L’EVOLUZIONE DELLO SPAZIO POLITICO ITALIANO

Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo
conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente,
mentre il compito fondamentale era nazionale,
cioè domandava una ricognizione del terreno
e una fissazione degli elementi di trincea
e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc.
In Oriente lo Stato era tutto, la società civile
era primordiale e gelatinosa;
nell’Occidente tra Stato e società civile c’era
un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato
si scorgeva subito una robusta struttura della società civile.
Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava
una robusta catena di fortezze e di casematte;
più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto
domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale
(A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Vol. II, Einaudi, 1977, p. 866).

Oggi, come allora, il nostro compito sarebbe quello di un’accurata ricognizione di carattere nazionale per  comprendere il rapporto tra lo Stato e la società civile, per realizzare un’accurata topografia delle fortezze e delle casematte capaci di rendersi palesi e di resistere durante i ciclici scricchiolii  del sistema. La rivoluzione “istantanea” può sempre accadere, essendo imprevedibile per definizione, nella norma, però, la lotta rivoluzionaria va preparata con una guerra di posizione atta alla conquista proprio di queste fortezze e casematte che preservano lo status quo. Lo Stato ha dalla sua una serie di meccanismi, accorgimenti e strategie per mantenere governabile l’opinione pubblica.  In special modo lo Stato liberale è un mix di dominio e libera scelta, di polizia e convinzione profonda, bastone e carota  si sarebbe detto in altri tempi. Ma deve pur sempre legittimarsi, tanto più è liberale tanto più ha bisogno di far sentire la sua presenza come inevitabile garante di quel sistema di “libertà” che esso concede. È qui, secondo Gramsci, che bisogna iniziare a lavorare, minando le certezze sociali e sistemiche per rimpiazzarle con una nuova egemonia culturale. Solo dopo potrà innescarsi una qualche forma di egemonia politica della classe: la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Vol. I, Einaudi, 1977, p. 70).

Ritornando alla prima citazione gramsciana, – in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente … si scorgeva subito una robusta struttura della società civile – pare che oggi ci troviamo di fronte a un’orientalizzazione della politica nel mentre si dà un’occidentalizzazione del mondo. Alla globalizzazione culturale occidentalizzante pare rispondere un’orientalizzazione dei governi. L’Oriente risponde con idee autoritarie, neo-imperiali e filo-zariste all’invasione culturale occidentale usata dall’imperialismo yankee come grimaldello per le rivoluzioni colorate; ribellioni economiche certo, ma anche culturali rispetto ai valori “tradizionali”.

L’Occidente, al contrario, sente forte il richiamo autoritario orientaleggiante. Di fronte alle forti crisi cicliche occorre una governance forte e messianica, capace di decisioni immediate, garante di un futuro sulla linea della “religione del progresso”. Il messianismo occidentale si incardina sempre di più sulla ricerca del personaggio forte dell’individuo solo al comando, semidivino, che conosce la lingua e il formalismo tecnico, capace di pieni poteri, meglio se preso dalle fila del mondo tecno-burocratico. Alla tecnica, si sa, non si risponde. La tecnica non si può mettere in discussione. La tecnica non ha colori o ideologia: è semplicemente indifferente, né di destra e né di sinistra. Per rispondere alle grandi crisi, non serve un processo democratico, un parlamento – chiamato spesso solo a ratificare atti sotto la spada della ‘fiducia’ – ma basta un comitato tecnico-scientifico di nomina governativa.

“Auctoritas, non veritas facit legem” affermava Hobbes nel Leviatano. La cosa si complica oggi visto che l’autorità si ammanta di sapere tecnico, ma non è tanto la tecnica che si pone come verità da sé ma è la logica dei tecnocrati che viene assunta come incontrovertibile. I tecnici quindi come sacerdoti, custodi di una presunta verità. Non cercatori di verità, dubbiosi e interrogativi ma detentori di verità, certi e senza tentennamenti. Quando l’agire tecnico assurge al ruolo di sapere necessario, il passaggio verso la tecnocrazia è breve. 

