SUSSUNZIONE E  MOVIMENTO (III)

Sussunzione tra produzione immateriale e produzione politica

Riprendendo in esame il già citato processo di deterritorializzazione e riterritorializzazione (leggi qui e qui) è forse possibile quantomeno delineare un contorno del fenomeno della sussunzione di movimento avvenuto nelle ultime quattro decadi, anche se solo per accenni. Cerchiamo quindi di delineare i tratti salienti del ragionamento, anche se di là dall’essere definitivo e risolutivo. Stiamo solamente iniziando ad addentrarci nel campo della critica storica di un periodo che forse solo oggi comincia ad essere alla giusta distanza focale per essere compreso. Nel continuo rimando fra i due concetti speculari di sussunzione fin qui esposti, esiste una corrispondenza tanto più stretta quanto maggiore è la capacità del capitalismo di influenzare la riproduzione sociale. Da tale processo dovrebbe sottrarsi ciò che si definisce antinomico o alternativo. Il movimento antagonista, connotato dalla sua pluralità di sfumature e sfaccettature, almeno nelle sue evidenze documentali e mediatiche, ad oggi non sembra rappresentare una reale sottrazione al processo sussuntivo. La differenza sostanziale consiste nella modalità attraverso la quale il processo di sussunzione si esplica nei vari ambiti socio-culturali. In modi e tempi differenti la società è stata inglobata nel processo di riproduzione capitalista partendo dal basso, ossia dal sostrato lavorativo. Quota parte del movimento è stato invece coinvolto partendo da un piano culturale. Questo è in vario modo legato ad un passaggio cruciale consumatosi, a nostro modo di vedere, fra gli anni ‘80 e ‘90, che ha poi visto esplodere nel 2000 la crisi profonda della quale ancora molti sembrano non  avere contezza. 

Questo step fondamentale consiste nella transizione, abbastanza repentina, tra l’economia produttiva e l’economia finanziaria. Pur se interessante, questo argomento merita una trattazione particolareggiata e particolarmente estesa, qui possiamo limitarci ad accennare i tratti salienti. Il cambiamento profondo della modalità di replicazione del capitale ha introdotto profonde modifiche sociali e culturali (fase di deterritorializzazione), le quali si sono dimostrate capaci di cogliere alla sprovvista anche le avanguardie di movimento. Il processo di sussunzione dall’ambito schiettamente produttivo in senso industriale (produzione di merci) si è sempre più velocemente riversato sulla produzione culturale per finire nella produzione di dati dei giorni nostri. Questo percorso ha visto un arco temporale di circa quarant’anni ossia dagli albori degli anni ‘80 fino ai giorni nostri nei quali il concetto di produzione si è ampliato, uscendo prima dalla fabbrica e dalla produzione di beni e merci, per poi farne addirittura a meno e concentrarsi sulla produzione immateriale, sempre più compatibile con la finanziarizzazione dell’economia. In questo arco temporale sono cambiate molte questioni, comprese quelle del cosiddetto “contropotere” o del movimento in genere. Si è lentamente assistito ad un mutamento delle istanze che avevano delineato l’agire politico fino alla fine degli anni di piombo. Complici i mutamenti storici, la repressione interna, la sfiducia e l’incalzare di nuove visioni culturali che avevano la dichiarata volontà di chiudere i conti con una stagione che non percepivano come propria.  

Uno dei nodi che riteniamo debbano essere analizzati è quello della cosiddetta controcultura, usata come leva sostitutiva all’azione politica militante, per tentare di aggregare e resistere al riflusso del post ‘78. Sicuramente quella che va dagli anni ‘80 ai primi 2000 è stata una stagione molto ricca di spunti e sperimentazioni, ma in un certo qual modo, maggiore era la capacità di attrarre individui, minore si dimostrava l’incisività della decostruzione della narrazione che giustificava (e giustifica ora più che mai) l’ineliminabilità della riproduzione capitalistica a fondamento dei valori sociali. A nostro avviso negli anni si sono create quelle che ora vengono chiamate comfort zones, ai tempi si parlava di enclaves politiche, ma al di là dell’aggettivazione, l’esito è stato quello di chiudersi man mano nella specializzazione del conflitto, parcellizzando l’azione politica in uno dei tanti rivoli nei quali si è dispersa l’onda lunga della contestazione nel momento del riflusso.

