Riprendiamo la nostra rubrica di approfondimento sul mondo del lavoro, proponendo ai nostri lettori alcune note di un’inchiesta di Andrea Rinaldi pubblicate il 7 ottobre sulla rivista militante commonware.org. Sulle recenti mobilitazioni dei riders, Malanova ha più volte scritto (in calce a questa inchiesta si possono trovare i link di approfondimento) ponendo l’accento sul rapporto tra la vertenza sindacale e i processi di soggettivazione dentro le lotte. In questa inchiesta viene affrontato un altro nodo che reputiamo centrale, quello della composizione di classe dei riders che risulta essere molto eterogenea e profondamente divisa. L’autore indaga l’aspetto della rivendicazione del contratto di lavoro subordinato chiedendosi se questa soluzione, caldeggiata dai sindacati confederali (e, aggiungiamo noi, anche da alcuni settori di quello di base) risponda alle reali esigenze dei lavoratori del settore o, piuttosto, appartiene a quella retorica vittimistica tipica del sindacato e di una certa stampa compiacente. L’inchiesta prova a dare delle prime indicazioni attraverso le quali impostare un concreto lavoro militante di conricerca.

* * * * * *

Le nuove piattaforme di un vecchio sfruttamento

Le piattaforme della gig-economy, che si basano sull’idea di avvicinare il consumatore ad una vasta offerta di prodotti e servizi acquistabili con un click rappresentano, come è noto, la frontiera dello sfruttamento del lavoro flessibile. Senza flessibilità del lavoro, lo sviluppo delle tecnologie 3.0, che continuano ad allargare i confini del loro ambito di applicazione, non sarebbe bastato a dare l’impulso necessario al capitalismo delle piattaforme che comprende sia piccole start-up sia grandi aziende multinazionali. Dovunque si presenti esso si serve di lavoratori iper-flessibili e formalmente autonomi, dal difficile inquadramento giuridico proprio perché in questo modello produttivo le categorie di datore di lavoro, dipendente e cliente si sovrappongono. In ragione di questa estrema flessibilità, il lavoro per le piattaforme si caratterizza come gig, lavoretto.

La crisi economica del 2008 e le conseguenti trasformazioni dell’economia hanno assottigliato il numero di lavoratori autonomi in Italia ma, il belpaese rimane uno degli stati dell’eurozona con più lavoratori autonomi sul totale degli occupati (21,9% nel 2017). Un numero probabilmente destinato a crescere con la crescita della gig-economy.  Il modello produttivo del food delivery, a cui sono dedicate queste note, è solo uno tra i tanti che caratterizzano il capitalismo delle piattaforme di cui, proprio per la sua eterogeneità, è difficile dare una definizione univoca, sebbene esistano delle caratteristiche comuni. Per esempio, il lavoro on demand  quello mediato dalle app delle piattaforme  del food delivery ha in comune con l’altro grande modello del capitalismo delle piattaforme, quello della sharing economy,  la messa a valore dei beni ( il mezzo di trasporto privato ) di proprietà del lavoratore (come viene volarizzata la proprietà immobiliare per Airbnb) senza che la piattaforma offra alcun tipo di tutela anche in virtù  della formale degerarchizzazione tra cliente, fornitore del prodotto, piattaforma e lavoratore. 

All’interno della gig-economy il mondo del food-delivery è la frontiera più evidente e più tecnologizzata; funziona da modello anche per il mondo della consegne di merci e dei corrieri espressi, ma rappresenta una porzione minoritaria del variegato mondo dei freelance del capitalismo cognitivo che operano a chiamata, a progetto o saltuariamente, per piccoli o grandi aziende del marketing, del giornalismo, dei nuovi media, inquadrati come lavoratori autonomi, come collaboratori coordinati e continuativi, con contratti di prestazione occasionale. La sua centralità è pertanto relativa da un lato alle innovazioni tecnologiche che adotta nell’organizzazione del lavoro e alla sua capacità di rappresentare il paradigma di più estese trasformazioni produttive, dall’altro dipende dalle varie mobilitazioni che hanno interessato il settore in tutta Europa.