La tecnocrazia scalza l’agire politico come mediatore tra interessi particolari e generali tipico delle democrazie e impianta un processo basato sull’ineluttabilità delle scelte. L’agire tecnico impone il rispetto del mansionario, il concetto di assolvere al proprio lavoro secondo il ruolo e secondo gli obiettivi. Quando questa modalità esce dalla produzione in senso tradizionale e si innesta nella riproduzione in chiave capitalista, il ruolo dello Stato si polarizza in chiave mansionistica, con compiti da assolvere su imperativo mandato dell’esigenza primigenia, ossia il soddisfacimento delle richieste finanziarie. Si osserva quindi un cambio sostanziale dell’essenza della governance politica, non muta invece la sostanza dello Stato in quanto autorità indiscutibile e necessaria allo scopo del modo di riproduzione capitalista. 

Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto (C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, 2013, cit., p. 40). Nell’eccezionalità della pandemia è risultato chiaro chi avesse la vera autorità: il comitato tecnico-scientifico. E cos’è questa affermazione se non la prova di un’egemonia sviluppatasi nel corso dei secoli? La cultura dominante ha posto la “scienza” al vertice veritativo della realtà. La scienza non intesa qui come metodo di investigazione del reale e dei suoi fenomeni e processi, piuttosto come costrutto atto a garantire l’incontrovertibilità di certi assunti. Non è scienza quella che bara sui dati o non considera le implicazioni di una teoria. 

Questo è un agire all’interno di un mandato, che impone di rendere incontrovertibilmente necessario qualcosa per motivarne l’esistenza e farlo digerire in qualche modo a chi lo subisce. Nulla di diverso dal pensiero mistico-religioso, che “aiuta” a sopportare sciagure e sofferenze in quanto parte di un preciso disegno che va accettato per fede. Qui non si parla di scienziati ma di vestali e sacerdoti che propongono verità di comodo. La scienza è ben altro che il cane da guardia della tecnica. Ad agire da forza egemone sulla ricerca scientifica è la necessità economica. Quindi chi può pagare per la ricerca lo fa per trarne utili, Stato compreso che da un lato taglia le ricerche definite improduttive dall’altro finanzia solo quello che può essere utile al circuito economico e finanziario. Per non parlare dei finanziamenti privati nei quali è direttamente l’esigenza finanziaria che decide quali linee indagare e quali lasciare non indagate. Non conviene infatti ricercare una cura per malattie poco diffuse, il farmaco non avrebbe mercato e quindi semplicemente non è conveniente produrlo per le cause farmaceutiche. 

La fede nella tecnica, nel progresso, in un roseo futuro sempre più splendente, assommata alla gestione dei principali media genera quella egemonia culturale e quindi politica che “assedia e conquista” le masse popolari. Mai come oggi ci si aspetterebbe rivolgimenti sociali. Dopo quello del socialismo reale si assiste al fallimento sostanziale del capitalismo con le sue crisi sistemiche e cicliche che generano disoccupazione e inflazione, lasciando sul campo macerie sociali difficili poi da ricostruire. Nessun paradiso in terra è stato portato dalla globalizzazione e liberalizzazione dei mercati. La pandemia e la sua gestione rappresentano un altro capo d’accusa per l’attuale sistema socio economico. I prezzi dell’energia e delle materie prime alle stelle sono l’evidenza della voracità degli speculatori con buona pace della capacità del libero mercato di autoregolarsi, ma il mercato realmente libero da monopoli e oligopoli è un’utopia tanto quanto lo può essere il socialismo. Cosa volere di più perché si verifichi una tempesta popolare perfetta? Eppure tutto tace. L’egemonia funziona. Le casematte borghesi tutto sommato reggono.

