I diritti, alla fine, qualsiasi “società moderna” li concede.
Ed è un altro modo di assicurare potere a chi già comanda
(M. Tronti, Dello spirito libero, 2015)
Sempre più presente, e in taluni frangenti caustica, sui social e sui media è la narrazione LGBTQIA+ che, oltre ad aggiungere di volta in volta nuove lettere, sembra oramai, accanto all’ambientalismo, la tematica più in voga del momento. Un dato che paragonato con i tabù di soli quattro o cinque lustri addietro, proietta le questioni ambientali e di genere in una dimensione tutt’altro che marginale.
Se da un lato ciò può apparire come la definitiva rottura di una serie di meccanismi consolidati nel tempo, dall’altro sempre più narrazioni si affastellano attorno al nucleo centrale delle questioni che qui tentiamo di dibattere. Ossia attorno alla liberazione del genere dalla propria appartenenza biologica, si stanno sedimentando narrazioni che, a nostro avviso, ben poco hanno a che fare con la libertà individuale. La questione di fondo che vorremmo sottolineare consiste nel fatto che senza una chiara posizione anticapitalista e di classe, molte delle apparenti conquiste, sociali, culturali e politiche, rischiano di foraggiare industrie e mercati di vario tipo, più che garantire l’emancipazione reale dalla schiavitù fisica e mentale dal sistema. Per il capitale poco importa che l’egemonia sia a indirizzo etero, maschile e bianca. L’importante è che si configuri una qualsivoglia élite atta a coercire il resto della società, imbrigliandola nel circuito produzione-vendita-consumo. Ovviamente ciò va inteso in senso lato: produzione non solo di merci o servizi, ma anche di relazioni, spendibili in termini di tempo, le quali poi generano una catena indefinita di bisogni ai quali associare strumenti, servizi, logistica, app, social media dedicati, ecc.
Le rivendicazioni di genere rientrano quindi in un processo più che legittimo, se la questione fosse il prodotto di quegli ambiti di movimento storicamente portatori di istanze politiche e culturali avanguardiste e da questi non solo promossi e praticati, ma utilizzati per scardinare la struttura del sistema sorretto dal modo di riproduzione capitalista. Ma quando il tema è fatto proprio dalle élite finanziarie e dai governanti di ogni ordine e grado, quanto meno c’è da riflettere. Per fare un esempio degli ultimi tempi, si è notata da parte dell’establishment una forte reprimenda contro il cosiddetto popolo dei No Vax, con tanto di demonizzazione e ostracismo – ad onor del vero spesso meritati – ma non è così per le tematiche arcobaleno che impazzano sul web. Anche a destra c’è chi ha fatto subito i distinguo con il best-seller auto prodotto del generale Vannacci e gli esempi di uscite improbe di Morgan o di Santana la dicono lunga sul clima mainstream pro “diritti”.
Il mondo a sinistra ha sposato in pieno queste tematiche facendone elementi fondamentali del proprio programma politico. Il green assieme alle varie sfumature arcobaleno, sembrano le tonalità delle nuove rivoluzioni. Non mancano però visioni alternative che investono lo stesso universo femminista. La forte critica si innesta sul tema dello sfruttamento dei corpi che parrebbe una delle nuove frontiere dei colossi farmaceutico-sanitari e la ricerca di dispositivi informatici capaci non solo di “ridare la vista ai ciechi” ma anche di migliorare le prestazioni base dell’umanità.
Così scrive il sito femminista Feminist Post nel cappello di un articolo tradotto in italiano dell’artista e giornalista americana Jennifer Bilek:
[…] L’identità di genere è il perno dell’ombrello transumano di cui fanno parte utero in affitto, commercio di gameti umani, gravidanze trans, ormonizzazione dei bambini, ibridazione tra le specie e via dicendo. Gran parte di questi temi ruota intorno alla questione della sessuazione umana e della riproduzione. Che cosa c’entra tutto questo con la giusta richiesta di tutela delle persone omosessuali e transessuali? Nel suo best seller “Il capitalismo della sorveglianza”, Shoshana Zuboff chiarisce che il vero obiettivo delle grandi aziende Big Tech – Google, Facebook etc – non è tanto scrutare i nostri comportamenti quanto piuttosto influenzarli e modificarli per massimizzare i profitti. A quanto pare lavorare sui comportamenti non basta più: anche i nostri corpi vanno modificati per le ragioni del profitto. I social ci fanno sentire liberi, e anche la guerra contro il corpo viene venduta come libertà. L’obiettivo è l’individuo neutro, precario assoluto, sciolto da ogni legame, perfino quello con il proprio corpo, consumatore e produttore fungibile secondo le necessità del mercato. La sessuazione umana è un grosso ostacolo per questo progetto.