La piattaforma di food delivery rappresenta l’innovazione tecnologica e organizzativa di un servizio sempre esistito, ovvero la consegna di cibo a domicilio, ma a differenza della sua forma tradizionale, è in grado di garantire una certa visibilità al fornitore, di offrire  l’esternalizzazione dei costi di gestione e la fornitura di un algoritmo che assicura efficienza e che sviluppato privatamente dal fornitore sarebbe economicamente insostenibile. Inoltre le piattaforme di food-delivery che ormai operano globalmente, garantiscono anche uniformità e fiducia nel servizio, rimborsi per il cliente in casi di disguidi e finanziano i loro costi gravando in minima parte su quest’ultimo, permettendo così la crescita della domanda.

Se i costi di questo servizio non sono a scapito del cliente cosa rende, allora, economicamente possibile l’entrata di un quarto attore,ovvero della piattaforma, nel food-delivery? La risposta è banale: l’estrema  flessibilità del lavoro. Sebbene ogni singolo ristorante finanzi l’adesione al servizio di consegna con un cifra fissa mensile o annuale e con percentuali sul prezzo finale del prodotto, il servizio è economicamente proficuo solo grazie all’abbassamento del costo del lavoro. La piattaforma sembra quindi qualificarsi più come un’agenzia di intermediazione del lavoro, che garantisce bassi costi del servizio proprio perché il lavoratore è autonomo, utilizza mezzi di sua proprietà e risponde in toto e in proprio di eventuali rischi e oneri connessi. 

Già nel 2011 esistevano applicazioni e siti che permettevano al cliente di scegliere un prodotto e di riceverlo a casa entro poche ore ma,  a differenza delle piattaforme di food delivery di oggi, si limitavano a fornire un semplice servizio telematico: il fornitore infatti doveva adoperarsi con i propri mezzi e i propri dipendenti per le consegne. La novità dell’ esternalizzazione completa dei costi di servizio quindi con le piattaforme nate negli Stati Uniti e in Inghilterra che sbarcano nelle città italiane a partire dal 2015: prima Deliveroo (Roofoods Ltd.) poi JustEat (esisteva già in Italia ma nel 2016 inizia a costruire una sua flotta di fattorini) Glovoapp, Foodora (che chiuderà i servizi in Italia nel 2018) e Uber Eats. Nel 2017 il fenomeno esplode e si allarga a macchia d’olio in tutte le principali città italiane, negli anni seguenti arriverà anche nelle province e nei comuni più piccoli. Il lavoro del fattorino del food-delivery, il rider, si diffonde tra vari settori di lavoratori, è un lavoro autonomo a cui è facile accedere perché non sono richieste qualifiche né colloquio. Desta interesse proprio per la facilità di impiego e pertanto rappresenta per stranieri ed autoctoni, con qualsiasi titolo di studio e di qualsiasi età, una forma di integrazione del reddito di facile accesso. 

Dal XVII Rapporto annuale dell’INPS (2018) basato però sui dati forniti dalle stesse aziende (Deliveroo e Foodora) emerge un identikit ben definito del rider: «una collettività giovane, con un elevato turn-over, che considera questa attività come fonte integrativa di reddito per scopi di breve o medio termine». In conseguenza di questa analisi emergono moltissimi articoli di giornale che periodicamente raccontano il mondo dei rider secondo lo stereotipo consolidato dalla narrazione delle stesse piattaforme: i rider sono giovani che integrano il reddito familiare e completano gli studi. Una visione accettabile e tutto sommato positiva di questa forma di lavoro, che permette agli studenti un guadagno e una flessibilità altrimenti impossibili con forme di impiego tradizionali. Una visione che le piattaforme hanno tutto l’interesse a portare avanti proprio perché mette in luce l’innegabile aspetto di opportunità positiva di questi «lavoretti», ma che non rappresenta il variegato e mutevole mondo dei rider.

La gig-economy è davvero un’economia dei lavoretti?

Già nel 2017, al tempo della succitata indagine INPS, sempre secondo i dati di Deliveroo, la maggioranza dei rider indicava questo impiego come fonte principale di guadagno (quasi il 35%) poco al di sotto la quota invece di quelli che lo consideravano un integrazione al reddito o un lavoro da fare durante gli studi. Al momento non ci sono indagini statistiche vere e proprie che riescano a fornirci dati affidabili sul numero di rider in Italia (che nel 2020 si aggirava probabilmente sulle centomila unità di cui sessantamila «stabili» come indicato dalle indagini della procura di Milano emerse nella cronaca a Febbraio 2021) sulla loro composizione, sul loro grado di soddisfazione, sul reddito ricavato, sulle ore di log-in (quindi effettivamente lavorate).