Un’altra parola da scandagliare è proprio quella del “progresso”. Divenuta una religione laica, ma di base indiscutibilmente cristiana, con il suo ottimismo presunto che pone nel futuro l’età dell’oro contrapposta alla parola “tradizione” o “conservazione” che invece pone nel passato il paradiso perduto. Alla prima si legherebbe la parola sinistra mentre all’altra destra. Anche qui gli scenari, ad un’attenta analisi, si potrebbero ribaltare. C’è la pandemia? La scienza produrrà un vaccino efficace. C’è una crisi climatico/ambientale in corso? Niente problema: le tecnologie sapranno presto superare l’empasse con la green economy. C’è una crisi sistemica di sovrapproduzione? la globalizzazione garantirà l’apertura di nuovi mercati. Questa fede nel progresso, nella tecnica, questo ottimismo futurista è di sinistra? 

C’è la crisi ambientale, bisogna consumare di meno e tornare agli antichi stili di vita. La pandemia è esplosa? Colpa dello sviluppo e del taglio delle foreste: bisogna tornare a piantare alberi. Lo smog cittadino produce malattie? Torniamo ad usare un mezzo ecologico come la bicicletta. Questo neo-conservatorismo è di destra? Si scherza, giusto per mescolare un po’ le carte e provare a far saltare coordinate e slogan un po’ logori.

RItorniamo al compito rivoluzionario che parte dalla conquista delle casematte dello Stato. Come dicevamo, la classe dominante non usa solo la violenza dello Stato insita nel cratos contenuto anche nella parola democrazia[1]. La violenza ha i suoi limiti e in un sistema liberale si deve usare con discrezione dando la sensazione che le masse popolari siano libere di scegliere. Le ‘libere’ elezioni sono uno di questi sistemi. L’egemonia culturale delle classi dominanti è raggiunta anche con l’organizzazione del consenso tramite strutture ideologiche e istituzioni come la scuola, i partiti, i media, i social network ecc. E’ un’altra forma del cratos, del potere soggiogante che non si esprime con la forza ma attraverso la persuasione razionale, i messaggi subliminali, l’influenza sentimentale, modificando il pensiero e il modo di vivere delle classi subordinate. Paradossalmente è ua violenza che ha indossato l’abito della festa: una violenza che non sembra violenta.

La “casamatta” partito

Un esempio storico di questa egemonia culturale che non ha fatto ricorso ai manganelli ma alla propaganda è stata la personalizzazione della politica. Le elezioni del 1994 hanno rappresentato il punto di arrivo della crisi della “partitocrazia”. Quelle istituzioni che avevano sedi sparse e radicate sul territorio nazionale e che si alimentavano di incontri, congressi e programmi sono lentamente defunte, sono diventate “liquide”. Con la caduta del muro di Berlino e la sindrome da “fine della storia”, finiscono le grandi narrazioni ideologiche, i posizionamenti politico-ideologici. La forma partito è tramontata insieme al declino delle identità collettive che essa era chiamata a rappresentare. Il 1994 segna lo spartiacque di una strategia politica basata sulla figura carismatica del leader, del partito-persona. Berlusconi, Renzi, Salvini, Grillo e oggi in parte la Meloni manifestano una tale deriva che presto ha contaminato a sinistra anche coloro che si manifestavano riluttanti e avversi a tale implosione della politica. Pensiamo alla dicitura “con De Magistris” incisa nel logo del contenitore Unione Popolare delle ultime elezioni.