Instillare il seme del dubbio del genere (sei veramente maschio o femmina? esistono l’uomo e la donna?), irrigarlo con l’acqua della propaganda, irrobustirlo con il concime dei media e delle tendenze della moda, raccoglierne infine il frutto maturo nelle cliniche dove si investono milioni in ricerca sulle terapie ormonali ed i trapianti di utero (per i maschi, normalmente bianchi ed evidentemente ricchi che sentendosi donna avrebbero il desiderio di una gravidanza “naturale”). In questo senso va la scelta personale di Nichi Vendola di partire per i tanto bistrattati States per garantirsi una maternità surrogata a suon di dollari.
Riprendendo, al contrario, il concetto espresso, l’individuo consapevole e a suo agio con il suo sesso, stabile nelle relazioni interpersonali, familiari e lavorative, appagato spiritualmente, è notoriamente un consumatore più scarso di chi invece è strutturalmente liquido, inquieto, insoddisfatto. In effetti i cardini programmatici di una certa sinistra antagonista di alcuni decenni fa si tenevano sui montanti del lavoro fisso con uno stipendio dignitoso in grado di consentire il pagamento di un mutuo e magari l’acquisto della prima casa che garantisse, perché no, a chi lo volesse l’opzione della creazione di un nuovo nucleo familiare o qualsivoglia legame affettivo, più o meno riconosciuto, fra quattro mura non soggette alla precaria pigione. Tutto passato!
Pensiamo all’attacco che subì qualche decennio fa, e subisce ancora oggi, la famiglia definita da un lato con l’appellativo naturale e dall’altra con una massiccia dose di disprezzo “tradizionale”. Il feticcio dell’unica modalità di aggregazione possibile è ovviamente un retaggio della tradizione. Un fatto é essere aperti alle varie possibilità, il che non costituisce un problema, altro è la visione manichea che osanna o demonizza l’aggregazione matrimoniale monogama ed etero. Forse meglio sarebbe se questo legame rientrasse fra i tanti possibili. Una modalità tra le varie senza ostracismi o privilegi. Il pensiero fluido quando si risolve in fluidi flussi di contanti crediamo perda qualcosa sul terreno del conflitto. L’abbreviazione fino all’immediatezza dei tempi del divorzio. La distruzione di ogni rapporto di subordinazione tra genitori e figli. Con il titolo “La morte del padre” o affini si contano numerosissime pubblicazioni di stampo psicologico e sociologico apparse negli ultimi decenni. Sì, il padre è morto e spesso dorme in un’auto dopo la separazione. Un bene assoluto se il padre era quello dittatoriale e violento della società europea anteguerra. L’istituzionalizzazione di colpevoli a prescindere è sempre un pessimo affare. Non è ribaltando le categorie fra oppressi e oppressori che ci si avvia alle soluzioni. È eliminando i ruoli di subordinazione che si intacca il modo di riproduzione capitalista. Se ciò invece permane si perpetuano i vantaggi per l’economia. Per chi può, in caso di divorzio, doppia casa, un mutuo ed un affitto, la concorrenza tra i genitori per attrarre l’amore dei figli con regali sempre più ingenti. Le sedute dallo psicologo dei genitori e dei figli affetti da forme di depressione o che provano ad annegare il dolore in scorpacciate di cibi spazzatura o nell’acquisto di dispositivi digitali sempre più cool. Quindi la domanda legittima è: qui prodest? Sicuramente non agli attori principali ma a tutto il corollario di servizi a pagamento che si affollano sull’evento della separazione. Si è quindi passati dall’acquisizione sacrosanta del diritto al divorzio alla gestione di un servizio a prezzi di mercato. Se hai un avvocato migliore di quello del coniuge allora spunti condizioni vantaggiose. Se hai i soldi riesci a ridurre in miseria l’altro o l’altra. Non è neanche questione di genere, basta avere più potere economico.
