In una nostra recente analisi sulla Società dello spettacolo di Debord  ponevamo la necessità di sabotare la micidiale macchina di verità e di tempo costruita dal potere spettacolare integrato. In particolare evidenziavamo l’urgenza di un corpo rivoluzionario espressione di una risoggettivazione dentro i luoghi della comunità.

I soggetti della comunità – intesi nella loro eterogeneità sociale e di classe e dunque non come categoria sociologica omogenea – sono permanentemente assoggettati, seppur in diversa misura, a forme e dispositivi di potere che hanno come obiettivo la costruzione di un modello con aspirazioni maggioritarie di comportamenti, di valori, di forme di vita e di senso. L’esposizione a questi dispositivi ha permesso una progressiva omogeneizzazione e standardizzazione dei comportamenti sociali, degli stili di vita oltre ad aver prodotto un moto disgregativo il cui risultato è stato la centralità (apparente) dell’individuo isolato. Non più dunque l’autonomia dell’individuo dentro una dinamica comunitaria o di società ma, paradossalmente, l’isolamento come forma permanente delle relazioni sociali. Nel passare dalle società disciplinari alle società del controllo, afferma Deleuze, non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo, per cui i dispositivi del potere producono simultaneamente effetti massificanti e individualizzanti, ma ci troviamo di fronte a dispositivi che attivano un progressivo impoverimento della soggettività: «gli individui sono diventati dei “dividuali”, e le masse dei “campioni”, dei “dati”, dei mercati o delle banche»[1]. 

Max Weber afferma che una una relazione sociale diventa comunità se «poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad essa partecipano»[2]. Il concetto weberiano di comunità non è fondato su un generico valore di condivisione ma viene incardinato attraverso un senso di appartenenza definito attraverso la coscienza dell’individuo e dove le relazioni sociali diventano comunità se e nella misura in cui la disposizione dell’agire sociale poggia su una comune appartenenza soggettivamente sentita dagli individui che a essa partecipano.

La comunità dunque possiamo immaginarla come un coagulo di attori sociali weberiani  che soggettivamente ne percepiscono l’appartenenza e che attraverso la personale predisposizione all’agire «condividono aspetti significativi della propria esistenza e che, per questa ragione, sono in un rapporto di interdipendenza, possono sviluppare un senso di appartenenza e possono intrattenere tra loro relazioni fiduciarie. Diversi soggetti, quindi, possono essere considerati una comunità perché condividono ad esempio, uno o diversi aspetti quali il territorio, il tetto, le radici, la storia, un progetto, la razza, la religione, la cultura, i valori, la lingua, le risorse, i problemi, i bisogni, l’organizzazione sociale, gli hobbies, i nemici»[3]. 

Nell’analizzare il concetto di comunità però, Max Weber pone l’accento su un ulteriore aspetto che la caratterizza e cioè il forte legame che intercorre con il fatto economico: «anche un agire comunitario che non rappresenti né le comunità economiche né le comunità econome può però nella sua genesi, nella sua durata, nella modalità della sua struttura e del suo svolgimento, essere condeterminato da cause economiche, che risalgono cioè al fatto economico, e in questa misura è economicamente determinato»[4].

L’integrazione degli individui nel sistema comunitario ha come elemento fondante la soddisfazione dei bisogni intesa come possibilità concreta che gli individui trovino all’interno della propria comunità, in ragione di un certo qual senso di appartenenza. La consapevolezza di poter soddisfare i bisogni materiali e immateriali all’interno della comunità agisce da catalizzatore della coesione sociale nella misura in cui i membri acquisiscono uno status all’interno del gruppo in funzione di competenze e capacità, da una parte, e dal vedersi assicurata la soddisfazione dei propri bisogni, dall’altra. Quando la soddisfazione dei bisogni individuali passa anche attraverso la soddisfazione di quelli collettivi, avviene un ulteriore passaggio consolidante: si rafforza il senso dell’appartenenza perché il processo solidaristico è fondato sul riconoscimento dell’interdipendenza tra i processi individuali e quelli collettivi.

Una centralità da non sottovalutare, quella del soddisfacimento dei propri bisogni che va necessariamente ancorata alle singole condizioni materiali che, in alcuni casi, possono non permetterne la sussistenza dignitosa: lo spopolamento, soprattutto al sud, dei piccoli centri abitati ha quasi sempre una chiara matrice economica e la migrazione che ne consegue diventa motore disgregante della comunità.