Certo il discorso non è mai nero o bianco. Ci sono da evidenziare tante sfumature di grigio. Se incomprensibilmente un partito come il PD, nonostante tutto, non implode mantenendo un elettorato a due cifre, sembra da attribuire al fatto di essere un partito ancora tradizionale, con le sue sedi distribuite, i suoi congressi e la tradizione che si porta appresso immeritatamente come realtà in continuità della storia del movimento operaio e del partito comunista. Vecchi arnesi che però sembrano ancora avere il loro effetto nonostante sia noto ai più che l’evoluzione dal PC-PDS-DS-PD abbia avuto il suo centro proprio nell’abolizione di quella letterina ‘sinistra’. Non parliamo proprio dell’epiteto comunista assolutamente obbrobriato da tutti i leader piddini degli ultimi decenni. Parrebbe dunque che la forma-partito resista. Stessa cosa dicasi per Fratelli d’Italia che nonostante il carisma della sua leader porta con sé ben visibile nel logo la radice antica del Movimento Sociale Italiano. Anche il liquidissimo Movimento 5 Stelle ha dovuto velocemente abbandonare il suo “uno vale uno” per acquisire un “capo politico” e strutturarsi ricalcando in qualche modo i connotati dei partiti tradizionali. Grossa discussione interna c’è stata sulla regola del divieto di presentarsi per un terzo mandato elettorale derivante dalla necessità di avere in parlamento personalità con esperienza.

Ad una prima analisi potremmo quindi affermare che il liquefarsi ed il personalizzarsi di questa “casamatta” rappresentata dai partiti politici siano in lenta frenata che lasciano il posto ad una più solida impalcatura organizzativa. 

Un processo analogo, nello stesso periodo, pare si sia affermato anche in quell’area politica che era chiamata “movimento”. Un libertarismo falsamente inteso, un’avversione verso qualsiasi forma di verticalità, un’allergia diffusa – con eccezioni – all’organizzazione hanno lasciato il campo ad uno spontaneismo molto diffuso. Piccoli esperimenti territoriali, assemblee diffuse, comitati territoriali che però non sono riusciti nel tempo a solidificarsi, a rappresentare quella costruzione di “torri” e casematte dal basso capaci di cooperare per scalzare il sistema marcio. Nella fase attuale, da più parti, si assiste ad un abbandono delle vecchie assemblee, di strumenti come i social forum o le adunanze di piazza, per ri-solidificarsi nella forma partito o sindacato. Alla sparizione sempre più evidente dei fluidi centri sociali si afferma l’iscrizione di massa di ampie realtà di “movimento” a sindacati o partiti politici di base. Si potrebbe discutere ed approfondire sul tema se sia più utile per la sinistra non riformista frequentare il partito maggioritario che detiene indegnamente una continuità con la storia del movimento operaio secondo la strategia trontiana ma anche nell’attualità quella di Corbin del Partito Laburista in Inghilterra o Sanders del Partito Democratico negli States, oppure creare dei partiti alla sinistra del PD.

In Italia, da tempo, ma con scarso successo, il tentativo è quello di federare i partitini della sinistra sinistra per erodere terreno al grande partito della sinistra oramai divenuto sostanzialmente un partito di centro. Strategia che vorrebbe imitare i successi della spagnola Podemos e di France insoumise. Anche qui segnaliamo una grande differenza nel fatto che questi ultimi partiti sono nati anche sull’onda di importanti proteste popolari rappresentate dagli indignados e dai gilet gialli, proteste sostanzialmente non pervenute in Italia per numeri ed intensità.

Pensare in profondità il modello organizzativo più utile alla fase, tra partito e movimento, sarebbe uno dei compiti della sinistra sinistra nell’immediato presente. Come coniugare la necessità organizzativa ‘dall’alto’ con le proposte e gli esperimenti diffusi territorialmente ‘dal basso’?

