Redazione*

Uno studio della Direzione Centrale Studi e Ricerche (DCSR) dell’INPS ha messo sotto la lente la relazione tra le attività essenziali, il lockdown e il contenimento della pandemia da COVID-19.

Di fatto, l’unica strategia per limitare l’impatto del virus sulla popolazione è stata una crescente chiusura delle attività produttive e dei servizi non essenziali. Per una veloce cronistoria, il decreto emanato il 9 marzo prevedeva la chiusura di bar, ristoranti e palestre e quello del 23 marzo ha lasciato fuori, consentendole, solo uno stringato manipolo di attività non comprimibili.

Dato che territorialmente la distribuzione delle attività considerate essenziali non è omogenea, la ricerca ha potuto aggregare quelle province che hanno tante attività aperte rispetto ad altre che ne hanno percentualmente meno. Questo per vedere se lo svolgimento di una normale attività lavorativa ha impatto o meno sul contenimento della pandemia.

Lo studio ha interessato 106 province italiane osservate per 58 giorni dall’inizio della pandemia, dal 24 febbraio al 21 Aprile 2020. Le statistiche, opportunamente trattate, mostrano come laddove le attività essenziali rimaste aperte sono significativamente sopra la media nazionale, i contagi sono diminuiti in percentuale inferiore. Più attività aperte, più rischio di contagio. Sembra una questione banale ma altri studi fatti precedentemente come quello dell’Università di Venezia o de “La Voce” dimostravano, al contrario, pur utilizzando dati parziali, che l’apertura delle attività essenziali non incideva significativamente sulla dinamica dei contagi fra i territori.  

In realtà la ricerca dell’INPS evidenzia come prima del lockdown i numeri dei contagi territorio per territorio erano sovrapponibili mentre dopo il blocco le province con più attività essenziali aperte mostravano un dato superiore di contagio o meglio una minore decrescita della pandemia.  

Questo suggerisce che non solo tenere aperte le attività aumenta il rischio di diffusione del virus ma che tale aumento è più pronunciato quando le attività sono molto concentrate sul territorio provinciale.

Lo studio ha provato anche ad escludere la Lombardia dai territori in esame, considerandola un unicum rispetto alla problematica del corona virus. Ma anche in questo caso i numeri confermano l’esattezza della proporzione fra attività essenziali presenti sul territorio e regressione dei contagi.

“Un ulteriore approfondimento statistico prende in considerazione la densità occupazionale delle attività nella provincia. I numeri dicono che in province dove la densità per km2 è più elevata, e quindi dove è più probabile una maggiore vicinanza dei lavoratori e prossimità anche per quanto riguarda i mezzi di trasporto, si ha una maggiore diffusione del virus. Di fatto inserendo anche questi dati nel calderone la significatività statistica è decisamente superiore, suggerendo che considerare anche la densità occupazionale rende i risultati inerenti l’esposizione alla attività essenziali più netti”.

In sintesi si evince che all’aumentare di 1 punto percentuale della quota di settori essenziali in una provincia il numero di contagiati aumenta di 1.5 unità al giorno. Un altro modo per fornire una dimensione dell’impatto è che la differenza fra una provincia al 75esimo percentile della distribuzione della quota di essenziali e una al 25esimo percentile è di circa 10 contagiati al giorno.

I dati dovrebbero far riflettere industriali e governatori, specie quelli della Lombardia e del Veneto, ad essere quanto meno più cauti nella richieste di apertura incondizionata, ne va della salute dei cittadini e dei lavoratori. È possibile replicare l’assurdità di vecchietti e passeggiatori solitari di cani denunciati mentre si tollerano gli assembramenti in treni e metropolitane di pendolari che devono recarsi al lavoro in fabbrica?

Malanova vostra!

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