di ‘Gnazio

Pubblichiamo il contributo giuntoci come collaborazione esterna nell’ottica redazionale di stimolare il dibattito anche su alcune tematiche da noi poco elaborate, il tutto all’interno di un nostro personale percorso di critica del presente. Il contributo non rappresenta necessariamente le posizioni del collettivo redazionale di Malanova.

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Il progetto sociale “Fuori dalle Gabbie” portato avanti dall’associazione “Cave Canem” in alcune case circondariali d’Italia cerca di fare connettere persone detenute con cani randagi (inselvatichiti di primo grado) reclusi nei canili. Al di là del progetto in sé, che può importare il giusto, quello che trovo interessante è questo spunto di riflessione tra animali privati della libertà, umani o non umani che siano.

In questo senso, per capire quanto sia drammatica la perdita di libertà, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il suicidio rimane tra le cause di morte più diffuse in carcere. Confrontando ciò che avviene tra fuori e dentro le sbarre, è possibile asserire che i casi di suicidio tra gli individui in piena libertà siano nettamente in minoranza rispetto a quelli che avvengono tra i reclusi.

Le carceri sono sistemi di amministrazione della coercizione, in cui la forza necessaria alla restrizione delle libertà gioca un ruolo essenziale. E’ forse più immediato cercare di entrare nell’ottica della privazione di libertà (come forma di tortura sadica) analizzandola in ottica specista, e precisamente nella logica per la quale alcuni esseri umani si arrogano il diritto di privare altri esseri umani della loro libertà (e di sottoporli, di conseguenza, a violenze e torture psichiche o, peggio ancora, psicofisiche).

Oltre ai noti problemi di sovraffollamento delle carceri, della mancanza di luce o refrigerazione accettabile, ecc., i gesti violenti (manganellate, calci, pugni, schiaffi, strattoni, umiliazioni, stupri, tentati omicidi, ecc.) ripetuti in modo seriale e organizzato anche dal punto di vista scenico (i corridoi umani di agenti) accadono non per un’improvvisa incapacità dei carcerieri di gestire i propri eccessi emotivi, ma come strategia di controllo sociale per ristabilire simbolicamente un ordine che si è percepito violato. E l’ordine di cui si parla non è certo astratto: è l’ordine carcerario, quello che stabilisce i rapporti gerarchici di potere e di subordinazione presenti in un determinato istituto di pena. Anche una gestione interna dichiarata democratico-repubblicana si basa su una logica della sottomissione violenta come unica modalità di relazione con le persone ristrette. Che, è bene ricordarlo, rimangono esseri umani aventi diritto giuridico (quelle persone che prendono il nome di “cittadine e cittadini”). E sono cittadine e cittadini anche coloro che compiono le violenze perpetrate nelle carceri e negli uffici delle forze dell’ordine, che si ritrovano ad avere un arbitrario potere  di vita o di morte delle persone già private della libertà.

Così, il rapporto tra umani – che in questo caso si possono dividere in due categorie, carcerati e carcerieri – diviene lo specchio della qualità della nostra specie e, ovviamente, riguarda anche il rapporto con le altre specie animali. Sebbene lo scopo principale della detenzione umana, a differenza di quella nei confronti di altri animali, sia teoricamente quella del reinserimento nella società (almeno in occidente), gli istituti atti a svolgere questo compito sono blindati e isolati dalla vita quotidiana, lontani dallo sguardo dei “comuni cittadini”, generando di fatto in questo modo una sorta di discarica sociale su cui è meglio non posare lo sguardo esattamente come avviene nella logica degli allevamenti intensivi.

E’ preferibile per un agente penitenziario, così come per un mattatore, lavorare in un contesto silente e isolato, quasi privato, lontano dai giudizi delle altre persone, invece che all’aria aperta e alla luce del sole, così che il suo ambiente dominato da violenza e paura non possa essere giudicato o messo in discussione da altri ambienti intrisi di cultura del rispetto e della dignità (sia essa umana o antispecista).

Negli allevamenti intensivi gli animali sono spesso pesantemente maltrattati, ospitati in ambienti inadeguati, nutriti male e uccisi in modo disumano: che siano grandi o piccoli, a nord o a sud del mondo, qualsiasi animale allevino, che siano fornitori di grandi marchi o meno, tutti gli allevamenti intensivi sono luoghi di profondo dolore e stress per gli animali.