Conviene di più al mercato la famiglia monogamica o il poliamore? Vuoi mettere l’asfittica e mensile posizione alla missionaria tra coniugi contrapposta commercialmente a tutti gli intrugli farmaceutici che dovrai assumere per calmierare l’ansia da prestazione, i sex toys innovativi per stupire la preda di turno e poi profumi, unguenti, lingerie, botox, abbronzature artificiali ed i ricorsi alla chirurgia estetica per bloccare l’avanzare del tempo, rimanere un prodotto appetibile sul mercato amoroso e per stupire i prossimi, di qualunque genere possano essere. L’ansia di invecchiare, di non essere all’altezza delle altrui aspettative, le maratone sessuali agognate e ricalcate sulle narrazioni dell’industria del porno e che hanno sempre nella realtà cinematografica una base farmacologica!
Quando un fiorente mercato si va formando attorno ad un processo, vuol dire che il processo è stato normalizzato ed assorbito. Essendo la nostra società basata sui consumi, la normalizzazione avviene attraverso la codificazione dei bisogni in domanda di prodotti. Questa è una delle modalità di sussunzione capitalistica. Al processo poco importa se il plusvalore si libera producendo batterie al litio, sextoys, pillole ormonali, chat erotiche, abbigliamento, acciaio o aeroplani. L’importante è che si inneschi una filiera produttiva per soddisfare la quale si possa operare su una catena di sfruttamento e realizzare profitti economici e finanziari.
Si, la liquidità facilita il fatturato.
Esiste una vera e propria sindrome da acquisto compulsivo, nota anche come oniomania. La base di questa sindrome scaturisce dal senso di ansia e insoddisfazione. I giovani tra i 18 e i 30 anni sono i più colpiti e in loro l’acquisto si traduce spesso in una vera e propria dipendenza. Alcuni giovanissimi si organizzano anche per perpetrare piccoli furti degli oggetti agognati, pratica che nasce sempre dalla frustrazione e dall’insoddisfazione e non trova radici in un sano anticapitalismo ante litteram: l’esproprio proletario. Proprio analizzando profondamente questa realtà possiamo notare come agiscono i vari esperti del marketing: creando insoddisfazione, suggerendo il prodotto giusto a colmarla, spingendo all’acquisto utile ad alleviare la propria insicurezza, ansia o angoscia. È ovvio che meno certezze personali abbiamo, maggiori sono le ansie e le insoddisfazioni. Più laceriamo quei meccanismi che offrono certezze di base, un sicuro rifugio, una narrazione inclusiva, affettuosa ed avvolgente, più dovremmo creare altre certezze offerteci a “buon mercato” dalle narrazioni capitalistiche:
L’accettazione del desexing del corpo umano è oggetto di investimento di miliardari del settore farmaceutico e tecnologico, come Martine Rothblatt, una transessuale e transumanista, e Jennifer Pritzker, un’altra transessuale che con la sua famiglia detiene enormi investimenti nel complesso medico industriale. Tim Gill della ONG LGBT Gill Foundation sta guidando la normalizzazione della dissociazione corporea a livello globale attraverso l’”identità di genere” e investe in tecnologia e intelligenza artificiale. Jon Stryker, erede della fortuna medica di Stryker, guida il progetto dell’identità di genere o dissociazione corporea in tutto il mondo con l’ONG LGBT Arcus Foundation, da lui fondata. La dottoressa Heather Brunskell Evans, filosofa accademica nel Regno Unito, ha recentemente citato un rapporto pubblicato da Gendered Intelligence (GI), gruppo della lobby globale “transgender”, che sostiene che i bambini dovrebbero essere liberi di manipolare le loro caratteristiche sessuali. GI afferma che la libertà dei bambini e dei giovani sta nello “smantellare il potere culturalmente attribuito al biologico. Questa è un’affermazione affascinante. Il messaggio di GI sembra chiaro: la realtà biologica del sesso è un costrutto sociale che ha troppo potere. […] Non sono forse i cambiamenti a cui stiamo assistendo nella nuova industria del genere, rappresentata come un movimento per i diritti umani? Quanto ai bloccanti della pubertà, farmaci i cui effetti causano danni irreversibili, la strategia di genere afferma: “È importante che i bambini e i giovani … possano sperimentare, cambiare idea, provare nuovi stili, esprimersi”. Stanno chiaramente sostenendo che i bambini devono avere carta bianca nella scelta di modificare le loro caratteristiche sessuali e di usare sostanze pericolose per farlo (fonte: Feminist Post).