Quello che emerge però da un’analisi qualitativa dei gruppi facebook dei rider di Deliveroo (ovvero quei gruppi da migliaia di aderenti dove i rider socializzano e si riuniscono), è un cambiamento radicale della loro composizione rispetto a quella fotografata dall’Inps nel 2018. Questi gruppi sono il principale mezzo di comunicazione e collaborazione tra lavoratori, alienati dall’intermediazione algoritmica e dalla competizione interpersonale nell’accaparramento degli ordini. Da qui emerge un quadro decisamente più composito. La crescita esponenziale del food-delivery e la sua estensione territoriale tanto nelle province del Sud quanto in quelle del Nord, ha modificato la composizione dei lavoratori: nel 2020 la maggioranza di essi sono proprio adulti (ovvero fuori dai circuiti della formazione e pienamente inseriti in contesti lavorativi) che sfruttano la gig-economy come fonte principale di reddito, importanti sono anche coloro che integrano un lavoro principale con il delivery serale e minoritari numericamente e produttivamente sono gli studenti e i giovanissimi. Difatti con l’estensione del servizio hanno preso sempre più piede i collaboratori che invece della bicicletta, emblema del rider, usano automobili e motoveicoli. Questo cambiamento del mezzo di trasporto permette di aumentare l’efficienza quindi il numero di ordini portati a termine e di conseguenza  il guadagno ma accresce anche la concorrenza e la difficoltà nell’ottenere ordini per chi utilizza le biciclette. In questo senso la competizione orizzontale tra lavoratori autonomi ha spinto il food-delivery su quattro ruote e reso maggioritari i rider adulti fuori dal circuito della formazione, quindi impiegati a tempo pieno, provenienti da altri impieghi o tutt’ora impegnati in altri impieghi e che hanno a disposizione un mezzo a motore di proprietà (realisticamente più difficile per un giovane o giovanissimo). Questi rider che si muovono con automobili o motoveicoli sono probabilmente maggioritari da un punto di vista strettamente numerico ma sicuramente sono più importanti per numero di consegne portate a termine e quindi in termini di produttività.

Se da un lato il lavoro per queste piattaforme è caratterizzato da una libera adesione, difatti non ci sono ripercussioni se ad esempio un rider si rifiuta di prendere un ordine, ed è inoltre liberamente organizzato dal lavoratore (che sceglie da solo quando e se iniziare a lavorare), dall’altro la necessità di ottenere guadagni adeguati al sostentamento individuale o a quello di una famiglia non permette di rifiutare ordini o di essere «reperibili» meno di 6 ore al giorno. In questo lavoro non esiste una paga oraria fissa, ma solo un compenso a cottimo – basato sul singolo ordine portato a termine, calcolato da un algoritmo segreto scelto dalla compagnia che tiene conto dei chilometri fatti – che può andare mediamente dai tre ai nove euro lordi ad ordine. La paga oraria quindi si dovrebbe calcolare dividendo il compenso lordo mensile, dato dalla somma dei guadagni dei singoli ordini portati a termine, per le ore in cui il rider è stato effettivamente online (in attesa di ordini), e sottraendo i costi di carburante, le tasse e altre spese accessorie. La paga si aggira quindi su un cifra volatile che può andare mediamente dai cinque agli otto euro l’ora netti, a seconda del mezzo a disposizione, della zona di consegna e della quantità di ordini che si può portare a termine. Tutto ciò senza contare gli oneri contributivi che può avere una partita iva.

Inoltre, a differenza del lavoro autonomo classicamente inteso, non vi è modo per il fattorino del food-delivery di incrementare i propri guadagni in autonomia, ad esempio cercando nuovi clienti con strategie di marketing; l’intermediazione della piattaforma è l’unica fonte autocratica di clienti. Come sottolinea l’INPS nel suo rapporto: «è sempre l’azienda della gig economy ad intercettare la domanda di beni/servizi e ad organizzarne la gestione» .