Ma il problema non è la gestione etica dell’allevamento, ma è il concetto stesso di allevamento come struttura di privazione di libertà. Qualsiasi gabbia, anche se dorata, rimane sempre una gabbia. E in questo concetto si può inserire qualsiasi tipo di struttura carceraria, sia esso una casa circondariale, un centro d’accoglienza per migranti (cpr, cara, ecc.), un mattatoio, un delfinario, un recinto all’aperto, un allevamento estensivo o una casa privata. E ne potrei citare tantissime altre soprattutto se si estende il concetto non solo alle strutture fisiche, ma anche quelle psicologiche oppure, peggio ancora, a quelle di manipolazione genetica; ed è questo ultimo l’aspetto, forse quello meno conosciuto, che è sempre più difficile da sensibilizzare: l’animale oggettivizzato per lo sfogo specista dell’aumento esponenziale della produzione (latte, lana, miele, uova, ecc.), del divertimento, della compagnia e del surrogato genitoriale.

Queste ultime categorie vedono milioni di pet, con nomi buffi e caratteri particolari, che sono costretti a vivere in un habitat costruito per esigenze di un’altra specie, quella umana: negli ultimi anni il desiderio di sottomettere amorevolmente un animale domestico, preferibilmente un mammifero, acquistandolo o adottandone uno, è aumentato in modo esponenziale, soprattutto cani e gatti che sono stati reclusi in una casa.

Il giro d’affari di questo segmento di mercato miliardario ha finanziato e moltiplicato anche studi e ricerche in campo zootecnico: l’avvento della genomica ha moltiplicato esperimenti per la diversificazione di caratteri genetici di diversi animali, sia d’allevamento che, direi soprattutto, da compagnia.
La selezione genomica è stata implementata a livello internazionale nel 2009 e ha avuto un enorme successo su tutta la “produzione” di pet e di animali destinati al settore alimentare. Il tasso di diversificazione genetico di moltissimi pet è quadruplicato, anche grazie sia ad un significativo accorciamento dell’intervallo di generazione, sia ad una più alta accuratezza degli indici genetici (grazie a un’ampia popolazione di riferimento utilizzata per produzione, morfologia e fertilità).

L’antispecismo politico rappresenta la logica espansione del movimento anarchico e libertario in un rapporto di integrazione con l’ecosistema e supera quello di adattamento ad esso. In questo modo va ad affrontare la questione di devastazione ambientale e distruzione dell’habitat perpetrati dal capitalismo, dai neofascismi e da tutti i movimenti malavitosi; contrapponendosi ad essi con principi di libertà e di rispetto nei confronti della diversità, contrasta qualsiasi idea che la specie umana possa imporre un potere egemone su tutte le altre specie del mondo animale e che possa schiavizzarle. L’antispecismo politico prospetta percorsi naturali dell’anarchismo sociale e, proprio per questo, è etimologicamente in opposizione allo specismo: l’appartenenza ad una determinata specie non può giustificare la predominazione sulle altre, limitandone la libertà e la dignità. Di conseguenza, affermare scientificamente che ogni animale ha capacità cognitive (e quindi anche di sentire e provare dolore e piacere) comporta, politicamente, che ogni essere senziente ha aspirazioni di libertà e diritti esistenziali basati sulle proprie caratteristiche.

