L’IMBROGLIO DELLE ENERGIE ALTERNATIVE

A quasi cinquant’anni dalla pubblicazione de L’imbroglio ecologico (Einaudi, 1972) di Dario Paccino pesa la mancanza di una voce dissonante e radicale capace di svelare il grande  imbroglio che si nasconde dietro alcune prospettive fintamente ecologiste di molti ambientalisti.

Il lessico ambientalista che trasborda dal dibattito contemporaneo sull’innovazione tecnologica e la transizione ecologica, per molti aspetti è il frutto di un processo di sussunzione semantica che lentamente ha normalizzato termini che sottendono pratiche e prospettive di incompatibilità sistemica. Per cui oggi dietro il concetto di fonti rinnovabili si annoverano sorgenti che di rinnovabile hanno ben poco (gas, nucleare, biomasse, ecc.) e che nascondono la natura di merce della fonte all’interno dell’intera catena del valore.

Questo meccanismo di sussunzione riguarda anche i corpi sociali stessi per cui oggi, a proposito dei pannelli fotovoltaici, si sente spesso affermare che vanno bene solo sui tetti di strutture pubbliche e non sui tetti o sui terreni privati perché in questo caso si tratterebbe solo di una pratica speculativa. Per non parlare dello stucchevole dibattito circa l’altezza e la dislocazione degli aerogeneratori. Non avere chiaro come è composta la catena del valore – dall’estrazione delle materie prime alla lampadina che si accende quando premiamo l’interruttore – ci trasforma, ancor di più, in riproduttori di valore e in tifosi di quella o quell’altra fonte energetica. Quanto, ad esempio, siano socialmente e ecologicamente insostenibili i processi di estrazione delle cosiddette terre rare in Africa o di raffinazione e produzione dei cristalli di silicio per la produzione dei dispositivi a semiconduttore, è un dato che non ha un peso adeguato dentro il dibattito odierno.

In un libro del 1990, I colonnelli verdi e la fine della storia (Pellicani Editore), Dario Paccino evidenzia con estrema lucidità come molti ambientalisti, nella convinzione di contribuire alla lotta contro l’inquinamento, diventano collaboratori del potere politico ed economico, che è invece proprio la fonte della violenza accumulatrice sulla natura. Da qui il trasversalismo di una grande fetta dell’associazionismo ambientalista che alterna domeniche di pulizia delle spiagge a giornate di diffusione del riduttore del flusso dell’acqua, perdendo di vista completamente i rapporti sociali di produzione. Pratiche individualizzate che trasferiscono sul cittadino la responsabilità di una catastrofe di portata immane e che trova quasi sempre un apprezzamento come best practices da parte del potere politico ed economico. Si dimentica che la violenza espropriatrice contro la natura non è dovuta a un’astratta responsabilità umana, ma a regole sociali ed economiche ben precise che impongono un meccanismo di messa a valore che non lascia nulla al caso. Così, il ruolo dei cosiddetti cittadini responsabili finisce per limitarsi alla corretta raccolta differenziata o al consumo di merci a etichetta green o alla lotta attraverso la carta bollata.

Il paradosso dunque ruota intorno alla presunta centralità della difesa della natura che, in casi come quelli indicati, diventa un vero e proprio diversivo che peggiora ulteriormente gli equilibri naturali, costantemente erosi da una produzione finalizzata non ai bisogni umani, ma alla valorizzazione del capitale. Inoltre, il sistema energetico internazionale si caratterizza da forti interdipendenze settoriali che sfuggono completamente al controllo locale proprio perché le diverse ramificazioni del settore energetico non permettono un controllo puntuale su un singolo fattore (petrolio, gas, ecc.). 

Transizione, sostenibilità, fonti rinnovabili, economia circolare, digitalizzazione, ecc., sono parole dietro le quali si nasconde il Moloch capitalista contro il quale oggi il movimento tenta una riappropriazione di senso e delle pratiche con armi decisamente spuntate, nonostante il conflitto tra capitale e ambiente assuma sempre più centralità nella crisi ecologica: è lo stesso Paccino, ne L’imbroglio ecologico, a sostenere che l’ecologia, praticata, sostenuta e divulgata senza tenere presenti i rapporti sociali di produzione e di forza, si trasforma in un’ideologia che copre e fa scomparire sia lo sfruttamento del lavoro sia i processi di messa a profitto della natura. Il processo di ristrutturazione capitalistica oggi, e non è un caso, avviene proprio per tamponare la falla aperta dalla crisi ecologica e lo fa con strumenti, come ad esempio il Pnrr appena varato, con i quali il comando capitalista effettua un ulteriore balzo in avanti nei processi di accumulazione. 

Una nuova e possibile fase di conflitto sul piano ecologico deve necessariamente misurarsi con il variegato spettro del sistema energetico internazionale evidenziandone  le contraddizioni: le cosiddette fonti energetiche alternative (o rinnovabili) sono elementi di assoluta e piena compatibilità con il modo di produzione capitalistico; non è un caso che il capitale internazionale giochi su più piani simultaneamente, il fossile e il green, per garantirsi un’adeguata flessibilità degli assets produttivi. L’ideologia ecologica va proprio disarticolata in questo punto. Il capitalismo  percorre da decenni la strada del risparmio energetico a partire dall’ottimizzazione dei cicli produttivi energy intensive non per coscienza ambientalista, ma per ovvie necessità di ottimizzazione produttiva. Così la favola del risparmio energetico passa attraverso la produzione di idrogeno, di elettrodomestici a basso consumo, di automobili con motore ibrido o attraverso, ad esempio, il settore edilizio (cappotti termici, pompe di calore, pannelli solari, ecc.) e comunque quasi sempre attraverso meccanismi di “agevolazione fiscale” che ne facilitano sicuramente l’accesso a masse sempre più precarie, ma che al contempo ne esasperano gli aspetti più reconditi, quelli della finanziarizzazione del settore energetico.

Ritornando infine al fascino discreto che esercita sul movimento il concetto di fonti energetiche alternative e rinnovabili, occorre necessariamente fare un distinguo per evitare disfattismi: è chiaro che dove le alternative diventano boicottaggio e rallentamento dello sviluppo capitalistico o resistenza collettiva alle espropriazioni territoriali, insomma dove servono per ricomporre i segmenti dispersi di pratiche antisistemiche, devono essere necessariamente lette come una fase positiva. 

Di fatto però oggi l’ideologia delle “alternative” ha imbrigliato il movimento in un’ottica di subalternità al dominio capitalista che produce il meccanismo degli “esperti” di movimento per cui, ad ogni azione del capitale, corrisponde una controproposta di aggiustamento, in un quadro di sostenibilità e mai di rottura. Si assiste, dunque, alla piena compatibilità sistemica, perché le energie alternative non sono “neutrali”, nel senso che non basta solo ipotizzarle come prospettiva – o magari usarle prima del capitale – per considerarle al riparo dal sistema predatorio capitalista; le fonti di cui parliamo sono già fatte proprie dal sistema energetico internazionale e qualsiasi controproposta progettuale dal basso, se resta interna al quadro delle proposte di riforma che il capitale si è dato, diventa immediatamente integrabile e sussumibile.

Come uscire da questa impasse? Un’ottica progettuale autenticamente rivoluzionaria non può dimenticare una aspetto fondamentale: insieme a un progetto alternativo è necessario un soggetto alternativo, dunque rivoluzionario, che di questa alternativa sia veicolo, ma fuori dall’illusione di costruire alterità all’interno delle strutture di sistema che già in partenza ne condizionano la progettualità.

La redazione di Malanova

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