Questi ritrovati va ricordato che possono essere utilizzati sempre e solo dal ceto abbiente. Quindi questa presunta libertà di sperimentare, cambiare nuovi stili, sarebbe una libertà acquistabile ossia un servizio. Ma dietro questa sorta di avanguardia delle libertà acquistabili c’è la spinta alla mercificazione totale della persona e dei suoi rapporti. Tramontata, almeno in occidente, l’industrializzazione come motore economico principale si passa alla produzione di servizi e al corpo come elemento neutro di accumulazione di servizi. La psiche, il fisico, l’umore, il genere, il tempo, l’intelletto, in altre parole l’esistenza diviene il nuovo luogo di produzione e riproduzione del capitale, si insinua un nuovo conflitto che affianca quello fra capitale e lavoro, relegato alla bassa forza, e si configura il conflitto fra la propria biologia e un cangiante orientamento di genere come elemento autogenerante necessità e bisogni sempre nuovi. L’instabilità esistenziale come oscillazione necessaria alla richiesta di servizi e beni sempre diversi e performanti. Terapie ormonali, certo, ma anche chirurgia plastica, utero in affitto, trapianti: tutti circuiti che generano altissimi fatturati e spesso i sostenitori finanziari dei movimenti LGBTQ+ sono mani e piedi legati ad industrie farmaceutiche o ad imperi tecno-sanitari. Di questo si sono accorti anche i movimenti più attenti:
Sin dagli anni 60’, le strategie di marketing si sono evolute per focalizzarsi più su nicchie specifiche, in modo da pubblicizzare prodotti e servizi in maniera ancora più focalizzata e raggiungere le persone giuste. Il che significa che tantissime aziende e multinazionali hanno cominciato a spulciare qua e là diverse fasce di pubblico a cui rivolgersi, e – negli anni più recenti – questo fenomeno ha coinvolto anche la comunità LGBTQ+. Azzannando una preda vulnerabile e con tanto bisogno di rappresentanza, le grandi catene hanno trovato nella comunità LGBTQ+ una nicchia piuttosto lucrativa su diversi fronti. Se da una parte le vendite aumentano, aumenta anche la visibilità e la buona reputazione di chi sfrutta simboli e cause LGBTQ+ nelle sue strategie di marketing. In slang popolare, questa pratica viene definita “Pink Capitalism” o “Rainbow Capitalism”. […] si stima che la comunità LGBTQ+ abbia un potere di spesa di circa 835 miliardi di dollari a livello globale. E questo fa gola a multinazionali come la Nike, che tutti gli anni lancia le proprie sneakers arcobaleno prodotte probabilmente da bambini cinesi sottopagati (https://www.gay.it/pink-capitalism-cosa-e).
Che sia pink o green, sostenibile o solidale, ci troviamo sempre di fronte a nuove forme di accumulazione capitalistica. Strategie di marketing di un mercato alla ricerca di sempre nuovi polli da spennare attraverso la creazione di nuove necessità. Per questo motivo sono sempre benvenuti e non sono mai abbastanza i movimenti che lottano per l’ambiente, per i diritti (reali), per il reddito, ma se non si sganciano dalla logica del sistema, difficilmente potranno configurarsi come movimenti antagonisti, dentro anche se contro.