Il veganismo nasce come conseguenza socioculturale di un antispecismo che prende piede in un ambito più ampio di quello anarchico; ma, quest’ultimo, si può affermare che ne sia il “genitore”: la scelta vegana, infatti, non solo prevede l’astensione dal mangiare animali, ma anche dai prodotti derivati da essi. Ciò comprende non sfruttare, in qualunque modo, gli animali e perciò non privarli della loro natura e della loro libertà. Come tutte le tendenze socioculturali che si sviluppano anche in settori ideologici differenti dall’anarchismo sociale, si sono formate nel tempo diverse posizioni vegane, anche interne al capitalismo e spesso individuali, per cui è difficile fare una categorizzazione. Si può dire però che il veganismo inglobato dal capitalismo, per così dire “welfarista”, si basa sul concetto di come gli animali vengano usati (con l’eccezione dei primati non umani e forse poche altre specie). In questo modo non vedono la cattività degli animali come un problema primario ma si teorizza che ciò possa essere accettabile se perpetrato in modo rispettoso, consono e civile e su questo si sviluppano leggi e controlli sul “mercato etico”, compreso quello dei pet. I welfaristi che promuovono il veganismo spesso schiavizzano anche animali nelle loro case (soprattutto cani e gatti) e argomentano che sarebbe effettivamente difficile ricavare prodotti animali in modo moralmente accettabili non curanti della privazione della libertà, dal momento che sono focalizzati sul trattamento piuttosto che sulla pratica in sé. Il veganismo “politico” non anarchico, invece, o si distingue dal veganesimo “welfarista”, perché non è basato su principi esclusivamente nutrizionistici, ma si ripropone di escludere dal consumo qualsiasi prodotto non solo della macellazione o dalla caccia o pesca, ma anche dello sfruttamento degli animali: quindi anche la lana, la seta, la cera o il miele, e i prodotti medicinali o cosmetici che contengano componenti animali o frutto di sperimentazione sugli animali, ma anche qui manca in modo sostanziale tutta la disquisizione sulla liberazione totale.

Esista, poi, una stretta associazione tra veganismo anarchico e antispecismo, che è in contrasto alle varie forme di violenza basate sullo stesso pregiudizio di superiorità della propria specie a scapito di un’altra. Dalla concezione abramitica (secondo la quale solo agli esseri umani si possa attribuire una completa considerazione morale) nasce la presunzione di poter disporre delle altre specie animali per il bene della specie umana, l’unica meritevole di rispetto. Questa logica viene alimentata da quel concetto “dio=padrone onnipotente / figlio=agnello sacrificale” presente nelle logiche speciste di coercizione fisica (come le carceri, i delfinari, gli allevamenti, ecc.) o in quelli psicologici (l’idea di una vita dipendente da un creatore e padrone e la sofferenza come valore di vita per avvicinarsi al dio, ecc.), cosicchè ci si confronta con un vasto campionario di animali che vivono nelle abitazioni o negli allevamenti, nati in cattività da diverse generazioni; questi animali, esattamente come i devoti e ferventi credenti, non hanno mai affrontato la vita in totale libertà senza la dipendenza da un umano, sia esso un allevatore, un addestratore o un intercessore del dio. Questi animali, umani e non umani, nei templi o negli allevamenti, dipendono completamente da quell’essere umano, non hanno proprio la concezione di libertà o di liberazione da esso perché ne hanno bisogno per vivere ed hanno comportamenti, traumi e abitudini che non permettono tale liberazione immediata.

Senza una base teorica di gradualismo anarchico sociale, o quantomeno libertario, su cui basare la prassi della liberazione totale, il veganismo politico potrebbe sfociare in una sorta di religione dove vengono elevati a sacri, ossia intoccabili, solo alcuni determinati animali. Il concetto di “sacralità della vita” porta a contraddizioni teoriche evidenti soprattutto quando si estende alle relazioni tra animali di specie diverse. Perciò il concetto di evitare di mangiare ad esempio una mucca o un pesce, attraverso la caccia e la pesca, perché uccidere un animale è aprioristicamente sbagliato, viene meno, ad esempio, per la famiglia dei ditteri o dei muridi quando infestano il cibo o l’habitat umano. In una prospettiva anarchica, a mio avviso, il concetto di “vita” è relazionato al cambio di paradigma da un sistema antropocentrico verso uno ecocentrico e rifiutare lo specismo nel suo complesso significa opporsi ai modi in cui tutti gli animali, umani compresi, vengano discriminati e sfruttati, non sfruttare gli animali unicamente diventando vegani, anche provando a non discriminarli in altri modi, non può essere sufficiente per aspirare ad una liberazione.

Inoltre, anche quegli animali arrivati dalla “natura” esattamente come gli individui gettati improvvisamente in una prigione, che vivevano quindi in libertà in un determinato habitat, si ritrovano improvvisamente gettati in un contesto molto diverso da quello d’origine. Nel rilasciare un animale immediatamente liberato in natura, come fatto da diverse realtà antispeciste, anche anarchiche, si rischia di condannarlo a morte certa per incapacità di riadattarsi immediatamente al proprio habitat o addirittura ad un altro habitat, così come avviene per un detenuto che rilasciato dopo decenni di detenzione.

