprio quello che non si è verificato storicamente. Per questo motivo c’è da supporre un dispositivo di salvaguardia del sistema che è dato dalla sfera politica. Nei momenti di crisi economica si danno due forze equilibratrici: da una parte l’intervento politico di Stato nell’economia, dall’altro l’arretrare del politico per frenare l’eventualità della lotta di classe. Si dà il caso di un funzionamento anche combinato del dispositivo che in tal senso rappresenta l’autonomia del politico rispetto all’economico. Cioè non è dato storicamente che la sovrastruttura politica segua pedissequamente la struttura economica nelle sue crisi tanto da aspettarsi che la crisi economica si rifletta di per sé in una crisi anche politica.

Ma se ritorniamo al fatto, cioè alla tesi del politico che ritarda rispetto al resto, risulta anche che la sfera politica di cui parla Marx è una fase precedente a quella del suo capitale, a quella del capitale che egli aveva sotto gli occhi. Generalizzare in fondo quella fase, elaborata politicamente o vista politicamente da Marx, vuoI dire appunto generalizzare un ritardo. Ecco: la generalizzazione di un ritardo, secondo me, è la codificazione del pensiero politico direttamente marxiano. Ma vediamo invece se effettivamente di ritardo si tratta. Cioè, il fatto che abbiamo sempre di fronte una cosiddetta nuova economia, da un lato, e dall’altro sempre una cosiddetta vecchia politica, è la spia che deve farci capire come in fondo il rapporto struttura-sovrastruttura, proprio su questo terreno, non funziona.. (ibidem, p. 16)

Il pensiero di Tronti, a questo punto, non è quello di sostituire l’ordine d’importanza, di rendere il politico struttura e l’economico sovrastruttura. Si tratta di rendere più complesso il discorso capendo che tanti sono i fattori in gioco rispetto allo schema più semplificato dello stesso Marx. C’è da approfondire il rapporto tra capitale, come sovraintendente dell’economico, e Stato, come sovraintendente del politico. Analizzare le discrepanze, i ritardi, i disallineamenti tra le due aree per inserirsi con il discorso rivoluzionario che non è tanto più un discorso di ‘colpi di mano’ ma più una guerra manovrata, fatta cioè di mosse successive, tutte scientificamente previste, tutte anche tatticamente preparate (ibidem, p. 18). Questa è la guerra di trincea che deve preparare la classe operaia a strutturarsi come Stato. Il dualismo di potere, secondo Tronti, doveva passare dalla fabbrica alla società in un conflitto con lo Stato detentore dell’autonomia del politico. Scalzare il capitale dal suo ruolo politico e relegarlo nell’economico per inserirsi al suo posto come classe dominante costituitasi non solo come forma partito ma addirittura come forma Stato. Solo a questo punto è possibile fare dello stesso stato la forma moderna di una classe operaia organizzata in classe dominante, in una storia del capitale che, naturalmente, a quel punto continua e per un momento ancora non si conclude (ibidem, p. 20). Lo Stato incarna un ruolo di mediazione tra capitale e lavoro che è una mediazione politica. Tra comunismo e socialismo che predicano il primo la distruzione dello Stato come apparato coercitivo ed il secondo la riforma dello stesso c’è posto ad una terza via che pone la distruzione dello Stato come obiettivo finale e la conquista del medesimo come obiettivo a medio termine. Se infatti la mediazione tra lavoro e capitale passa dal politico incarnato dallo Stato è sempre meglio non lasciare nelle mani del capitale quest’area della mediazione. Si deve creare, secondo Tronti, un dualismo di potere che arrivi fino a far divergere le due aree di influenza: al capitale l’economico, al lavoro il politico. In questo lavoro di divergenza tra politico ed economico è necessario il discorso organizzativo. Il partito e il sindacato, le istituzioni organizzate delle classi lavoratrici, devono operare una mediazione ed un salto per portale la coscienza operaia all’interno dell’istituzione statuale. Se, come si diceva, il politico è sempre più arretrato, è questo il salto che deve compiere l’organizzazione del proletariato per occupare l’autonomia del politico e risolvere a suo vantaggio il conflitto capitale-lavoro. 

Secondo Tronti, la lotta della classe operaia deve essere agile, sapersi destreggiare nei campi suoi propri del salario, dei tempi di lavoro, in generale del rapporto lavorativo ma non farsi bloccare su un terreno noto. Bisognerebbe saper cambiare il terreno di lotta quando la situazione lo concede. Passare dalla lotta economica a quella politica per non lasciare il campo libero alla parte capitalista. Se si lascia questo tipo di lotta può capitare di fare passi avanti tattici nell’ambito dell’economico, adeguamento contrattuale, e trovarsi con una ristrutturazione politica delle istituzioni lasciata in mano al solo capitale e quindi con una sconfitta strategica. L’adeguamento contrattuale infatti puoi perderlo oggi, dice l’autore, e conquistarlo tra qualche mese mentre di più lungo respiro sono le ristrutturazioni politiche delle istituzioni statuali. Con un occhio all’economico ed un altro al politico, con questo strabismo bisognerebbe procedere per riuscire a farsi trovare in una situazione di avanzamento, di anticipazione delle mosse dell’avversario.