Non è particolarmente semplice descrivere qualcosa che è ancora molto vicino storicamente e che abbiamo vissuto in prima persona, anche se in diverse fasi e da angolazioni diverse. Ma correndo con la memoria a qualche lustro addietro, il processo comincia ad assumere contorni più nitidi anche se non ancora netti. La controcultura quindi come espediente per continuare l’azione politica di contrasto al sistema ha perso consistenza quando, da elemento di genuina critica del sistema, ha comunicato ad assaporare il piacere di un riconoscimento differente, di un mondo che pur essendo non mainstream, cominciava a crescere quantitativamente. Dalle fanzines si è passati alle riviste “alternative” e ai primi siti web. Così come dalle radio libere si è via via passati alla necessità dello sponsor fino a morire nel mondo delle normative sulle trasmissioni, nelle quali per continuare a trasmettere dovevi comprarti la frequenza. Se da un lato si andava creando un immaginario dall’altro ci si lasciava distrarre dallo stesso, ritrovandosi poi con cambiamenti oramai inesorabili ai quali o ci si adattava o si spariva.

Barattare la propria esistenza con la commercializzazione della controcultura è stato un momento di contorcimenti filologici e pseudo politici, che hanno fornito gli anticorpi per ogni futuro ripensamento, che diveniva via via più semplice man mano che l’incidenza politica reale si faceva sempre più rarefatta. Il contesto politico cambiava sempre più velocemente e la capacità di percepire gli esiti e le traiettorie diventava sempre più patrimonio di pochi. La tendenza era rappresentata dall’arte, dalla musica, e dalla letteratura. A tenere banco non era il trend politico e l’incedere della globalizzazione che negli anni ‘80 era strutturalmente consolidata e che negli anni ‘90 era funzionalmente compiuta e pronta ad entrare in crisi nel giro di un decennio. Erano già profondamente mutate le condizioni sociali e il benessere materiale associato ai mutamenti economici europei aveva già ampiamente imposto un modus vivendi completamente differente da quanto fino a quel momento sperimentato. Veniva di fatto tracciato un nuovo quadro di necessità reddituale assai diversa da quella degli anni ‘70. Sul finire degli anni ‘80 lo sviluppo urbano, da decenni ormai tarato sul trasporto individuale, richiede l’automobile come mezzo di trasporto primario; avviene qualcosa di anomalo, la media di auto per famiglia sale, sale anche il numero di televisori e accessori vari. Arrivano i computer, arriva l’usa e getta come quotidianità. La controcultura è divenuta un elemento preponderante negli anni ‘90, ma l’agire politico non scorge in questi mutamenti qualcosa di particolarmente periglioso. Guarda all’evoluzione del piano consumistico da una prospettiva di alternativa “interna al meccanismo”, attraverso aspetti di controtendenza, ma in qualche modo compatibile con la tendenza. Si vuole garantire il diritto al divertimento a prezzi politici. Questo ha costituito un altro passo di lato nei confronti dell’azione politica di messa in discussione del modello culturale. È stato accettato lo status quo, cercando di liberare spazi per l’aggregazione. Ma quando poi gli anni ‘90 hanno cominciato a presentare le controriforme capitaliste dello smantellamento del welfare, la risposta è stata di cercare nelle pieghe del sistema delle tattiche di resistenza, che non essendosi poi risolte in un processo collettivo, assomigliarono più all’arte dell’arrangiarsi.

Si comincia a parlare del concetto di autoreddito ed estrazione del quid per vivere dall’azione politica. La militanza si trasforma in un meccanismo di estrazione di una qualche redditività che cominciava a non essere più garantita dal sistema lavorativo. L’avvento della precarizzazione a tutto tondo ha sferrato un duro colpo al “contropotere”. Qui forse si sono cominciate a confondere le parole e i significati. Di fatti quella che si sosteneva essere azione politica lo era forse in maniera edulcorata dal momento che sempre più sviluppava ambiti di compatibilità con il sistema, rappresentando non una reale opposizione ma un’alternativa in termini di cultura e costume, alternativa come aspetto di offerta e sensibilità. Chiaramente non è così banale la questione, ma pone l’accento su cosa all’epoca  potesse significare essere alternativo.