Tra lavoro autonomo e lavoro subordinato

Se il lavoro autonomo in Italia si qualifica giuridicamente per l’assenza di un vincolo di subordinazione nei confronti del committente (come riportato dall’articolo 2222 del Codice Civile), se il rider non ha possibilità autonoma di intercettare la domanda, se dipende strettamente dalla piattaforma, se la piattaforma dipende da lui in maniera continuata e se il rider fa affidamento principalmente su questa fonte di guadagno per il suo sostentamento o per quello del suo nucleo familiare, allora il lavoro di food-delivering per le piattaforme presenti in Italia non è né un «lavoretto» né un lavoro autonomo, ma lavoro parasubordinato che richiede tutele e inquadramento contrattuali, come sostiene anche la procura di Milano che in seguito ad un’inchiesta ha indicato ad alcune piattaforme di assumere «60 mila fattorini» come lavoratori parasubordinati.

Le piattaforme di food-delivery sono quindi paradigmatiche perché rappresentano il fenomeno più visibile e d’avanguardia nella creazione di nuovi rapporti di lavoro che dissolvono il rapporto salariale standard. 

Pur trattandosi di un periodo di grande sviluppo per le piattaforme di food-delivery quello che si è avviato con il loro arrivo in Italia non ha visto alcun tipo di miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori in esse impiegati, al contrario sono peggiorate. Lo stipendio che nelle vecchie forme contrattuali di Deliveroo e Glovo era in tutti i vari casi sostenuto da un guadagno minimo orario, dal Novembre 2020 è totalmente calcolato sul cottimo, ovvero sul numero di ordini completati. L’accordo siglato da Ugl, sindacato di minoranza, con le piattaforme riunite in Assodelivery, ha stabilito un nuovo meccanismo di free-login, per cui il singolo lavoratore non sceglie con un minimo di preavviso le ore in cui prestare il suo servizio ma può andare online quando preferisce, entrando in diretta concorrenza con i colleghi e lavorando interamente a cottimo, senza una paga oraria garantita (che prima per Deliveroo si aggirava su sei euro lordi l’ora) e con il rischio quindi di non ricevere ordini e stipendio in conseguenza delle fluttuazioni della domanda. Questo accordo siglato senza nessuna forma di consultazione con i lavoratori è fortemente avversato dai sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil che vorrebbero portare i rider sotto il cappello contrattuale del settore della logistica-trasporti (anche loro senza consultazione dei lavoratori) trasformandoli da lavoratori autonomi a partita iva in lavoratori parasubordinati. La ricetta della trasformazione di queste forme di lavoro in lavoro subordinato è quella che i sindacati, praticamente da sempre, usano per fronteggiare il problema dell’assenza di tutele per i lavoratori autonomi. Tuttavia questa non è l’unica soluzione possibile. La flessibilità, che è apprezzata da molti lavoratori, può essere tutelata diversamente insieme al salario e alle contribuzioni fiscali.  

La situazione italiana dei rider rimane problematica vista la conclamata inefficacia della legislazione attuale nel garantire delle tutele in materia di salario, orario di lavoro, libertà sindacali e diritto di sciopero a questi tipi di lavoratori.Anche il Cnel, non proprio un’istituzione socialista, nel 2018 auspicava un intervento del legislatore o della contrattazione collettiva per riequilibrare la situazione del food-delivery.

Il lavoro subordinato è la soluzione?

Siamo sicuri che la soluzione caldeggiata dai sindacati confederali risponda alle esigenze dei lavoratori del settore? La composizione dei riders è al suo interno molto eterogenea e profondamente divisa. Oggi, da un lato esistono molti lavoratori spesso di cittadinanza italiana che lavorano su tutto il territorio con automobili o motoveicoli e che fanno affidamento su questo lavoro come fonte primaria di reddito, che non partecipano alle varie mobilitazioni a favore di nuovi contratti di subordinazione, che spesso sentono di dover difendere la flessibilità e quindi i loro guadagni, che non sono affatto soddisfatti dalla contrattazione avanzata da Ugl e Assodelivery e che spesso sono ipercritici nei confronti delle aziende. Dall’altro lato esiste invece una composizione minoritaria di rider, anagraficamente più giovani e con una forte presenza di migranti, che si mobilita soprattutto nelle grandi città, che si muove tramite comitati autonomi nati spontaneamente ma che negli ultimi anni si sono fossilizzati sulla cordata Cgil-Cisl-Uil, che vorrebbe vedere il proprio lavoro trasformato in lavoro subordinato. Va da sé che la profonda divisione tra queste diverse compagini di rider rende difficile, se non minoritaria, la mobilitazione per la conquista del contratto di lavoro subordinato.