La “casamatta” comunicazione

Nel deteriorarsi del “pensiero forte”, delle ideologie che si coloravano di rosso, di verde o di nero, si fa strada la scelta del nuovo. Con la fine della prima repubblica e a conclusione dell’operazione “Mani pulite”, i partiti politici ne escono a pezzi, privi di autorità e di consenso popolare. L’elettorato confuso da una parte continua a votare per chi ha sempre votato ma una larga fascia degli aventi diritto sceglie il “nuovo”. Ancora una volta ad iniziare la scia è Berlusconi, il volto nuovo, colui che ha sempre lavorato ed è stato capace di costruire un impero economico. Berlusconi è riuscito ad amalgamare bene il suo carisma personale, la sua storia di imprenditore di successo e la capacità comunicativa supportata da ben tre reti nazionali: innanzitutto, Berlusconi è un personaggio che, fino a quel momento, non è un professionista della politica. Si presenta come un imprenditore di successo diverso dai politici tradizionali e riesce così a cogliere appieno gli umori antipartitici che circolano nella società civile. Come evidenzia Orsina, il progetto politico berlusconiano si presenta come antistatalista, fondato sulla “santificazione” della società civile e della sua capacità di governarsi da sé, interamente volto contro la partitocrazia antifascista e la sua iperpolitica. In secondo luogo, le stesse modalità della sua “discesa in campo” rivelano una nuova modalità comunicativa destinata ad avere successo. Berlusconi annuncia la sua decisione trasmettendo sulle reti Fininvest una cassetta video. Il mezzo televisivo e l’abilità nel saperlo sfruttare divengono uno strumento decisivo della competizione politica. Nella campagna elettorale, Berlusconi comunicherà con gli elettori mediante spot trasmessi dalle sue reti private. Per arginare la sua supremazia mediatica il centro-sinistra qualche anno dopo approverà la legge sulla par condicio. Tuttavia il salto di qualità nella comunicazione politica ormai era compiuto e un acuto osservatore straniero qualche anno dopo affermerà che in Italia si è instaurata una forma di democrazia mediatica in maniera più marcata che altrove. Un altro aspetto del tutto innovativo è il modello organizzativo che Berlusconi dà al suo partito, Forza Italia, totalmente differente da quello dei partiti tradizionali. Non si cerca di tesserare aderenti, non si vuole radicare il partito sul territorio. Nel momento iniziale Berlusconi associa personaggi con i quali è in rapporti diretti e utilizza i dirigenti delle sue aziende. Forza Italia nasce come una macchina elettorale, come uno strumento nelle mani della leadership berlusconiana che non potrà mai essere messa in discussione. Per Ignazi, Forza Italia è un partito carismatico, in quanto si identifica in tutto e per tutto nella persona del suo leader; un partito verticistico, perché le decisioni sono prese in assoluta autonomia dal leader; un partito patrimonialista, perché le risorse con le quali è stato fondato provengono da Berlusconi. In sintesi, si può concordare con la definizione di Calise di partito personale (V. Lippolis, IL POLITICO, Università di Pavia, 2019, anno LXXXIV, n. 2, p.190).

Carisma, comunicazione, patrimonio. A ben vedere saranno gli ingredienti che costituiranno le ricette dei diversi soggetti politici da allora in poi. Un parallelo immediato può essere fatto con il grillismo. Tutto nasce, anche qui, dalle capacità mediatiche di Beppe Grillo, dal suo patrimonio e dagli sponsor che riusciranno a creare eventi come i Vaffa Day. Dopo il berlusconismo sono i pentastellati a rappresentare la vera novità del panorama politico-istituzionale italiano. Mentre la macchina elettorale berlusconiana riuscì immediatamente a fare breccia nell’elettorato e arrivare subito al governo del paese informando di sé un ventennio della nostra storia patria, il movimento cinquestelle preparò a lungo la sua partecipazione elettorale vivendo esclusivamente di piazze e di meet up per poi cimentarsi, nella maturità, nel lavorio della rappresentanza istituzionale. Nato in un momento di alta delegittimazione dei partiti e dei politici, il grillismo, per stessa ammissione del suo leader carismatico, nacque per dare uno sfiato “istituzionale” al malcontento popolare che stava montando e che sarebbe potuto sfociare in momenti di vera e propria violenza. 