La sperimentazione autoreddituale ha spinto avanti di un passo ulteriore l’opera sussuntiva, il tempo impiegato nell’estrazione di reddito non solo minava il tempo da dedicare al lavoro politico di riflessione, analisi e proposte, ma cominciava ad erodere la libertà delle scelte. Se devo estrarre reddito da uno spazio aggregativo nel contesto urbano con il costo della vita in levitazione costante, sospinto da inflazione, moneta unica, gentrificazione e nuove necessità indotte, è assolutamente chiaro che devo essere appetibile, avere gente che “attraversa” il mio spazio e sostanzialmente fare cassa. Quindi più serate e meno momenti di approfondimento collettivo, più cene sociali e meno assemblee. Tagliamo con l’accetta la questione ma la sostanza, ad una onesta autoanalisi, è questa. 

Altro nodo contraddittorio è stato l’avvento dei media “liberi” nella rete, ciò ha contribuito non poco al processo di arretramento politico. Sradicando l’azione politica (o quel poco che ne restava) dai quartieri e trasformandola in immagini e video da pubblicare nella virtualità che stava soppiantando la realtà. Molta meno fatica nel pubblicare e narrare sui social, nei quali se non garbano i commenti si zittiscono o si può criticare celandosi dietro una pagina collettiva o uno pseudonimo. Fatto questo che ha radicalmente trasformato la comunicazione e il dialogo all’interno dei consessi. La virtualizzazione del conflitto sospinge un fenomeno che già si evidenziava da qualche anno, che andava a braccetto con la narrazione eroica necessaria a supportare l’estetica del conflitto. La catarsi dello scontro diventava sempre più necessaria man mano che il conflitto confluiva in rete. Da qui il passo alle statistiche dei like e all’effetto “wow!” è breve. La spettacolarizzazione del fatto si mescola all’evento. Cambiano i linguaggi, mediatizzandosi, tarandosi sulle esigenze di brevissimo periodo di capitalizzare attenzione e fare audience. Il concetto stesso di iniziativa si fa evento, non solo una traslitterazione ma un cambiamento radicale di significato. Evento è qualcosa di evocativo mutuato da linguaggi assai più affini allo show business che all’agire politico. Nell’evento si deve catalizzare l’attenzione, qualcosa di unico e imperdibile. Ma che per forza di cose è routine.

Ma come può l’unicità accordarsi con la continuità necessaria del lavoro militante? Come può un ipotetico punto di accumulazione essere parte di un percorso di reale smantellamento strutturale di un sistema, l’evento dovrebbe essere un punto di rottura, l’apoteosi dell’eccedenza non qualcosa a scadenza fissa. In accordo con Guattari e Deleuze è nel linguaggio che la deteritorializzazione si concretizza e conduce il suo atto di trasformazione strutturale, quindi valoriale, dei significati. L’atto sussuntivo agisce nel linguaggio ma con una capacità trasformativa assai infida, sottili e impercettibili cambiamenti che per successive accettazioni cumulano una ridefinizione sostanziale del concetto originario.

I gruppi d’acquisto solidale (GAS), ad esempio, partivano dal principio di unire produzione etica con una equa compensazione del lavoro e un giusto prezzo per gli acquirenti. Il nobile scopo era di non lasciare al mercato della grande distribuzione organizzata (GDO) la funzione di stabilire il prezzo. Un percorso politico che metteva a disposizione il tempo militante per abbattere i sovrapprezzi di mediazione della grande distribuzione. Un intento che in origine aveva il duplice scopo di decostruire la filiera e snudare i punti di creazione di plusvalore attraverso il parassitaggio dei grossisti e nel contempo addivenire ad un prezzo più basso che potesse soddisfare il produttore e il consumatore eliminando per l’appunto i rincari del sistema. Col passare del tempo il principio di solidarietà si sposta dal consumatore al produttore, i GAS diventano nicchie di mercato inaccessibili agli ultimi. Una famiglia monoreddito non può accedere al cibo biologico e deve accontentarsi di quel che trova a buon mercato. Ma Il mercato ha occhi ovunque e il tam tam del bio fa breccia nelle linee green dei supermarket. Alla fine è l’idea del bio che attira. La linea “natura” delle grandi marche lava le coscienze del consumatore ad un prezzo imbattibile.

