Condizioni lavorative ed evoluzione tecnologica

La complessità della nostra era è qualcosa con la quale facciamo i conti ogni giorno ma della quale rifiutiamo di indagare la natura. Non è un atteggiamento limitato all’individuo medio ma è purtroppo una condizione nella quale a vario titolo ci si ritrova la quasi totalità della popolazione. Il sistema Socio economico nel quale siamo immersi si sostiene sempre più sull’innovazione tecnologica, molto più che sull’innovazione socio-culturale, va da sé che alcuni aspetti della vita quotidiana sono stati soppiantati dall’interazione individuo-macchina in sostituzione del rapporto individuo-individuo. Dal distributore automatico, alla prenotazione per visite e servizi di varia natura, fino alla conversazione con un call-center, l’innovazione digitale e cibernetica ha mano mano sostituito l’interfaccia umana con schermi, voci registrate e display. Ma la digitalizzazione non riguarda i soli servizi commerciali e  alla persona. Com’è logico aspettarsi ogni ambito è stato direttamente o indirettamente influenzato da questa repentina evoluzione.

L’industria non poteva certo rimanere sulla soglia, anzi è stato proprio grazie allo sviluppo repentino delle tecnologie di comunicazione che il processo di integrazione globale ha potuto raggiungere il livello attuale di capillarità e di complessità. Una rete di attività produttive, commerciali e finanziarie interconnesse in tempo reale. Dalle strutture produttive a quelle economiche passando per quelle delle comunicazioni, la complessità delle reti e delle connessioni è qualcosa che per i più è di fatto insondabile. Ciò anche grazie al fatto che l’utente si relaziona sempre solo con delle interfacce, dietro le quali si trova la complessità della gestione di tutto il sistema con le sue regole e i suoi protocolli. Una sorta di sistema nel sistema che permette a miliardi di persone di dialogare, fare acquisti, ordinare merci e organizzare la propria attività.

Fra qualche anno tale complessità guiderà le nostre auto e forse anche aerei,  convogli ferroviari e navali. Ma non è un inno alla modernità quello che qui si tenta di presentare. Il proposito di questo articolo è quello di cercare di capire l’evoluzione del mansionario lavorativo in atto, ossia come si stanno modificando le richieste di lavoro, dove si stanno ricollocando e quali sono le aspettative future. Un’altro punto che andremo ad analizzare, strettamente legato al primo, è la relazione che intercorre fra l’intelligenza artificiale (IA) e alcune fasi lavorative ad essa collegate, dal momento che oltre alla parte ingegneristica, affidata a tecnici esperti in informatica, elettronica e logica c’è poi chi deve reperire le informazioni per istruire la IA. Quest’ultimo non è un lavoro per ricercatori e tecnici altamente qualificati, è piuttosto un lavoro monotono e logorante di catalogazione e archiviazione di files indicizzati in modo specifico (etichettatura) tali da dare alla macchina un numero elevatissimo di informazioni per conformare il suo operato a quelle che sono le istruzioni. Un sorta di operaio tecnologico o peggio “bracciante digitale”. Ma andiamo per ordine. La complessità che possiamo solo immaginare come una sorta di groviglio informatico, può apparire nelle mente delle persone come qualcosa di incomprensibile ma probabilmente sempre meno bisognosa di operatori.

Con tutta probabilità se si chiedesse ad un passante quante persone mandano avanti un certo apparato o un certo servizio, la risposta peccherebbe per difetto di parecchie migliaia di unità lavorative. In quanto è assai difficile capire quante persone servono per far funzionare qualcosa di apparentemente immateriale come un social network tipo Instagram o Facebook. Eppure dietro alle varie funzioni e ai miliardi di post al giorno c’è un numero incredibile di “operatori” ognuno dei quali passa al vaglio migliaia di immagini e contenuti per decidere se sono consoni alle politiche aziendali o sono da segnalare e quindi da rimuovere. Lavoro da fare in poco tempo e senza errori. Pochi secondi a contenuto per segnalarlo o lasciarlo lì. Lavoro da bassa manovalanza digitale, che fa un po’ a gara con la bassa forza da call-center. Lavori per addetti non particolarmente specializzati che fanno parte di una sorta di catena di montaggio sparsa su tutto il globo. Un addetto può vagliare immagini in Italia ma il centro di controllo che blocca i contenuti può essere da tutt’altra parte. Qualcuno avrà magari immaginato che la censura di determinati contenuti su Instagram, Facebook, Tic Toc ecc. fosse automatica: in realtà attualmente non è così. Ma questi sono solo esempi della massiccia presenza umana dietro l’apparente semplicità di un interfaccia.