Tra Berlusconi e Grillo si inscrive la parabola Renziana che riproduce la stessa storia mescolando diversamente gli ingredienti. Ci troviamo qui di fronte ad una scalata del Partito Democratico non avvenuta su base programmatica ma personalistica. Il rottamatore, giovane e brillante, in grado di ‘bucare lo schermo’ veniva per mettere a riposo tutti i vecchi arnesi della politica partitica. Anche qui l’idea del nuovo, anche qui il carisma personale. Arriviamo solo per un momento ai nostri giorni per dire che, dopo Salvini, è la Meloni a vestire i panni della novità e a captare i voti e la benevolenza popolare. Personaggi dunque che, come impone la società del consumo capitalistica, vivono un veloce decadimento: salvatori della patria per un po’, avanzi indigeribili subito dopo. Pensiamo per esempio al corso politico di Monti, Renzi, Di Maio e pensiamo anche quello di Draghi. Dalle stelle alle stalle! Nel loro piccolo, anche le compagini della sinistra sinistra, si sono nel tempo affidate, più che ad un programma, ad un radicamento nei territori, ad un personaggio carismatico. Da Vendola a De Magistris passando per Ingroia si dipana il fil rouge della parabola elettorale della sinistra rivoluzionaria che ha raggiunto il suo apice dell’1% nelle ultime elezioni nazionali. 

Ma, torniamo a focalizzarci sulla comunicazione. In tempo di social network la comunicazione è diventata veloce, istantanea. Dagli spot Berlusconiani al libricino che mandò in tutte le case degli italiani, ai ‘cinguettii’ moderni che arrivano fino allo sbarco sul più giovanile dei social Tik Tok. La politica non si fà più casa per casa ma ‘Porta a Porta’ da Vespa. Sono poche le piazze ed i comizi mentre si abbonda con i post e le comparsate televisive. Raramente si assiste a dibattiti fra i leader che preferiscono essere intervistati singolarmente. Resta negli annali la strategia comunicativa di Beppe Grillo che impediva sistematicamente ai neofiti pentastellati di partecipare a talk televisivi: tutta la comunicazione del movimento passava dalla sua persona!

Siamo ai tempi della ‘Bestia’ di Salvini. La creazione di profili falsi sui social che inondano il web di paccottiglia informativa capace di afferrare l’attenzione disabilitata degli utenti-elettori. Siamo all’epoca delle Fake News e della gente che matura la sua idea e la sua coscienza solo leggendo i titoli dei post su facebook. Non sia mai che si apra un articolo che sia più lungo di tre righi. Addirittura Twitter impedisce categoricamente di andare oltre i 280 caratteri. Una foto accattivante, un video di qualche secondo, accompagnato da una frase ad effetto è tutto ciò che occorre per commentare fatti anche complessi della realtà. Sei con i russi o con gli ucraini? Sei vax o no vax? Sei democratico o autocratico? Sei facista, grillino o comunista? L’appartenenza politica si risolve in tifoseria.

La comunicazione cambia i pensieri e le inclinazioni. Al netto dello zoccolo duro che, come dicevamo, vota il partito che votava suo nonno partigiano o lo schieramento della sua gioventù, il resto è molto volatile. Chi è iscritto alla CGIL tra gli operai del Nord vota Lega. Chi votava il celodurismo Leghista è passato successivamente al grillismo per poi traslocare in Fratelli d’Italia. Schieramenti diversi, programmi diversi, culture diverse. Non si sceglie più per ‘partito preso’. Quello che accomuna è la volontà di nuovo a tutti i costi! In questo senso risulta stucchevole l’allarmismo di Letta sulla venuta del nuovo fascismo. Il popolo italiano, in gran parte, non ha votato per la neo-fascista ma semplicemente per la neo, intravedendo nella Meloni, proprio nella sua persona, una qualche novità rispetto al panorama politico dato:  “Balzata dal 4,3% al 26% in cinque anni, FdI ottiene il successo alle politiche 2022 prosciugando il bacino elettorale della Lega e mettendo così a segno il sorpasso nella coalizione del centrodestra. Sono 7,2 milioni gli italiani che hanno scelto Giorgia Meloni e di questi per il 16% si tratta di una conferma. La metà arriva invece dai partiti alleati: per quasi un terzo, nel 2018, la scelta era stata la Lega mentre un quinto aveva puntato su FI. Fratelli d’Italia pesca anche in casa degli avversari: il 17% dei consensi proviene da elettori del partito di Giuseppe Conte e altrettanti dall’astensione. I dati emergono dall’analisi dei flussi condotta da Swg.” (A. Gagliardi, Meloni ruba voti a Lega e M5s, Il Sole24Ore, 26/09/2022. L’articolo è consultabile al seguente link:  https://www.ilsole24ore.com/art/meloni-ruba-voti-lega-e-m5s)

