di Sandra BERARDI*
A differenza che in altri paesi europei e nel resto del mondo, in Italia manca un dibattito che metta in discussione il carcere come soluzione ai problemi che intende correggere e inizi a vederlo per quello che è: una parte del problema. La discussione sull’abolizione del sistema carcerario attualmente è marginale; limitata ad alcune componenti di movimento, stenta a diventare occasione di riflessione collettiva.
Per alcune organizzazioni che di carcere si occupano assiduamente, dibattito e azioni restano avvitate su posizioni riformiste, migliorative delle condizioni strutturali degli istituti di pena o, al massimo, riduzioniste. In ogni caso sono posizioni che riconoscono ancora la necessità di un sistema penale e sanzionatorio che prevedono la detenzione e la limitazione della libertà (anche attraverso forme alternative di pena) come unici meccanismi di difesa della collettività dall’umanità deviante. Negli ultimi anni sono state avanzate alcune proposte che vanno in direzione abolizionista: una fa riferimento al manifesto no prison, scritto da Pavarini e Ferrari per la creazione di un movimento abolizionista; l’altro tentativo è partito da alcune realtà come Osservatorio Repressione, Yairaiha, Bianca Guidetti Serra, Lasciatecientrare, Legal Team, Giuristi Democratici, alcuni componenti No Tav e di Rifondazione Comunista e altri, per la creazione di un movimento antipenale che metta in discussione non solo il carcere ma l’intero sistema penale e repressivo.
Eppure, per aprire un efficace dibattito abolizionista, non sarebbe necessario andare a pescare tra le pur eccellenti analisi e teorie d’oltreoceano, basterebbe andare a rileggere le analisi e le tesi, attualissime, con cui Franco Basaglia riuscì a mettere in discussione la funzione delle istituzioni manicomiali: “il manicomio, istituto terapeutico e di controllo, di riabilitazione e di segregazione, dove il consenso del controllato e del segregato è ottenuto a priori attraverso la mistificazione della terapia e della riabilitazione. In questo settore, in cui siamo direttamente impegnati, la distanza fra l’ideologia (“l’ospedale è un istituto di cura”) e la pratica (“l’ospedale è un luogo di segregazione e di violenza”) è evidente”.[1]
Basta sostituire la parola manicomio con la parola carcere per ritrovare la stessa distanza tra l’ideologia (rieducazione) e la pratica (segregazione) dell’istituzione carceraria.
Ed è insistendo sulla contraddizione tra il ruolo scientifico e quello sociale dei manicomi, mettendolo in relazione alla funzione dei “tecnici” – in tal caso gli psichiatri – che Basaglia riesce a mettere a nudo la vera funzione delle istituzioni manicomiali, ovvero eliminare dal corpo sociale borghese e produttivo quell’umanità non necessaria alla produzione e sgradevole alle classi dominanti.
Evidente simmetria la ritroviamo tra le classi sociali che compongono la popolazione carceraria e i destinatari delle misure di contenzione manicomiale: “Inoltre, la classe di appartenenza degli internati contrasta esplicitamente con l’universalità della funzione dell’internamento ospedaliero: il manicomio non è l’ospedale per chi soffre di disturbi mentali, ma il luogo di contenimento di certe devianze di comportamento degli appartenenti alla classe subalterna”.[2]
Un esercito di diseredati sociali, di “assoggettati abituali” come li definisce Bobbio, “a questo universo separato della continuità tra la vita di fuori e la vita di dentro, tra l’emarginazione nella società e l’esclusione dalla società, tra la privazione dei beni materiali e la privazione della libertà, tra la miseria (non il delitto) e il castigo, tra il ghetto come predestinazione alla galera e la galera come ghetto deliberato, autorizzato, consacrato dalle pubbliche leggi”.[3]
Non è difficile, dunque, individuare come alla base delle politiche penali e segregazioniste, da sempre, agiscano per intersezione una serie di fattori razziali ed economici che definiscono i destinatari dell’azione repressiva precedentemente passati attraverso meccanismi di esclusione dalla vita sociale, economica e/o produttiva, e di mostrificazione sociale. Basta riflettere sulla “zona sociale” da cui proviene la quasi totalità della popolazione carceraria, e di quella sottoposta a misure di prevenzione, per comprendere il processo classista e razziale posto alla base delle politiche penali. Più difficile è immaginare come poter far entrare nell’immaginario collettivo l’idea che un mondo senza galere è non solo possibile ma anche necessario e urgente.
Il limite più evidente delle proposte italiane, a mio avviso, è dato dal perimetro d’azione di ciascuna soggettività che oggi rimane confinata in ambiti ben definiti circoscrivendo la questione carceraria nel perimetro degli “addetti ai lavori”; manca ancora, e soprattutto, una presa di coscienza sulla brutalità e inutilità del carcere degli attori principali della scena carceraria, quindi chi somministra la pena e chi la subisce, ma anche chi a questo sistema, consapevolmente o meno, fa da stampella (educatori, volontari, progettisti e accademici) diventando automaticamente “funzionari del consenso” rispetto alla barbarie della segregazione fisica. E manca soprattutto una presa di coscienza dell’intera società rispetto alla violenza dell’istituzione carceraria; mancanza che è anche frutto delle modalità positive di rappresentazione delle attività “extracarcerarie” che in carcere trovano spazio.