“lo ho sempre pensato a una lotta politica della parte operaia agile, pronta a modificare continuamente le proprie posizioni, a saltare da un terreno all’altro. Mai, mai lasciarsi chiudere in uno stesso terreno e continuare a fare le lotte a livello di produzione, sul salario, sui tempi di lavoro, sulle condizioni di lavoro, nel momento in cui il capitale sta risolvendo, deve risolvere in qualche modo, in un modo o nell’altro, il problema del suo stato; e lasciare questo problema a loro perché è il loro problema: questo è un errore di lavoro politico! A questo punto, e non per lasciarsi sempre suggerire dagli altri i temi e i terreni di lotta, occorre avere la capacità di spostarsi con agilità sui terreni che sono in quel momento quelli decisivi”. (Ibidem, p. 30)

Ricordiamo che il libricino “Sull’autonomia del politico” deriva dagli appunti, poi ciclostilati e circolati in maniera ‘artigianale’ di un dibattito in una seduta di seminario durata due giorni, il 5 e il 6 dicembre 1972, presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Torino, sotto la presidenza di Norberto Bobbio. Due scritti ‘parlati’, si dice nell’introduzione, acerbi secondo lo stesso Tronti che ne ricusa addirittura il primo. Questo perché durante il dibattito sorge, secondo lo stesso autore, una certa ambiguità del termine, non della sostanza del discorso, che potrebbe condurre a fraintendimenti. Il tentativo trontiano è quello di una critica della politica che metta in discussione fin dalla radice la tradizione marxista dogmatica e lo stesso Marx al fine di evitare il processo di ideologizzazione che arriva fino all’utopismo politico.

Noi dobbiamo sempre guardarci da questi esiti della ricerca, perché sono gli stessi in cui molto spesso è caduto lo stesso pensiero operaio e che poi hanno avuto una loro influenza nefasta sui modi pratici di azione della classe operaia (Ibidem, p. 51).

Quello che preme cogliere è che esiste una discrepanza evidente, un non allineamento, come ritardo o anticipo, nella relazione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Questa evidenza può essere “usata per un progetto pratico, alternativo, di uso delle istituzioni politiche separato dall’uso che il capitale normalmente fa della sua società, cioè del suo rapporto sociale, del suo rapporto di produzione, che è qualcosa che noi in ogni caso non riusciremmo a togliere al capitale. […] La classe operaia, sulla base della lotta dentro il rapporto di produzione, può vincere solo occasionalmente, strategicamente non vince, strategicamente è classe, in ogni caso, dominata” (sottolineatura nel testo originale. Ibidem, p. 51).

La novità teorica è tutta qui. Se strategicamente non si può vincere su un piano economico, all’interno dei rapporti di produzione, se non per piccoli periodi, sul lungo periodo è possibile solo sul piano politico. “E questo perché ogni volta che ci si pone il problema di un mutamento reale del rapporto di produzione capitalistico, cioè un mutamento reale di fatto, e quindi si assume così una posizione di carattere sovversivo, di carattere rivoluzionario, in quel momento viene in primo piano, di nuovo, fatalmente, proprio il terreno politico. […] Noi possiamo strategicamente prevedere un dominio di lungo periodo soltanto su questo terreno politico, cioè soltanto se noi togliamo al capitale il suo apparato reale di potere, cioè il suo stato” (Ibidem, p. 53-54).