La contraddizione, nella sua apoteosi di assurdità, esplode incardinandosi nella spettacolarizzazione degli eventi come le manifestazioni, nelle quali si assaltano i punti vendita di catene di supermercati tipo Elité o i fast food stile McDonald’s, ma poi nei propri spazi si ospitano iniziative nelle quali un precario non può acquistare nulla. Paradossalmente se non hai molti soldi nel fast food ti riempi la pancia, ovviamente di porcherie ma ti sazi. Contraddizioni che si ingigantiscono, con punte di pesudo-discriminazione per chi compra nei discount, perché non capisce che compra “Junk-food”. Forse chi critica non ha chiaro che con 500-600€ al mese è difficile pagare affitto, luce, gas e cibo per due o tre persone. In questi atteggiamenti di colpevolizzazione velata della povertà si è compiuto il processo di riterritorializzazione di pezzi via via sempre più imbarazzantemente grandi di movimento. Interponendo principi senz’altro giusti e giustificabili, come il rapporto tra l’alimentazione e le malattie, l’alimentazione e il clima, ma in un modo del tutto sovrapponibile alla retorica della colpevolizzazione dell’individuo mainstream a fronte di una spinta pluridecennale ad una modalità di consumo. O peggio come la colpevolizzazione individuale durante l’austerity di chi diceva “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, ma chi? Quindi colpevolizzare chi non ha possibilità di scelta anche dentro a percorsi politici che si autodefiniscono “emancipativi” crea una strana sensazione di spaesamento. Il cibo sano è purtroppo inaccessibile a molti e mentre qualche secolo addietro avere un po’ di pancia era simbolo di opulenza e benessere economico (tipiche le foto ottocentesche dei notabili che esibivano un panciotto pieno e visi paffuti). Oggi l’obesità è sintomo di povertà legata ad una nutrizione letteralmente da due soldi.

In questo capovolgimento, figlio del nostro tempo, pezzi di “antagonismo” dimostrano di aver perso la bussola, bacchettando a destra e a manca chi non fa scelte consapevoli. Sembrano distanti molto più di 60 anni i tempi in cui i militanti entravano nei luoghi di produzione per comprendere il come e il perché della vita di un operaio o di un subalterno qualsiasi. Mettendo in fila tutta una serie di situazioni si giunge all’amara conclusione che negli ultimi cinque lustri il processo sussuntivo di ampie aree di movimento si è fatto via via più manifesto. Richiamando alla memoria il principio stesso di sussunzione che abbiamo tratteggiato all’inizio e, in qualche modo adattandolo al processo di sussunzione del lavoro politico, si evidenzia come il capitale sottomette a sé, in un processo di inclusione nel rapporto sociale di cui esso consiste, rendendo quindi funzionale alla logica della sua autoriproduzione, modi di essere, che si sono costituiti prima e indipendentemente da esso, e che esso piega ai suoi interessi senza apparentemente modificarne il contenuto. Il contenuto formale rimane di alternativa al sistema, una narrazione di lotta dietro la quale spesso non c’è più nulla di realmente dirompente o realmente conflittuale, non vi è creazione di percorsi di incompatibilità con il sistema. Il sistema ha inglobato l’agire alternativo come elemento funzionale alla sua complessità, come nicchia di mercato, come valvola di sfogo, come antidoto o palliativo. 

Più la pantomima del conflitto assume una funzione di catarsi, di sfogo e di evento liberatorio, maggiore è la stabilità che ne segue. Nel momento in cui il sistema accetta di fornire gradi di libertà momentanei il malcontento viene ad essere imbrigliato, stabilizzato e infine sterilizzato. Con questo non vogliamo intendere che l’atto di protesta sia inutile, ma lo diviene se rientra in un gioco delle parti. Il conflitto non può essere considerato qualcosa di squisitamente “eventuale” ma è la costruzione di un tessuto sociale refrattario. Un percorso che mira a costruire un livello di incompatibilità crescente, radicale e radicata nei territori. Con questo non si invita né all’eremitaggio né alla favola del ritorno all’antico e al bucolico – se mai l’antico fu un periodo di felicità contadina – né all’isolamento ideologico né tanto meno alla creazione di nuove società tribali. Quel che si propone è un rovesciamento della narrazione capitalista attraverso il riconoscimento delle contraddizioni prima e la pratica dell’incompatibilità poi.