Il ‘sentimento’, più che il programma, muove quella percentuale volatile di elettori indifferentemente da una parte all’altra dell’arco costituzionale.  La comunicazione politica si muove dal programma alla slogan e tiene conto delle varie rilevazioni statistiche che provano a recepire il pensiero della popolazione. Non sorprende, in questo senso, se i messaggi elettorali di Berlusconi si aggirano sulle tematiche delle dentiere gratuite per gli anziani o il benessere degli animali di affezione, se il fulcro della propaganda leghista svari dagli sbarchi alla flat tax nel mentre Di Maio chiedeva una riduzione dell’80% delle bollette e la Meloni postava il video di uno stupro. Tutti temi ‘sentiti’ come necessari dalla popolazione o che stuzzicano la loro curiosità/rabbia. Gli ultimi programmucci elettorali, depositati più per dovere legale che per convinzione, non contano che poche pagine e trattano problematiche generalissime tanto che spesso sono sovrapponibili da destra a sinistra. Nessuna analisi teorica, nessun sole dell’avvenire da delineare, nessuna presa di posizione ideologica, nessun posizionamento di campo, salvo rare eccezioni. 

Anche questo secondo blocco si chiude con una domanda: come l’area rivoluzionaria dovrebbe utilizzare i nuovi media? Come strutturare un programma e poi tradurlo affinché possa essere divulgato attraverso i social per fare breccia nella coscienza collettiva? In ultima istanza come si fa ad emergere o almeno essere tracciati dai radar del popolo italiano?

Così si esprime Marco Rizzo, segretario del PC e fondatore di Italia Sovrana e Popolare, in un post a commento del voto delle ultime elezioni: “Diciamolo, non è andata bene, abbiamo preso 350 mila voti (poco meno dell’altra lista di sinistra ‘Unione Popolare’, ndr). Il nostro comunicato ufficiale racconta la verità: Nonostante una campagna elettorale entusiasmante, i tempi ristretti voluti dal sistema ci hanno comunque messi all’angolo. Il simbolo di Italia Sovrana e Popolare era ai più sconosciuto, se avessimo avuto più tempo allora la situazione sarebbe stata ben diversa”. 

Da molti decenni le liste della sinistra sinistra, varate appositamente per la disfida elettorale, rompono le fila il giorno dopo il voto per poi presentarsi alla tornata successiva con un altro contenitore, un nuovo nome e nuovo leader. Sarà anche questo il motivo del rimanere sconosciuti ai più oltre che all’atavico vezzo sinistrorso della scissione dell’atomo per provare ad arrivare all’elemento costitutivo elementare della materia, quello più puro?  

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Note
[1] La macchina statale, lungi dall’essere neutrale, è al servizio della classe dominante che la utilizza per il suo potere coercitivo. La parte popolare (in greco: δῆμος, demos) anche nelle più ‘progredite’ democrazie è sottoposta al preponderante cratos (in greco: Κράτος), personaggio della mitologia greca che rappresenta il potere di dominio, la violenza soggiogante, l’imporsi sugli avversari. Cratos, figlio del titano Pallante e della dea Stige, con la sorella Bias, la ‘violenza’, sono le ‘guardie del corpo di Zeus’. Tra l’altro ricevono l’incarico da parte del ‘padre degli dei’ di incatenare Prometeo, il ribelle che intende affrancare l’umanità dalla sua condizione miserabile facendogli conoscere furtivamente il fuoco degli dei, portatore di luce e di progresso.

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