ENERGIA: QUANDO È CONFINDUSTRIA A SCRIVERE IL PNRR

Agostino Re Rebaudengo, presidente di «Elettricità Futura» di Confindustria, ha tenuto pochi giorni fa una conferenza stampa sul tema delle energie rinnovabili. Non fa dunque scalpore che la richiesta principale fatta è speculare a quella presente nel PNRR: sbloccare l’iter burocratico per l’installazione di impianti energetici.

La proposta è quella di semplificare la burocrazia autorizzativa per sbloccare immediatamente circa 60 GW di rinnovabili entro giugno 2022 che rappresentano un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Questo limiterebbe, secondo l’associazione, i disagi energetici dovuti all’attuale congiuntura geopolitica limitando l’importanza delle fonti fossili nel sistema elettrico nazionale.

Questi 60 GW, secondo Re Rebaudengo, “faranno risparmiare 15 miliardi di metri cubi di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato. O, in altri termini, oltre 7 volte rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale” (2,2 miliardi di mc, come spiegato da Cingolani, ndr). “Il settore elettrico potrebbe quindi investire 85 miliardi di euro in 3 anni nelle rinnovabili, creando 80.000 nuovi posti di lavoro”.

Secondo l’ipotesi confindustriale si potrebbero installare 12 GW di eolico, idroelettrico, bioenergie e altre fonti, oltre a 48 GW di fotovoltaico che richiederebbero una superficie pari a 48.000 ettari. La parte da leone la farebbe dunque l’energia solare che però non è quella auspicata dagli ambientalisti, cioè quella micro e diffusa che va ad occupare superfici già cementificate come quella dei tetti delle case, ma quella macro da realizzare su superficie agricola, opzione bloccata in molte regioni dove la speculazione ha interessato molta parte del terreno agricolo visto i profitti garantiti dall’energia rispetto a quelli generati dall’agricoltura. Secondo l’ipotesi si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie agricola totale oppure l’1,3% di quella non utilizzata. L’idea è quindi quella di favorire i grossi player energetici liberandoli da lacci e lacciuoli burocratici tesi alla tutela ambientale. Questo il bisticcio argomentativo: abolire la tutela ambientale a favore dell’ambiente! 

Ricordiamo che – come riportato in una loro brochure informativa dal titolo “Come immagini il futuro della tua impresa?” –  Elettricità Futura è un’associazione “delle imprese che operano nel settore  elettrico italiano che rappresenta oltre il 70%  dell’elettricità prodotta e venduta in Italia. Oltre 500 imprese di ogni dimensione attive nella produzione  e commercializzazione di energia elettrica da fonti convenzionali  e rinnovabili, nella distribuzione, nella fornitura di servizi per il settore che rappresentano 40.000 addetti, 75.000 MW di potenza elettrica  installata, 1.150.000 km di linee di distribuzione”. Tra le imprese associate troviamo i soliti nomi noti: A2A Spa, ACEA ENERGIA Spa, EDISON RINNOVABILI Spa, ENEL ITALIA Spa, Eni SpA (Eni GGP –Eni Plenitude Spa), FALCK RENEWABLES Spa per citare solo le più grandi.

Ritorniamo all’analisi della proposta. In effetti l’iter autorizzativo che sulla carta dovrebbe avere una durata di un anno, impiega mediamente 7 anni. Questo significa investimenti bloccati per gli industriali che poco si interessano ai motivi del blocco (vincoli ambientali, impatto sociale o paesaggistico) preoccupandosi solo del margine di remunerazione del capitale investito e degli anni di perdita degli utili visto l’impossibilità a procedere.

Nelle slide di presentazione della proposta per fronteggiare l’emergenza energetica così afferma Confindustria: “Abbiamo la capacità di installare 20 GW di rinnovabili all’anno. Già dieci anni fa avevamo installato oltre 11 GW disponendo di sistemi di tecnologie meno performanti e installazione meno efficienti. 60 GW di nuovi impianti faranno risparmiare 15 miliardi di m3 di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato. O, in altri termini, oltre 7 volte rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas naturale. Un altro contributo importante dalla crescita della produzione potrebbe arrivare dal biometano da 1 miliardo di m3 a 10 miliardi, utilizzando la frazione organica dei rifiuti urbani, industriali e agricoli. Il settore elettrico è pronto a investire, nei prossimi 3 anni, 85 Mld€ necessari per installare 60 GW di nuovi impianti rinnovabili e creare 80.000 nuovi posti di lavoro. Questi investimenti all’economia darebbero un grande slancio all’economia e renderebbero l’Italia energeticamente più sicura e indipendente. Negli ultimi 30 anni, l’Italia è fanalino di coda in Europa per crescita del PIL. Dal 1993 il PIL italiano è cresciuto solo del 22% rispetto a una media europea del 56%” (il documento è consultabile al seguente link).

