ELEZIONI. IL LATO SINISTRO DELLA CALABRIA

Viviamo in una strana democrazia. Il potere che la costituzione mette in mano al popolo dipende da un meccanismo particolare chiamato elezioni. Chi accumula più schede vince. L’elemento fondamentale che ricerca l’analista medio per catalogare una comunità come democratica o totalitaria è proprio quello della pratica elettorale e il numero di partiti che partecipano. Ci sono le elezioni? Paese democratico. Non ci sono? Dittatura. Quanti partiti esistono? Uno? Dittatura. Cento? Sicuramente democrazia.

Prendiamo il caso della città di Cosenza. Alle prossime elezioni – si afferma in un recente articolo – ci saranno 8 candidati per la carica di sindaco sostenuti da 29 liste elettorali: gli aventi diritto al voto nel comune di Cosenza sono 56.830. Coloro i quali hanno depositato la loro candidatura, invece, all’incirca 850. Dando per buoni tutti gli aspiranti consiglieri, si può affermare che la città ne abbia espresso uno ogni 67 cittadini ammessi alle urne. Il dato è molto singolare e lascerebbe ipotizzare una vivacità politica non indifferente.

Oltre a quelle dei partiti canonici, si notano nuove candidature provenienti dal “popolo”, alcune delle quali famose per le dirette facebook di denuncia fatte in giro per la città. L’outsider Civitelli, ad esempio, alla prima candidatura a Sindaco si presenta forte del sostegno di cinque liste dai “nomi civici” (Costruiamo il futuro, Su la testa, Un fiore per Cosenza, Civitelli Sindaco, Giovani con Civitelli Sindaco) piene di cittadini per lo più alla prima esperienza elettorale. Ascoltando la consueta tribuna elettorale del Tgr Calabria attraverso una candidata “inedita” abbiamo appreso un programma razionale per la città fatto di recupero delle strade malandate, incremento della raccolta della spazzatura e risoluzione del malfunzionamento degli impianti idrici. Il vero dramma, affermava, è che i cittadini sono stati “privatizzati dei servizi”. Il termine utilizzato dalla candidata, sbeffeggiata dai più qualche istante dopo la diretta, inconsapevolmente ha reso l’idea di fondo dell’effetto delle privatizzazioni, quello, appunto, di privare i cittadini di un bene pubblico.

Il primo dramma che si evidenzia è un mal compreso senso della democrazia che vuole che “uno valga uno” o meglio che “uno valga l’altro”! Ci mancherebbe: ogni uomo e ogni donna sono uguali per dignità e diritti. Ogni uomo e ogni donna hanno diritto di parola. Ma quando c’è da progettare un ponte serve un ingegnere, quando c’è da redigere un bilancio ci vuole un economista e quando c’è da costruire un muro ci vuole un muratore. Questa è la tecnica, il sapere scientifico, ovviamente. Politica è decidere insieme se quel ponte, quel muro o la scrittura del bilancio siano utili alla comunità. Ancora più precisamente, il politico dovrebbe essere colui che nelle condizioni date immagina un percorso alternativo affinché tutti stiano meglio. E qui la cosa si complica! Nel momento attuale (ma forse è stato sempre così salvo rare eccezioni) non ci si candida perché si ha un fuoco sacro, per mettersi al servizio della comunità, per realizzare un’idea nuova di società. Non siamo nemmeno nel momento storico delle grandi ideologie che opponevano visioni politiche ed economiche alternative e vedevano lo scontro tra comunisti, fascisti, socialisti o democristiani. Oggi la politica è implosa a mera amministrazione, a mera tecnica governativa. Non esistono visioni politiche ed economiche nettamente e radicalmente differenti tra gli schieramenti. Quale frattura tra le posizioni di Renzi e Berlusconi? Quale discontinuità tra le posizioni di Letta e quelle di Draghi? Ci sono ottiche più sociali o più mercatali, c’è chi prova a introdurre correttivi con il reddito di cittadinanza per alleviare la povertà di tante famiglie o chi demanda tutto al mercato e che i fannulloni si arrangino da soli, ma tutto rimane chiuso in uno stesso paradigma che fa dei soldi, del mercato e della proprietà privata dei totem indistruttibili e immarcescibili. 

Ritorniamo più rasoterra: oggi ci si candida per una malcelata voglia di riconoscimento e di poltrona o, più semplicemente (forse la più nobile tra queste motivazioni), per trovare un posto di lavoro sicuro e ben retribuito. Per fare questo è sufficiente accumulare più crocette rispetto all’avversario. Proprio qui si corrobora il nostro assunto di una democrazia occidentale sostanzialmente farlocca e utilizzata come specchietto per le allodole per le semplici anime dei sinistri. Fare collezione di crocette nella situazione data (tra l’altro, ignorata dai più) diventa un’impresa sempre più difficile per il sognatore, possessore del fuoco della politica, che magari partecipa solo per fare la “rivoluzione”. 