Ad ogni modo, nell’ottica weberiana di comunità, i singoli, gli individui dunque, assumono una centralità fondamentale, poiché da essi è pretesa la massima partecipazione alla vita comunitaria. Sintetizzando potremmo dire che senza attori sociali e partecipazione non è data comunità. Partecipazione che va assunta come processo e non come evento puntuale e occasionale. Non si tratta del risultato di un’azione che può essere definita una volta per tutte, dunque immutabile nel tempo, ma piuttosto va intesa come un meccanismo dell’agire collettivo in divenire, soggetto all’influenza costante non soltanto di variabili sociali, economiche e ambientali interne, ma anche esterne ed estranee alle logiche della comunità. 

I processi attraverso i quali gli individui si identificano in una comunità ne costituiscono il senso stesso attraverso la «percezione di similarità con altri, una riconosciuta interdipendenza, una disponibilità a mantenere tale interdipendenza offrendo o facendo per altri ciò che ci si aspetta da loro, la sensazione di appartenere a una struttura pienamente stabile e affidabile»[5]. 

Ci stiamo addentrando su un piano complesso e per molti aspetti ambivalente, che è quello delle componenti psicologiche del senso di comunità: il senso del confine che favorisce i processi di identificazione attraverso la definizione di chi fa parte e di chi è escluso dalla comunità; un sistema di simboli ampiamente condiviso che consolida i confini rispetto all’esterno e rafforza la coesione interna della comunità; il senso di sicurezza emotiva e materiale indotto da legami significativi con le persone e con il territorio; l’influenza e il potere, cioè l’apporto – materiale e immateriale – che si dà alla comunità in un rapporto circolare[6].

L’idea di influenza, in particolare, attiene alla possibilità del singolo di partecipare e dare il proprio contributo alla vita della comunità in un rapporto circolare. Questo significa che la comunità che attrae l’individuo a sé sarà poi quella in cui egli avrà la possibilità di esercitare influenza e potere. L’idea di influenza rimanda immediatamente al contributo soggettivo in forme d’azione e di partecipazione collettive, spontanee o organizzate, ma rimanda anche alla possibilità di esercitare un controllo sull’ambiente comunitario intesa come capacità di modificarlo e migliorarlo, ma anche come esercizio negativo degli interessi particolari.

Alcuni fattori  importanti nell’identificazione del senso di comunità sono immediatamente riconducibili alla qualità e alla frequenza dei legami sociali, necessari a riconoscere e condividere una storia comune. Questo riconoscersi può esprimere in potenza una capacità collettiva come quella, ad esempio, di affrontare situazioni improvvise e critiche (calamità naturali, crisi economiche, emergenze sanitarie, ecc.) e va intesa come risultante di una moltitudine di eventi che hanno attraversato la comunità e che sono diventati significativi per la collettività stessa, nella misura in cui sono stati condivisi e fatti propri dai singoli individui.

A questa risultante concorrono alcune categorie antropologiche che riportiamo sinteticamente e che, a nostro avviso, meriterebbero una trattazione a sé stante, molte delle quali ampiamente analizzate da Ernesto De Martino: la nascita, la morte, la perdita, il lutto; il significato collettivo al dolore; la festa; la partecipazione ai processi di cura e guarigione; la presenza di una mitologia locale, la religiosità, la produzioni artistica e quella culturale, ecc. Spesso molte di queste categorie vengono idealizzate sia internamente che esternamente alla comunità, ma questo processo di idealizzazione rappresenta, secondo gli psicologi della Gestalt, un’espressione di desiderio che ci parla di tutti quei bisogni che rimangono presenti e insoddisfatti, in ciascuno degli individui. La comunità fa leva su un’identità collettiva specifica, sulla condivisione di norme e valori, sulla sfera del mutuo aiuto e della solidarietà diffusa. Elementi che divergono dal modo di stare insieme degli individui nella “società” che fa leva invece sullo spazio di autonomia di ogni singolo individuo, necessario per emanciparsi dal gruppo.

L’altra faccia della comunità possiamo individuarla nel legame comunitario che può essere soffocante là dove il controllo sociale diventa distruttivo nei confronti di chi viene percepito come un corpo estraneo rispetto al sistema di valori di riferimento dell’enclosure. Di contro, il concetto di società è permeato da relazioni artificiali tra individui e tra questi e le istituzioni.

Rispetto alle identità culturali, che abbiamo visto essere caratterizzante il legame comunitario,  Felix Guattari e Gilles Deleuze provano a metterci in guardia rispetto al concetto del “riconoscimento”: «I concetti di cultura e di identità culturale sono profondamente reazionari […] ogni volta che appare un problema di identità o di riconoscimento siamo, come minimo, di fronte a una minaccia di blocco o a una paralisi del processo rivoluzionario»[7]. La lotta dialettica per il riconoscimento delle identità, se non intesa come tattica necessaria dentro un processo di liberazione, rischia di essere integrata e subordinata al comando capitalistico.