A tal proposito, esemplare è il caso di JustEat. Il colosso multinazionale ad inizio 2021 ha scelto di recedere dal contratto siglato con Ugl e in tutta Europa ha deciso di assumere i suoi fattorini. Questa innovazione contrattuale ha portato molto malcontento tra i rider della piattaforma, sia perché non sono stati assunti tutti i collaboratori attivi ma solo meno della metà, sia perché la flessibilità rimane una forma del rapporto di lavoro intrisa di   ambivalenza. Se da un lato infatti ha portato enormi problematicità negli ultimi venti anni, dall’altro  viene anche considerata un’opportunità da molti di questi lavoratori.

In conclusione possiamo dire che bisognerebbe evitare due approcci, opposti e complementari. Da un lato quello dei riders non può essere rubricato a mero caso di sfruttamento e miseria, come fa la principale narrazione giornalistica complice la retorica vittimistica dei sindacati. Dall’altro non può essere trattato come una forma di lavoro ideale e scevro da qualsiasi problematica come viene raccontato dalla narrazione ideologica delle aziende. Bisognerebbe invece tenere in forte considerazione il fatto che questa forma di lavoro è apprezzata da molti riders per la libertà nella gestione delle consegne, per la flessibilità dell’orario e talvolta anche per la paga mensile (che in alcune grandi città, dove il mercato del food-delivery è sempre in espansione, è più alta che in molte città di provincia e spesso più alta di tanti lavori tradizionali) senza per questo pensare che nonostante questi apprezzamenti da parte di una larga composizione di rider  non ci sia lo spazio per la  critica, anche dura, e la mobilitazione. I lavoratori delle piattaforme infatti notano perfettamente la disparità tra gli ingenti ricavi delle aziende per cui lavorano e le paghe sempre più basse. Secondo fonti giornalistiche Deliveroo, Glovo e Uber  fatturano solo in Italia: «oltre 100 milioni di euro, ne perdono 12 milioni di euro e lasciano al fisco poco più di 300mila euro» (Business Insider) 

La composizione che si rifà all’autonomia e alla flessibilità come concetti positivi non può essere lasciata a sé stessa e alla stantia divisione tra sindacati di destra e sindacati di sinistra. Soprattutto a fronte della stanchezza delle mobilitazioni «per i diritti», e quindi per la contrattualizzazione sotto il pessimo contratto di logistica-trasporti, non è pensabile bollare come reazionaria la maggior parte dei riders stabili che preferiscono un lavoro formalmente autonomo. Anzi, è fondamentale indagare su questa composizione di ceto medio declassato come punto di forza di nuove mobilitazioni improntate al disconoscimento del sindacato che, come sempre è interessato al mondo dei lavoratori della gig economy solamente al fine di ricondurli sul terreno del lavoro subordinato dove può esercitare il proprio potere contrattuale, ingrossare le fila dei tesserati e aumentare il proprio peso di lobby del lavoro. Pertanto è miopia ideologica pensare che vada necessariamente ricondotto il sano malcontento nei confronti di questo lavoro verso una vertenza che rivendica il lavoro parasubordinato, che di per sé, come tutte le forme di lavoro, non ha nulla di positivo. Si può invece pensare di costruire una mobilitazione che non si accontenti della vertenza sindacale, che sappia catalizzare lo scontento e la rabbia operaia, capace di dialogare con la maggioranza dei lavoratori di questo settore, anche se non del tutto corrispondenti all’idealtipo della soggettività della sinistra movimentista? È possibile estendere a favore dei rider gli aspetti positivi della flessibilità?


ULTERIORI APPROFONDIMENTI SU MALANOVA:

1) 28 settembre 2020 – RIDERS: LA QUESTIONE DEL CONTRATTO NAZIONALE DI UGL

2) 16 gennaio 2021 – IN MORTE DI UN RIDER

3) 25 marzo 2021 – RIDER X I DIRITTI: SCIOPERO NAZIONALE IL 26 MARZO

4) 30 marzo 2021 – I RIDERS DI JUST EAT HANNO UN CONTRATTO

Print Friendly, PDF & Email

15 thoughts on “I RIDERS VOGLIONO IL CONTRATTO?

  1. Pingback: gambling debt
  2. Pingback: cialis 5 mg
  3. Pingback: slot machines usa
  4. Pingback: 5mg cialis
  5. Pingback: cigna.com
  6. Pingback: lady viagra tablet

Comments are closed.