Molte esperienze e discussioni non hanno mai creato le doverose istanze di incompatibilità con il sistema mercato, ci si ritrova quindi a dibattere su come riappropriarsi di reddito o su come disarticolare spazi per un libero ottenimento dello stesso, svincolato da leggi e regole, nella speranza che questo basti ad avviare un processo di reale emancipazione dai dettami del sistema mercatale di riproduzione del reddito. In realtà si liberano risorse e si creano dei micro redditi attraverso l’economia informale, che nel complesso sgrava lo Stato e il sistema in generale, da alcuni obblighi e oneri. In questo complesso flusso di dibattiti e analisi è spesso sfuggito il concetto stesso di reddito e cosa invece potrebbe configurarsi come suo sostituto, il riappropriarsi dei mezzi per la produzione di reddito indiretto – un tempo definito salario indiretto – cioè beni e servizi non mediati dalla quantità di moneta, in breve recuperare il valore d’uso nell’ottica di dissacrare il valore di scambio.

Quello che colpisce è che nella rincorsa al reddito, spesso si sottovaluta la direzione verso la quale si avvia la rivendicazione, si perde di vista il fatto che ciò che si chiede è la crescita economica nella sua più genuina formula neo-classica, ossia la generalizzata crescita del reddito pro capite. Che a chiedere ciò sia la classe media, in un tentativo di recupero del suo potere di spesa, quindi dei suoi storici privilegi, non sorprende; il problema e la contraddizione esplodono, quando queste istanze divengono le parole d’ordine di un intero movimento e di una intera generazione che in nome del conflitto di classe chiede semplicemente accesso al reddito, cioè potere d’acquisto.

Quando poi si ammantano di connotati rivoluzionari alcune pratiche, tendenti a scavare nicchie nel mercato globale, le quali non emancipano dalla necessità del reddito diretto ma ne fanno addirittura il fine ultimo, è chiaro che qualcosa è sfuggito di mano. Nella ricerca dell’autodeterminazione attraverso l’auto-reddito ci si imbatte in alcune dinamiche che tendono a costruire una serie di rapporti, ancorché su scala ridotta, mimano la complessità della produzione di massa con effetti quali l’autosfruttamento. Quindi orfane di un preciso percorso politico verso la reale incompatibilità col sistema mercato molte sperimentazioni concedono al mercato molto di più di quel che ottengono in termini di lavoro politico verso la reale decostruzione della narrazione capitalista, e figuriamoci delle pratiche! In questi percorsi lo sforzo di realizzare un profitto finisce col depotenziare il conflitto e dirottare energie dal movimento alle produzioni di nicchia quindi alla produzione di reddito.

È abbastanza chiaro che organizzare una qualsivoglia micro filiera produttiva è assai più semplice che autoprodurre progressivamente quello di cui si ha bisogno, dai beni di largo consumo fino all’energia, ma il portato socio-politico del percorso è decisamente più ambizioso. Da un lato abbiamo un percorso col quale si aggrega su istanze meramente reddituali, quindi su di uno specifico interesse, dall’altro si ha un percorso di partecipazione che coinvolge su interessi molteplici e libera una serie di potenzialità insite nel mutualismo e nei processi di condivisione. Utopia certo, ma altrove discorsi del genere hanno permesso di impostare dei percorsi di autodeterminazione di interi quartieri o villaggi. È chiaro che debbano essere prese le giuste proporzioni prima di immaginare qualcosa del genere, ma saltarli a piè pari senza prendersi la briga di ragionare sulle potenzialità e preferire percorsi meno complessi, non sta fornendo, in termini di conflitto, i risultati sperati. Fin qui è stato sempre implicitamente posto un aut aut, o il reddito o il conflitto, probabilmente si può uscire dal dualismo, attraverso le pratiche del mutualismo conflittuale, inserite nella riappropriazione dei mezzi di produzione e nell’autogestione di servizi via via sempre più essenziali.

I contributi precedenti:

SUSSUNZIONE E MOVIMENTO (I)

SUSSUNZIONE E MOVIMENTO (II)

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