Il medesimo ragionamento lo si deve fare per la nuova esperienza di acquisto nei supermercati Amazon, tutto automatico e completamente senza personale. Ciò che avviene nelle retrovie è un lavoro fatto di magazzinieri e addetti a rifornire gli scaffali della merce venduta. Ma non basta, per quanto automatizzato Il supermercato del nuovo millennio è lì per degli umani, quindi la disposizione della merce, la musica e gli odori seguono ancora le regole del marketing e delle varie strategie psicologiche di vendita: posizione del prodotto sullo scaffale, posizione dello scaffale nel reparto, posizione del reparto nei confronti di entrata ed uscita ecc. Questa organizzazione è ancora debitamente affidata a squadre di operatori che nottetempo tengono conto delle statistiche di vendita e strutturano la riconfigurazione dell’ambiente di vendita, un lavoro da svolgere più o meno da mezzanotte alle 5-6 del mattino.

Gli esempi sono molteplici e generalmente quanto si parla di tecnologia “smart”,  quando le varie aziende parlano di automazione e digitalizzazione, non fanno accenno alla mole di addetti preposti ad un mansionario assai poco qualificato. C’è un apparente e forse momentanea idiosincrasia fra i proclama e la realtà lavorativa di tutti i giorni, ossia l’inno alle smart cities, all’automazione totale e tutta la retorica osannante l’innovazione. Diciamo apparente in quanto da un lato alcuni lavori vengono sistematicamente eliminati o drasticamente ridotti dall’automazione, dall’altro lato però l’automazione richiede un certo numero di addetti, tra i quali, come già accennato, alcuni sono altamente qualificati e remunerati altri sono manovalanza a basso costo. Diciamo anche momentanea in quanto l’automazione e la robotica sono ancora in una fase iniziale di diffusione ed evoluzione, e ancora molti lavori possono essere svolti da soli umani, anche se non si sa ancora per quanto. Ma l’immagine che si dà della fase evolutiva è forse più rosea di quanto sia in realtà.

Senza scadere nella narrazione complottarda d’accatto, diremo solo che le strategie comunicative per far accettare un prodotto seguono la logica del venditore di auto usate o di case. Si tende cioè a sopravvalutare alcuni aspetti, minimizzandone altri o semplicemente non facendo cenno ad alcuni “dettagli”.

Si parla di auto senza conducente, si parla di intelligenza artificiale, di robotizzazione, di meccatronica e domotica come conquiste umane. Attualmente tali conquiste non sono al servizio dell’umanità nella sua totalità, sono destinate a chi vive in alcune aree geografiche e a chi ha sufficienti zeri nel conto in banca per potersele permettere. Il problema è che il resto dell’umanità che non è utente di questa tecnologia, non si limita a guardare ed invidiare chi le usa, ma in molti casi lavora nel chiuso di qualche stanzetta affinché quell’apparato possa espletare la sua apparente automazione.

Automazione che non vive di vita propria ma che ha sempre bisogno di un minimo di assistenza da remoto o di istruzioni varie. Qui entra il non detto del venditore: un veicolo senza conducente che si muove guidato da una rete di sensori esterni, da un GPS, e da una serie di sensori interni al veicolo, tutti interagenti fra loro ma che necessitano di istruzioni alcune volte in tempo reale. Migliaia di immagini di segnali e cartelli stradali per individuare dei pericoli, migliaia di informazioni per distinguere una persona in piedi in attesa di attraversare da un lampione o un idrante ecc. Informazioni fornite da operatori che, come dicevamo in apertura, codificano ed etichettano queste mole sterminate di dati per istruire una intelligenza artificiale.

Come avveniva qualche decennio fa con l’offshoring delle fasi produttive meno remunerative in paesi nei quali la manodopera costa pochissimo, così anche queste operazioni vengono affidate a lavoratori malpagati in giro per il mondo. Asia e Africa in prima linea nel fornire questo tipo di prestazioni, come fu per i call center in India che gestivano, e gestiscono, le chiamate più svariate dagli USA, tenendo conto del fuso orario e del tipo di servizi elargiti senza grandi meraviglie per lo stress accumulato dagli operatori e i relativi suicidi.

Dunque innovazione tecnologica, mirabolanti ritrovati cibernetici, ma la logica che sottende tutto il processo è sempre quello del modo di produzione capitalista, basato su un concetto chiave che è quello dello sfruttamento di qualcosa o qualcuno, per cavarne profitto. A tale concetto si deve necessariamente aggiungere quello della limitatezza del prodotto, che sia un limite naturale di una risorsa o che sia un limite di produzione per tenere alto il prezzo, l’importante è che quel bene –  merce o servizio che sia, abbia i requisiti della convenienza ad essere prodotto. L’unica cosa che non deve essere limitata è la forza lavoro: più ce n’è in giro e meno la si deve pagare. Fintanto che l’innovazione tecnologica seguirà questo sentiero si produrrà solo ciò che conviene non ciò che serve realmente e poco importa se le nuove tecnologie siano più energivore di quelle del passato, perché tanto regna il principio che i costi si socializzano e profitti si valorizzano tra i pochi che detengono brevetti, azioni e royalties di sorta.

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