Noi abbiamo avuto finora, nelle ricerche che abbiamo fatto, una concezione che direi monoteistica della società capitalistica. E in questo non abbiamo rinnovato granché rispetto a quella tradizione marxista che invece oggi diciamo di criticare. Perché lo schema marxiano diceva che quello che muove tutto è questa mano invisibile della struttura, dei movimenti strutturali, del rapporto economico, del rapporto di produzione: è questo l’unico motore che muove tutto il resto. […] Abbiamo quindi cambiato il soggetto, il motore della macchina; abbiamo però conservato questo concetto del motore unico, di questo unico dio della società capitalistica, che per noi non era, appunto, il rapporto di produzione in generale, ma era la classe operaia in particolare. La società capitalistica, quanto più va avanti e quanto più matura, tanto più diventa una realtà estremamente complessa; non a caso parlavamo di macchinario, di grande capitale a livello di grande macchina. E non per farci suggerire appunto da certe ideologie il pluralismo e queste cose qui; ma perché effettivamente la società capitalistica, non solo in apparenza, ma proprio nella sua realtà di movimento, è qualche cosa di più complesso, è qualche cosa che contiene in sé diversi terreni e che non risolve mai una volta per tutte la predominanza di un terreno rispetto agli altri. Noi addirittura veniamo a dire che non c’è mai, anche all’interno della società capitalistica, un dominio di classe univoco. Cioè non è vero che sempre la classe dei capitalisti domina e il resto è sempre dominato; ci sono dei momenti, delle occasioni in cui questo processo si può rovesciare. Questo vuol dire che dobbiamo orientarci verso una considerazione della società capitalistica come qualche cosa in cui ci sono più motori che nello stesso tempo marciano; e noi dobbiamo tenerli presenti tutti quanti se vogliamo un’azione politica che abbia un senso concreto, cioè una possibilità di realizzazione pratica degli obiettivi che ci proponiamo. Ecco quello che si diceva ieri, la capacità politica di giocare su più tavoli e di capire che c’è sì il rapporto di produzione che è il momento fondamentale e che in certi momenti, in certe fasi storiche, risulta il nodo da risolvere prima di tutto. Ma in altre fasi noi vediamo che non è così; in altre fasi noi vediamo che ci sono dei blocchi dentro lo stesso rapporto di produzione che impediscono che questo rapporto di produzione esploda nei modi in cui noi pensiamo che potrebbe e dovrebbe esplodere. E questi nodi, questi blocchi provengono da altri terreni. E allora il rapporto tra il capitale e il suo stato è un altro terreno che noi dobbiamo sempre tenere presente, perché in alcuni casi specifici questo può essere il problema dominante, il terreno politico da privilegiare, non solo per arrivare a una rottura immediata, ma appunto per arrivare a una ricomposizione strategica dell’intero nostro movimento (Ibidem, pp. 54-56).

Per Tronti, il periodo dei Settanta in cui si svolgeva questo seminario, era un periodo in cui il politico era fortemente in ritardo rispetto all’economico. Le forme istituzionali statuali assolutamente non conformi alle necessità del grande capitale. Questa strozzatura politica, in parte voluta tatticamente dal capitale, sarebbe dovuta maturare a tal punto da non essere più rinviabile. Per questo motivo “il processo, io non direi di riforma, ma di rivoluzione politica dello stato capitalistico così com’è, è un progetto che la classe operaia deve anticipare, oggi, rispetto alla stessa esigenza capitalistica (Ibidem, p. 57).

In un periodo in cui non si vedeva a breve la possibilità di ver sorgere una ‘mediazione organizzativa’ capace di porre la classe operaia nella capacità di lottare direttamente sul campo del rapporto di produzione, v’è la necessita di anticipare, quanto meno, il processo di riforma statuale che il capitale ha in mente, farsi trovare pronti, lavorare affinché si possa essere egemoni o quanto meno non essere tagliati fuori dall’ambito prettamente politico della lotta. Tronti vedeva pronto, in quella fase, solo questo tipo di lotta possibile, utilizzando alla bisogna le organizzazioni esistenti e rappresentanti del movimento operaio; non le organizzazioni così come dovrebbero essere per la rivoluzione ma così com’erano in quel momento storico per non rischiare di nominare la rivoluzione invano. In questo ritroviamo il Tronti critico e realista contro l’idealismo e l’utopismo che spesso inficia il discorso veramente rivoluzionario. Mantenersi nelle parole d’ordine della tradizione teorica marxista per timore di passare come riformisti o addirittura reazionari rischia di ripetere all’infinito le stesse azioni e le stesse sperimentazioni in “un processo di lotta che si ripete in fondo sempre uguale, senza spostare a fondo i rapporti di forza, ma ripetendoli continuamente allo stesso livello, e su cui la classe operaia poi logora le sue forze, senza riuscire a rimettere in gioco l’intero meccanismo di ricomposizione della società capitalistica a livello economico e a livello politico” (Ibidem, p. 60).

In questo senso, Tronti fa l’esempio di Roosevelt ed il suo New Deal. La grande crisi economica e il malcontento che suscitò lotte proletarie costanti e puntuali, favorirono la ‘grande iniziativa’ politica. Purtroppo il movimento operaio ci arrivò in ritardo, subendo di fatto l’iniziativa e non riuscendo ad influenzarla secondo i suoi interessi. Sempre pronta invece la parte capitalistica a far propri i vantaggi di quella situazione e non rimanendo paralizzata di fronte alla situazione. La classe operaia si mosse a lungo sul terreno politico dettato dal capitale, un terreno pre-crisi, pre-new deal; il terreno alla fine a cui si era avvezzi ed abituati. Per avere qualche possibilità di fare salti rivoluzionari, al contrario, c’è bisogno di rischiare l’anticipo, la lettura degli eventi: Non si tratta di profetizzare delle cose, si tratta di fare delle ipotesi su cui misurarsi. Tutte le ipotesi molto spesso sono delle scommesse, nel senso che noi, da alcuni dati, ricaviamo una tendenza di sviluppo. Non è detto che poi si verificherà; può darsi che intervengano fattori a modificare una situazione e niente di questo si verifichi (Ibidem, p.61).

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