La struttura sociale ideale potrebbe essere quella che pone su un piano dialettico le due forme, quella comunitaria e quella della società. Questa dialettica permanente permetterebbe una forma di solidarietà più ampia rispetto a quella identitaria della comunità perché integrerebbe, senza idealizzarli, gli elementi caratterizzanti la comunità stessa, come il riconoscimento, la protezione, il senso di sicurezza e l’accoglienza, con quelli direttamente riconducibili alla sfera della società come, ad esempio, la valorizzazione delle diversità, un maggiore senso di libertà individuale o il diritto di poter scegliere se rimanere, allontanarsi o addirittura prendere le distanze dalla comunità quando lo si ritiene necessario.

Ritorniamo alla necessità, posta all’inizio di questo intervento, di una soggettività rivoluzionaria che si formi nella comunità come luogo di un nuovo istinto di solidarietà. Su questo aspetto bisogna porre urgentemente l’attenzione perché oggi sappiamo che «il capitalismo non si accontenta più di un processo di sussunzione reale, non usa più il rapporto di lavoro/sfruttamento come il rapporto fondamentale per governare il mondo, la sua ambizione ormai è molto più alta ed è quella di modificare il nostro corredo genetico, la nostra struttura emotiva, i nostri istinti, il target non è la nostra produttività ma il nostro cervello. Toglierci la libido, per esempio. Quanto degli esseri umani privi di libido, quanto un’umanità dove l’inseminazione è tutta artificiale possa essere funzionale a una produttività del futuro non lo sappiamo, possiamo solo dire che un legame tra le due cose è plausibile. Mi viene in mente questa faccenda della libido se penso a quello che a me pare si possa ancora definire “l’istinto di solidarietà”, la componente direi biologica dei movimenti di rivendicazione collettiva. Proprio osservando il lavoro autonomo mi è sembrato di notare che l’assenza di un istinto di solidarietà, di una pulsione alla coalizione – che per esempio la mia generazione ha sempre avuto fortissima – stia veramente scomparendo nella percezione di molte persone, dove l’individualizzazione, cioè il comportamento determinato dalla convinzione che solo la soluzione individuale dei problemi è quella praticabile, sembra essere un modo di essere del tutto naturale, spontaneo, primigenio, mentre il passaggio alla coalizione comporta uno sforzo, una coercizione, quasi fosse una gabbia e non uno strumento di maggior potere e dunque di maggiore libertà. È un fenomeno generazionale, lo si vede a occhio nudo, e poco o nulla ha a che fare con visioni ideologico-politiche, è il prodotto di generazioni sottoposte alla modifica del corredo genetico della specie»[8].

Se i luoghi di costruzione di questo istinto di solidarietà (le fabbriche, le scuole e, in generale, i luoghi tradizionali della produzione) entrano in crisi proprio perché non è soltanto attraverso il rapporto lavoro/sfruttamento che il capitale vuole governare il mondo, allora dove è possibile ripensarlo e ricostruirlo questo nuovo istinto di solidarietà?

Una domanda complessa la cui risposta non può essere univoca proprio in virtù delle ambivalenze contenute nel senso di comunità e società, ma una strada che pensiamo possa essere utile battere è quella di individuare alcuni elementi che caratterizzano la comunità – la solidarietà, il mutuo appoggio, la consapevolezza di sé – il cui recupero, una volta svincolati dagli ingranaggi neo-identitari tanto alla moda anche nelle riflessioni dell’intellighenzia accademica di sinistra, può agire da antidoto agli effetti alienanti del capitale. Interrogarsi, quindi, su come favorirne un nuovo e reale radicamento, come favorire nei singoli e nei gruppi la disponibilità a spendersi per la comunità prospettandone un orizzonte antisistemico, contrapponendo al banale senso dei luoghi una potente coscienza comunitaria perché, senza alcun dubbio, sono le soggettività coscienti che abitano i luoghi che possono dar loro un senso.

La redazione di Malanova


Note

[1] G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo [1990], in Id., Pourparler, trad. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 237.

[2] M. Weber, Economia e società, vol. I, Edizioni di comunità, Milano 1961, p. 38.

[3] A. Torti, E.R. Martini, Fare lavoro di comunità, Carocci, Roma 2003, p. 13.

[4] M. Weber, Economia e società cit., p. 14.

[5] S.B. Sarason, The psychological sense of community: Prospects for a community psychology,  Jossey-Bass Publishers, San Francisco, 1974.

[6] D.W. McMillan, D.M. Chavis, Sense of community: a definition and theory, «Journal of Community Psychology», 1986.

[7] F. Guattari, G. Deleuze, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996.

[8] S. Bologna, postfazione a Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano 2021, pp. 171-172.

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