“Altre proposte sono arrivate da Utilitalia nel corso della X edizione del Top utility award organizzato da Althesys. Giordano Colarullo, direttore generale di Utilitalia, ha affermato che “nel breve e medio periodo è necessario lavorare a dei patti territoriali che coinvolgano imprese ed enti locali per accelerare sul fronte delle energie rinnovabili”, individuando le aree idonee e velocizzando le procedure. Secondo Colarullo, bisogna ragionare “su un ampio spettro di vettori a sostegno della transizione energetica. Penso al teleriscaldamento, a un’impiantistica adeguata per la gestione dei rifiuti che possa valorizzarli anche dal punto di vista energetico e al biometano, che ha un potenziale di 8 miliardi di metri cubi, pari al 10% del fabbisogno nazionale”. (al seguente link puoi leggere l’articolo) Altri settori stesso pensiero: velocizzare e snellire la burocrazia.

Certo, i 60 GW di nuove installazioni rappresenterebbero un piccola parte dell’energia necessaria all’Italia per uno switch off dalla rete russa ma certamente un grosso passo in avanti rispetto alle performance degli ultimi anni che vede l’Italia ultima nella costruzione di nuovi impianti tra le prime dieci potenze mondiali dell’energia (link al nostro articolo).

La problematica che riscontriamo è sempre la stessa. Il capitalismo, insieme alla governance europea, tende a prendere scorciatoie che poi risulteranno nel prossimo futuro perdenti. Oggi si è rivelata falsa la politica-ponte europea basata sulla transizione alle energie rinnovabili pensata come passaggio dal petrolio al gas. Oggi il clima di emergenza, dovuto alla necessità di trovare una rapida alternativa al gas russo, porterà la politica italiana, sempre al servizio delle grosse sigle dell’energia nostrana, ad utilizzare i fondi del PNRR – e non solo – per implementare strategie con lo scopo di potenziare una rete energetica ipercentralizzata e concentrata su pochi mega impianti fortemente impattanti verso l’uomo e l’ambiente. Questi impianti sono gli unici a poter garantire una remunerazione del capitale soddisfacente e in linea con altri tipi di investimento. Favorire i piccoli e micro impianti decentrati e vocati all’autoproduzione, sarebbe per i nostri statisti troppo lungo e dispendioso.

Quali garanzie a questo punto ci saranno affinché davvero l’Italia diventi autonoma e green, con una bolletta pro capite calmierata e nessuna minaccia esterna? Se pensiamo alla regione Calabria, come dicevamo in un precedente nostro articolo, dove si produce il triplo dell’energia consumata ma senza avere alcun vantaggio in bolletta ma solo problemi derivanti dall’inquinamento e da una gestione scriteriata, possiamo sicuramente affermare che, nonostante le tinte rosee con cui dipingono la proposta confindustriale, l’efficacia sociale e ambientale sarà sicuramente negativa. 

Il clima emergenziale, purtroppo, spingerà ancora di più verso questa direzione come già emerso dalla lettura del PNRR. Una scorciatoia che facilita il compito dei decisori politici indirizzando la parte più corposa dei finanziamenti verso due o tre idee progettuali da affidare a un novello (si fa per dire) partenariato tra pubblico e privato che significherà la pubblicizzazione dei costi degli investimenti e una privatizzazione futura degli utili di esercizio. Molto più complesso, faticoso, e, soprattutto, meno congeniale al capitale, una strategia che porti ad investire le risorse pubbliche affinché ogni casa, ogni condominio, ogni fabbricato, ogni Comune possa implementare politiche energetiche decentrate e finalizzate all’autoproduzione e all’autoconsumo. Un modello che implicherebbe un rapporto competitivo tra il pubblico e il privato che abbasserebbe sensibilmente l’importo delle bollette dei cittadini e della spesa in bilancio per gli enti pubblici. Una traccia di questa possibilità la troviamo nelle cosiddette comunità rinnovabili che prenderemo in esame nei prossimi articoli, depurate però da una parte dai sempre presenti processi di normalizzazione del capitale e, dall’altra, dai facili entusiasmi ideologici di talune associazioni ambientaliste.

La redazione di Malanova

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