Lo specismo è diffuso culturalmente in tutte le società autoritarie e gli animali sono vittime di ingiustizie anche quando non vengono sfruttati per la macellazione. Ci sono molti modi attraverso i quali si può dare origine ad un cambiamento: tutti gli animali, e non solo, soffrono la devastazione ambientale e tutte le cause che la determinano (come le guerre continue finanziate e foraggiate dagli Stati e dai venditori di armi, il nucleare, l’inquinamento delle falde acquifere, le estrazioni petrolifere, la cementificazione di aree urbane e industriali, l’alta velocità, le mega corsie autostradali, gli impianti energetici ecc.). L’intersezionalità tra la lotta ambientale, antirazzista, antimilitarista, antiautoritaria, notav ecc. non possono non essere parte integrante di una liberazione dall’oppressione e dal genocidio animale e questo aspetto non può essere ignorato e trascurato. Rifiutare lo specismo significa non solo rifiutare di causare danno agli animali, ma anche cercare di aiutarli, quando possibile, riducendo le cause del loro genocidio e cercando di evitarne la morte prematura attraverso la lotta continua per l’abbattimento di potere costituito e di ogni forma di autoritarismo.

A volte si pensa che, di per sé, l’ecologismo, il veganismo e la lotta antispecista siano collegati ma, senza una base anarchica, sono cose completamente diverse e possono avere conseguenze opposte.

Se è vero che il veganismo politico non anarchico rifiuta alcune forme di sfruttamento, ciò non è vero per le altre forme, come ad esempio lo sfruttamento di pet, acquistati o ottenuti gratuitamente per schiavizzarli, che implica la loro privazione di libertà. L’autorità democratica e le sue forme di sfruttamento sistemico capitalista vengono, anche inconsapevolmente, totalmente accettate da diversi vegani non anarchici. Per queste motivazioni, promuovere unicamente cambiamenti nella dieta alimentare come unica ragione sociale può portare a incoraggiare lo sfruttamento di alcuni animali piuttosto che altri. Gli animali dovrebbero essere rispettati tutti nella loro individualità e libertà e va da sé che, dato che l’interesse per gli animali e quello per l’ambiente possono avere obiettivi e conseguenze che non devono essere in conflitto tra loro, fare appello ai principi autoritari potrebbe essere un problema per chi promuove l’antispecismo.

Ciò non significa che chi si occupa di veganismo debba per forza spostarsi verso il movimento anarchico, bensì che debba preoccuparsi di non agirvi in contrasto. Quest’orbitare attorno al cibo e ai pasti, oltre a rendere più difficoltoso un cambiamento di dieta, limita fortemente le nostre libertà. La prospettiva dovrebbe essere quella di superare culturalmente l’antropocentrismo e raggiungere una coscienza antiautoritaria dove l’individualità rifiuta il sistema gerarchico specista e si riconosce come parte di un ecosistema ciclico; anche perché oggi la campagna diffamatoria nei confronti del movimento anarchico induce molti vegani a percorrere la strada opposta: si cerca di arrivare al veganesimo senza abbandonare la prospettiva capitalista antropocentrica e specista.
Così ci si ritrova a comprare prodotti vegan venduti da ditte incentrate sullo sfruttamento animale (umano compreso) e si rimane intrappolati in un sistema capitalista intrinsecamente basato sullo specismo e sull’accumulo. Spesso si aggirano solo alcuni problemi, con grande sforzo e scarsi risultati. Paradossalmente è molto più antispecista una tribù incontattata che vive in un sistema ecocentrico ed ha una dieta onnivora basata sulla caccia e la pesca ma rifiuta il concetto capitalista di accumulo e di coercizione in allevamenti, piuttosto di un vegano welfarista che è parte integrante del sistema produttivo e specista ma acquista prodotti presentati come vegan o eco-frendly.

Unire invece le varie lotte per la libertà è l’unico strumento per poter emanciparsi e riuscire a sradicare i gangli del sistema che ci tiene schiavi e assuefatti dal potere e le sue coercizioni.

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