MECCANICA DELLA MILITANZA*

Si sono spesso individuate due esigenze fondamentali della militanza: da una parte, la controformazione, incentrata su un piano collettivo di ricerca e conricerca, intesa come momento metodologico di analisi nella contraddizione, come relazione in atto, inchiesta attiva che consiste nel riprodursi della conflittualità ingenerata dalla relazione asimmetrica tra soggetto e oggetto della ricerca e, nel caso del lavoro, distorta dall’estrazione di plusvalore; dall’altra, la controsoggettivazione, concepita come processo di incarnazione concreta del conflitto.

Sono obiettivi da perseguire attraverso l’osservazione analitica, prima ancora che per mezzo della creatività, ossia della centralità del soggetto nel decidere e scegliere.[1] Nello specifico, è dall’inventività delle lotte che bisogna apprendere, acquisire coscienza della propria vulnerabilità, della propria materialità, della propria inclusione: inventività che riesca ad arrivare prima dell’esperto e della macchina tecnica, tratteggiando autonomamente uno scenario che vada oltre l’immaginario indolente e automatico imposto dal capitale, oltre la gestione tecnicizzata e siliconizzata dell’esistente.[2] Gestione che invece, dentro ciascuno di noi, compone pazientemente e inesorabilmente la macchina: una supermacchina, in verità, tanto supercorpo quantosuper Io, quindi sbagliata, perché statica e artificiale, perché consente di fare un passo e poi di rifarlo, senza permettere di guardare dentro se stessi, senza cercare di capire meglio.

L’inventività del conflitto o, ma è la medesima cosa, quella del comportamento, è essa stessa politica, non tecnica, perché solo in questo caso si traduce in forza viva di trasformazione capace, con il pensiero e l’analisi, di andare oltre l’ineluttabilità della linea di sviluppo indicata dal capitale e dalle istituzioni esistenti. Non ricercare, dunque, un’alternativa più umana al sistema di riproduzione capitalista, ma andare oltre, assumendo una posizione di totale incompatibilità rispetto all’accettazione del conflitto capitale-lavoro.

Inventività da militante che prevede che si metta interamente in gioco la propria vita, in modo da agire quotidianamente la tensione conflittuale. Il militante, è il caso di ribadirlo, non è un volontario, né un attivista adoperato a chiunque o operante per chiunque, come se non avesse un pensiero, ma solo mani e bocca, altoparlante e striscione: è un soggetto divisivo, disincantato, che prende posizione e costringe a schierarsi. Senza costanza e una dura assunzione di responsabilità, il militante, non solo cessa di essere tale, ma è facilmente relegato a un ruolo contemplativo, astratto, quasi astorico, divenendo mera intellighenzia che si muove nello spazio inerte imposto dallo sfruttamento e dalla strumentalizzazione, pervaso dal gran desiderio mortale, già nel 1965 lo diceva Paolo Volponi nella Macchina mondiale, di lasciare tutto come è e di ammalarsi, poi, per la sorte che gli è capitata, magari lamentandosi come un cane che abbaia fuori dalla chiesa.[3]

E invece la sua affermazione presuppone una paziente organizzazione, talvolta anche incerta e contraddittoria ma comunque viva, di soggettivazione e autonomia, superando il limite imposto dalla macchina capitalistica che prevede l’adorazione di se stesso e della macchina e, perciò, l’avvilimento e la perdita della coscienza. Da élite o avanguardia di pensiero bisognerebbe farsi piuttosto soggetto che analizza la prassi della contraddizione per individuare una prassi di rottura con la contraddizione.

Senza lotta non c’è autonomia. Senza trasformazione collettiva della soggettività non c’è autonomia. Senza formazione non c’è autonomia. D’altro canto, autonomia non è aderenza strumentale alla vertenza, capitalizzazione o, ancora peggio, sindacalizzazione della vertenza. Essa non passa dalla rivendicazione dell’ovvio e, in quanto prassi militante in essere, non può giacere nell’individuazione di un modo alternativo di restare nel ciclo di riproduzione capitalista. Alla semplificazione e alle scorciatoie strumentali l’autonomia oppone la complessità, il sapere autenticato dalla pratica nelle contraddizioni, il sapere che si produce nelle lotte, il disagio della civiltà che, con Freud, paventando una comunione più intima dell’Io con l’ambiente, risponde all’avvizzito discorso del capitalista e al suo corteo di permissività.[4] Senza autonomia l’operaio sociale resta semplice attore dell’innovazione, interamente sussunto, dunque agito nell’impresa e industrializzato nella fabbrica totale, incluso come soggettività media, vale a dire stemperata, dal processo di sussunzione capitalista. Si tratta di un processo continuo di sradicamento della soggettività e di reimpianto della coscienza mediata, assoggettata e normalizzata.

