CAPITALISMO, ECOLOGIA E SPETTACOLARE INTEGRATO

Guy Debord nella Società dello spettacolo, la sua opera più nota, pubblicata nel 1967 e premonitrice per molti versi della realtà postmoderna, aveva inizialmente spiegato come il potere spettacolare si presentasse in due forme successive e rivali. La forma concentrata si era affermata nei regimi nazisti e stalinisti come controrivoluzione totalitaria che persuadesse i lavoratori a credere che l’ideologia del salvatore della patria fosse l’unica scelta possibile. La forma diffusa, invece, era frutto dello stile di vita consumistico americano e aveva indotto a credere che la libertà risiedesse interamente nella possibilità di scegliere entro la grande varietà di nuove merci.

Circa venti anni dopo, nei Commentari sulla società dello spettacolo, Debord è costretto a notare come il potere spettacolare si sia, col passare del tempo, integrato, avendo sussunto le forme precedenti. Questo stadio dello spettacolare ha cinque caratteristiche principali: il continuo rinnovamento tecnologico, la fusione economico-statale, il segreto generalizzato, il falso indiscutibile e un eterno presente. Non esiste più nulla al di fuori della rappresentazione falsificata della vita che esso propone: «lo spettacolo si è mischiato a ogni realtà irradiandola». In questo nuovo contesto ogni critica risulta inammissibile: «Lo spettacolare integrato non vuole essere criticato, e, d’altronde, gli individui vengono educati per evitare che questo accada». Critica che, sin dagli scritti degli anni Cinquanta dello scrittore e cineasta francese, deve fondarsi sull’investigazione territoriale e sullo studio psicogeografico delle condizioni abituali di vita, al fine di provocare, a quell’altezza soltanto in ambito artistico ma poi anche sull’organizzazione degli ambienti e sul modo antifunzionalista di appropriarsi dello spazio, una sorta di détournement, di deriva. Questo concetto raggiungerà la sua piena maturità a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, contribuendo a partorire un’idea più ampia di ecologia che vada ben oltre la mera concezione statica dell’ambiente naturale e sociale, mirando piuttosto, mediante il suo effetto spaesante, a trasformarlo e non certo, come vorrebbero altre accezioni di spaesamento, a rievocarlo nostalgicamente. L’ecologia, per il tramite di pratiche psicogeografiche in grado di realizzare nuove possibilità di vita, riesce così a estendere il concetto di alienazione capitalistica anche fuori dall’ambito dei rapporti di produzione, fino a toccare il compimento e il mancato compimento delle relazioni umane.

Per sondare il modo in cui si vive e quanto si è soddisfatti del proprio quotidiano non sono dunque necessari esperti politici, scienziati, artisti o intellettuali che censurano la profondità delle rivendicazioni rappresentadole per frammenti specializzati, alienati, separati per l’appunto dalla vera vita. La separazione tra vita e non-vita si riduce sempre più e ciò induce il potere a dissimulare la malattia e tutte le sue cause e a cercare forme di compromesso con chi non detiene il potere affinché la questione ecologica non si trasformi in questione sociale e, quindi, in rivoluzione.

Da tempo, noi occidentali siamo colonizzati dal degrado spettacolare, non siamo più niente, dice Debord già in uno scritto del 1985, considerando questo stato di sottomissione permanente nel quale non pensiamo neanche più e abbiamo smesso di interrogare e di tentare di migliorare il mondo alla stregua di una malattia incurabile, una strada buia e priva di uscita. Eppure, partendo da una posizione di totale decadimento, quali sono i margini ancora utili per sabotare questa micidiale macchina di verità e di tempo? In assenza di una comunità nella quale possa aver luogo un dibattito sulle verità che si affranchi dalla presenza opprimente del discorso proposto dalle varie forze di dominio, il fronte, se ancora esiste, non può che essersi spostato in quel luogo svuotato ormai di tutto, dove dovrebbe formarsi, ma non lo fa, la soggettività rivoluzionaria.

La redazione di Malanova

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