Sì, diventa difficile, perché se sei un medico condotto sempre gentile e sempre disposto a prescrivere farmaci, a fare visite magari anche domiciliari e a indulgere alle esigenze, anche inesistenti, di certificati di malattia, rischi di superare i cinquecento voti anche in piccoli borghi. Se sei un grande imprenditore, stimato, con un fatturato importante e, proprio durante la campagna elettorale, ti metti a fare le selezioni, capita che un’orda di disoccupati (facile quaggiù in Calabria) ceda alle lusinghe e ti prometta il voto. Stessa cosa vale per i collaboratori che già hai assunto, meglio se precari. Basta che indichi il cavallo di razza su cui scommettere perché ti ha promesso, una volta eletto, una commessa importante, oppure la vittoria del bando per la gestione dei rifiuti o dell’acqua o della riscossione dei tributi. Il precario che ha davanti a sé la promessa di altri cinque anni di stipendio con cui far campare la famiglia sarà ovviamente fedelissimo nel segreto delle urne. La rivoluzione non si mangia! La falce e martello può aspettare. Occorre il soviet, certo, ma anche l’elettrificazione.

Basta vedere i nomi che ricorrono di elezione in elezione, comune per comune, per comprendere come questa prassi sia diventata sistemica.

Eppure, ancora oggi, nonostante le prove irrefutabili, qualche buontempone sinistro crede ancora che basti riesumare una falce e martello, pubblicare il proprio casellario giudiziale, proclamarsi onesti, dunque, per sperare nella conquista del potere. Oppure fare i nomi di corrotti e corruttori nel tentativo di svegliare agilmente le coscienze del popolo, a questo punto pronto a infiammarsi al nuovo ottobre.

Ma supponiamo che sia pure così. Una squadra di giovani antagonisti inossidabili e assolutamente onesti, una candidata a sindaco o un presidente di regione rivoluzionario e indefesso. Poniamo il caso, addirittura, di un premier alternativo candidato in uno Stato sovrano e che ce la fa, viene eletto. La storia abilita lo scherzo e il vento lo sospinge. Be’, anche qui abbiamo grandi esempi di come la “democrazia” occidentale sappia funzionare bene. Eleggi un manipolo di ragazzotti inediti e assolutamente onesti. Falli guidare da un leader nuovo, tranquillo, per bene e dalle mani pulite. Mettili al governo per un po’, giusto il tempo per smobilitare il malcontento che monta ma, quando arrivano i soldoni post-pandemici, in un giorno e una notte, fai cadere il governo e metti al suo posto il maggior euroburocrate che l’attualità ci possa consegnare, un “drago” dell’amministrazione, un genio delle banche, uno su cui puoi contare veramente e che di certo non farà colpi di testa. Il tutto con il consenso dei voti e del sostegno di quegli stessi ragazzotti inediti e assolutamente onesti.

Stessa cosa nell’occidentalissima Grecia. Prima consenti agli “alternativi” di acquisire il potere in un paese allo sbando anche per dimostrare plasticamente che la democrazia funziona. Il sistema regge, è credibile. Dopo un po’, ovviamente, mandi la Troika a chiedere il conto e a stabilire il percorso lacrime e sangue per aggiustare i conti pubblici. Neanche un partito conservatore avrebbe gestito meglio la fase e seguito le istruzioni provenienti dall’alto.

Metti, ancora, che la rivoluzionaria diventi sindaca. Si siede sulla poltrona, guarda i conti, prende atto del disavanzo e dei tagli agli enti locali, spera nei fondi europei già programmati; senza grande potere di spesa, deve limitarsi all’ordinaria amministrazione. Non ha rubato certo, ha bene amministrato forse, ha decorato le aule del palazzo con grandi drappi rossi, ha fatto foto a pugno chiuso, ma comunque rimangono le buche nelle strade, i debiti in bilancio, non viene raccolta la spazzatura e manca l’acqua corrente nelle case. Allora cosa succede? Avanti un altro che, con il bilancio risanato dal “governo dei responsabili”, ora avrà margine di spesa!

Non è così semplice, purtroppo. Non basta mettere una croce su una scheda per prendere il potere e fare la rivoluzione. Intanto, occorrerebbe un soggetto, un movimento, uno straccio di partito del terzo millennio (sicuramente in base alle esigenze tattiche della fase) che sia capace di anticipare le mosse del nemico, concorde sul grande imbroglio del sistema democratico occidentale, capace di smascherare i suoi epigoni. Ma, si sa, la costruzione di una soggettività non avviene a tavolino: è un processo, mai del tutto dato, dove la controparte padronale gioca un ruolo attivo. Un processo, però, che non può non avvenire dentro il conflitto e attraversando i processi sociali reali. Solo così, quando diverrà qualitativamente, ancor prima che quantitativamente, massa, potrebbe avere una qualche speranza di eccedere e travolgere la realtà per trasformarla.

Per quanto possano essere oneste le speranze del lato sinistro della storia, qui in Calabria, risulteranno vane se si basano sulla perenne depressione e non su un lavoro politico capillare e permanente che, dentro la materialità della vita e dei processi, diventa capace di generare consenso a una visione del mondo, a un affresco di vita futura possibile proprio perché radicalmente alternativa.

La redazione di Malanova

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