Eppure, anche in questo periodo di forte crisi, l’antagonismo, che non sprofonda nel godimento autocelebrativo e autoassolutivo, quell’antagonismo che non cede alla frustrazione dell’improduttività delle lotte, quindi in grado quantomeno di delineare le mura della prigione nella quale viviamo, continua a esistere. Magari come potenzialità, soltanto come spettro, comunque dotato della capacità di interrompere e rovesciare se stesso e le cose che ha intorno, di superare la continuità capitalistica ornamentale e stregonesca, il suo sonno e la sua smemoratezza.

Il progetto di risoggettivizzazione del singolo e di ricomposizione politica del corpo sociale può nascere in qualsiasi momento (persino oggi, sì), allorché si produca uno scarto nella rappresentazione del sistema capitalistico. Per quanto non sia facile andare al di là della sua capacità di resistenza, davvero basterebbe questo semplice “resto” non contabilizzato, fatto di essere come presenza-a-sé e, nella lotta, come tono che risuona nel rapporto con l’Altro-da-sé, per rinnovare lo statuto del soggetto, rendendolo irriducibile alla sua impronta produttiva, all’immagine frammentata che ne restituisce lo specchio della modernità. Riappropriandosi di quel che resta fuori dalla produzione − quel quid non sussunto (o che ancora non lo è del tutto), che tutto sommato è equivalente al plusvalore dell’economia capitalista −, il soggetto fuori norma entra nel mondo, si fa momento autonomo della ritmica comunitaria e pone fine al tempo di comprendere-niente. Non si tratta semplicemente di essere anti, ma magari di essere altro all’interno di un mondo che ingloba, di una macchina dalla quale non si sfugge. La sola pratica della resistenza, da più versanti paventata, rimarrebbe comunque un tentativo di risposta meramente difensivo rispetto allo stato attuale delle cose. Non è sufficiente anelare; bisogna costruire, attraverso la creatività nelle lotte e nelle pratiche, un’altra possibilità.

Mentre la vertenzialità prova a strappare bocconi di agibilità nel sistema dato, la militanza prova a tessere nuova soggettività, capace di ribaltare le forze in campo e di costruire un altro sistema a sua immagine e somiglianza. Il militante, da inattuale dunque, agisce contro il tempo e non fuori da esso. Nessun idealismo, nessuna vaga utopia: semplicemente non accetta il tempo dato per costruire, attraverso la lotta, la contrapposizione e l’incompatibilità, il proprio tempo autonomo. [5] Da inattuale, entrare nel mondo: non sarebbe sufficiente questo perché si torni a parlare, con cognizione di causa, di militanza?

* S. Ammirato, G. Cantafio, A. Gaudio, G. Montuoro, Il Ponte (a. LXXVII, n. 1, gennaio-febbraio 2021)


note:

[1] Lo si spiega molto bene in un lavoro di Gigi Roggero, intitolato Elogio della militanza. Note su soggettività e composizione di classe (Roma, DeriveApprodi, 2016), in cui, partendo da alcuni concetti ereditati dalla tradizione dell’operaismo italiano, si arrivano a indagare le difficoltà delle lotte inscritte nella travagliata fase attuale.

[2] Cfr. É. Sadin, La siliconizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale [2016], trad. di D. Petruccioli, Torino, Einaudi, 2018.

[3] Il riferimento è a F. Bedani e F. Ioannilli (a cura di), Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, Roma, DeriveApprodi, 2020. Il titolo del volume riprende la definizione che da più parti si è data della spiccata soggettività rivoluzionaria di Alquati.

[4] Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà [1929], trad. di E. Sagittario, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 197-280.

[5] Cfr. G. Roggero, L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia, metodo, Roma, DeriveApprodi, 2019, pp. 15-16.

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