La “formula” adottata da Basaglia è stata vincente perché Basaglia è riuscito a far esplodere la contraddizione tra l’ideologia di cura, posta alla base del lavoro psichiatrico, e la pratica segregazionaria dell’istituzione manicomiale richiesta dalla classe dominante. Contraddizione che è esplosa grazie alla messa in relazione dei bisogni (di cura) dell’utente e il mandato scientifico del tecnico (curare), tentando di liberare le capacità vitali soggettive, distrutte o assopite dalla malattia, piuttosto che assolvere al compito assegnato ai “tecnici” dalla classe dominante di segregare e contenere. In tal modo essi rifiutarono il ruolo binario di “funzionari del consenso” e “tecnici della segregazione” che il potere avrebbe voluto esercitassero su quella umanità da eliminare dalla società.
Basaglia, oltre che sulla propria determinazione, ha potuto contare su un fermento culturale e sociale che in quel periodo storico attraversava l’Italia intera. A ben vedere l’alto tasso di persone con disturbi mentali tra la popolazione carceraria di oggi, ci rendiamo conto di come la grandiosa opera di Basaglia sia stata vanificata. Con la recente chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, in cui venivano rinchiusi gli autori di reato con problemi mentali, e il ritardo nell’apertura delle strutture sostitutive, le cosiddette REMS (di fatto mini OPG), le persone con disturbi mentali autori di reato, continuano ad affollare le carceri d’Italia con scarsa cura della malattia.
La messa in discussione dell’istituzione carceraria, oggi, dovrebbe comunque partire da quelle stesse domande poste all’epoca da Basaglia rispetto al manicomio; ma a porsele dovrebbero essere quanti legittimano scientificamente l’apparato carcerario nonostante il suo chiaro fallimento, ovvero educatori, criminologi, psicologi, assistenti sociali, docenti, ecc., che si prefiggono di rieducare i detenuti e sono a più stretto contatto con essi.
Parafrasando Basaglia: “dovrebbero, criticamente, chiedere e chiedersi quale funzione sociale, che sfugge abitualmente alla loro stessa comprensione, svolge il carcere? Cioè, qual è la finalità di questa organizzazione “rieducativa” che non risponde a un solo bisogno di chi ne varca la soglia? E quali sono i bisogni cui si dovrebbe rispondere? E’ in grado il gruppo di osservazione e trattamento, rappresentante in proprio o per conto terzi, dei valori e delle verità della borghesia, di riconoscere e individuare questi bisogni? In che cosa consiste il servizio che presta nei confronti dell’assistito, se non nell’esercizio di un potere e di una violenza che è delegato a esercitare, per poter contenere una «violenza» che non si sa bene cosa sia? Ma questo potere e questa violenza non sono impliciti negli stessi strumenti che le scienze sociali e umane come scienze, gli offre per garantire il controllo e, insieme, il «consenso» di chi viene violentato? Che cosa sono dunque le scienze sociali e umane e che cos’è la «devianza» che si incontra in carcere? Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei limiti di norma, a seconda della classe del «deviante» e a seconda della situazione di espansione o di recessione economica, del paese che può o non può riaccogliere le persone riabilitate, la relatività di un giudizio scientifico che, di volta in volta, muta il carattere irreversibile delle sue definizioni?
È da questi interrogativi (che dovrebbero nascere dallo scontro pratico con la realtà carceraria) che potrebbe iniziare l’opera di corrosione delle «verità scientifiche» e la messa in discussione del loro diretto rapporto con la struttura sociale e con i valori dominanti da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne automaticamente i rappresentanti. Ma ad oggi, tra la varia umanità che va ad oliare la macchina penale, quasi nessuno ne mette in discussione l’idea né, tanto meno, osano metterne in discussione la funzione sebbene palesemente fallimentare! e non perché inconsapevoli della sua inutilità o violenza, ma a chi conviene rischiare ripercussioni sulla propria carriera professionale extramuraria per dire che il carcere non va supportato ma abolito?
Nel mio orizzonte ideale c’è l’abolizione delle galere; ne metto in discussione l’esistenza, la necessità e l’utilità. Quanti sono disposti a farlo e a sostenerne le ragioni? È molto più facile spirito critico mancando e social aiutando essere efficienti funzionari del consenso ed esibire il detenuto disciplinato e mercificato in una società sempre più in balia di spettacoli di terz’ordine, che promuovere una critica all’esistenza del carcere.
*Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus
note
[1] F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, Crimini di Pace, Einaudi, Torino 1975.
[2] Ibidem.
[3] Prefazione di N. Bobbio, in I. Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973.
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