È appena uscito per i tipi di DeriveApprodi un lavoro, sintetico ma accattivante, che propone alcune considerazioni non secondarie intorno al rapporto tra psicoanalisi e militanza (C. Cavallari, Pensare l’abisso. Jacques Lacan e la sovversione del soggetto, Roma, DeriveApprodi, 2021). A scriverlo è stato Claudio Cavallari, già autore di un buon libro sulla produzione discorsiva del soggetto a partire da Foucault e Lacan (Id., Foucault con Lacan, Giulianova, Galaad, 2019, in una certa continuità con M. Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo, Milano, Mimesis, 2012). La sfida, accolta all’interno della bella collana di formazione politica intitolata Input e diretta da Gigi Roggero, non è di poco conto, ma riteniamo che possa considerarsi vinta, anche in ragione della sensibilità e della chiarezza con le quali lo studioso si accosta a un rapporto tutt’altro che scontato e, di certo, destinato a lasciare diversi interrogativi, ma anche qualche risposta. Prendendone in considerazione alcune, ci si accorge, alla fine, che chiedersi se esista una disposizione psicoanalitica alla rivoluzione sia, già di per sé, una buona cosa.

Anche Lacan, come seguendo un percorso differente aveva fatto Debord, individua nel concetto di deriva un orizzonte, una possibilità, una messa alla prova, un’apertura all’aleatorietà del dire situata al limite del simbolico che, poi, è là dove si colloca il reale. In contrapposizione al discorso del capitalista, bisogna aprire questa faglia di insignificabilità (dove gorgoglia l’insignificanza) che consente di permanere in una dimensione di progressiva presa di coscienza che, però, non perviene mai a una verità ultima, piena. Lo spazio politico sarebbe in questa assoluta contingenza del soggetto, nella relazione del soggetto col suo continuo accadere. Infatti, l’inconscio stesso non è qualcosa di interno; piuttosto, è qualcosa di esterno che sta all’interno (extimité per Lacan), qualcosa in atto che si fa adesso, in quel presente che racchiude il senso della sua rimozione.

L’inconscio ha, dunque, a che fare con l’Altro in un rapporto di assoggettamento. Questo Altro è esteriorità, causa, ferita. L’Altro, cioè, è il modo di articolazione del linguaggio ed è soggetto a variazioni che vanno interrogate, analizzate. Per il discorso del capitalista ci deve essere godimento ma, se non godi, la colpa non è che tua, perché non può esserci colpa in una condizione che offre così tante possibilità di godere. Il soggetto, «incastrato nel fantasma di una libertà di godere senza limitazioni, si trova alla fine dei conti a sussistere come un mero e insignificante supporto del godimento dell’Altro» (p. 44). Allora, per fronteggiare il discorso del capitalista si ha bisogno di una traccia, di un sintomo che intimamente dia la sveglia, di una tensione, di un godimento che non può essere contabilizzato, commercializzato, ma che c’è, che sia intimamente nostro.

Insistere sull’impossibile, su una mancanza, su uno spazio che consenta un godere in comune con gli altri è una traccia che può rivelarsi degna di essere seguita. Per far ciò, è fondamentale alleggerire il potere che l’Altro ha su di noi. Quando il sintomo tende ad alleggerirsi, si apre la contingenza, lo schermo al quale noi siamo assoggettati. Cosa si può fare una volta che si è di fronte a questa apertura? Il desiderio si smarrisce, ma si schiude al potenziale dell’atto individuale e collettivo a un tempo, di un atto che, anzi, è possibile solo nella misura in cui è collettivo: «l’uscita dal discorso capitalistico − dice, infatti, Lacan − non costituirà un progresso se riguarderà solo alcuni» (p. 92). Bisogna essere fedeli, e non cedere, al proprio desiderio. Questo è, di fatto, un desiderio di desiderio, un aprirsi a quel luogo in cui riappropriarsi del godimento, ricrearlo: è questo il luogo della trasformatività, della critica, della militanza, dell’autonomia e, a un tempo, dell’impegno. Se si rinuncia a far abitare la propria vita da quella forza, si permane nella nevrosi, nell’egocrazia, nel narcisismo. Mettere a nudo la compiacenza al discorso del padrone, ossia l’inganno del godimento, è un atto di militanza fondamentale che consente di andare al di là della mistificazione capitalistica che ci induce a insistere sul governo del nostro desiderio.

All’interno dell’imbroglio capitalistico da che cosa è mosso il soggetto? Ovviamente dall’oggetto, dalla merce spendibile e da spostare velocemente da una parte all’altra che fa del soggetto, a sua volta, un oggetto. Per sottrarre il soggetto a questa performatività (non c’è guarigione perché, come detto, non c’è una verità ultima; insomma, non è capendo che si guarisce) è necessaria una spinta dinamica, dissipatoria che, mediante l’infinita deriva dell’analisi del sintomo e quindi della sofferenza che rivela il soggetto (ossia della pressante domanda di soggettivazione che scorre in esso), rigetti il limite imposto al godimento, il circolo vizioso allestito intorno al godimento segmentato e accumulato proprio del capitale. La forza esercitata dal desiderio di sapere può essere rivoluzionaria? Cavallari, sulla scorta di Lacan, risponde di sì, «a patto che urti uno scoglio, un punto cieco di indefinizione capace di farl[a] mulinare senza battute d’arresto, e a patto che in questo riconosca la sua vocazione come comune» (p. 27). L’incompiutezza del processo di risoggettivazione diventa così potenza e guarda avanti, svincolando il desiderio dalle brame dell’oggetto-merce, ossia sottraendo la vita dall’essere al servizio dei beni, vera e propria aberrazione etica. In questo sapere è necessario farvi entrare l’altro (che, come detto, al pari del soggetto è radicalmente incompleto), evitando di farne un uso edonistico e privato.

La redazione di Malanova

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