INCENERITORI: QUANDO IL BUONSENSO VIENE ADDITATO COME “INTEGRALISMO”

Che ci sia certo ambientalismo un po’ sconnesso con la realtà che sarebbe contento di vedere il mondo tornare in un’era imprecisata tra il medioevo e l’età del ferro, ciò non implica che dissentire su un impianto di dubbia utilità voglia dire essere “integralisti”. Abbandoniamo per un momento la questione degli inquinanti e ragioniamo sulla questione della sostenibilità economica, cioè proviamo a confrontarci realmente sui vantaggi economici degli impianti. Le cosiddette opportunità che la tecnologia della termovalorizzazione mette a disposizione della comunità. Proviamo a mettere in dubbio gli “indiscutibili vantaggi per la comunità”.

Un termovalorizzatore è un impianto utile principalmente a chi lo gestisce e come ricaduta riesce a dare qualche benefit alla comunità che ci vive attorno, ma a quale prezzo? Partiamo dai famosi inceneritori del Nord Europa, tipo quelli con la pista da sci sul tetto (che capolavoro di marketing, chapeau!), ebbene, da un po’ di anni a questa parte, i programmi di gestione dei rifiuti e di riciclo hanno ridotto al minimo il materiale da bruciare. Quindi per continuare ad esistere e giustificare la loro presenza queste installazioni devono importare CSS (combustibile solido secondario) dall’estero. Partiamo da qui per capire meglio alcuni meccanismi del processo di cogenerazione legato all’incenerimento. I fattori che pongono limiti, che potremmo definire strutturali, sono:

  • Il basso potere calorifico del combustibile che oscilla dai 1800/2000 kcal/kg dei rifiuti indifferenziati ai 3500/4500 kcal/kg per i rifiuti derivanti da una raccolta differenziata ben gestita (CSS). 
  • La necessità di dover costruire solo impianti di grossa taglia capaci di trattare elevate quantità di rifiuti non inferiori alle 200 tonnellate giornaliere. Tali dimensioni sono necessarie visto e considerato il basso rendimento dell’impianto per la cogenerazione di energia elettrica. Questa caratteristica unita alla complessità e quindi l’elevato costo dell’apparato rendono economicamente sostenibili solo impianti di grandi dimensioni.

A ciò va unito anche il fatto che ci si sta orientando sempre più verso la combustione di CSS invece che del tal quale, sia per le seppur scarsamente restrittive misure antinquinamento, sia per una questione di efficienza e longevità degli impianti. Il tal quale logora velocemente le strutture vista la produzione di sostanze aggressive a base di composti clorati. Mentre il CSS è un combustibile che ha subito un processo di cernita e trattamenti vari che annovera al suo interno principalmente sostanze polimeriche, ossia plastica. Ma per ottenerlo si deve spendere denaro ed energia, quindi la bilancia tende sempre più a sbilanciarsi sui costi piuttosto che sui guadagni, teniamolo ben presente in quanto più avanti tireremo fuori l’asso dalla manica.

Quanto fin qui esposto sta a significare che gli impianti o lavorano a ritmi sostenuti o sono difficilmente giustificabili economicamente. Ciò unito alla necessità di combustibile ad alto potere calorifico delinea chiaramente che il ciclo di termovalorizzazione sia in netto contrasto con la strategia rifiuti zero, tanto sbandierata a destra e a manca, che è poi il pilastro portante dell’economia circolare.

Quindi non appare logico parlare di economia circolare e termovalorizzazione come due processi appartenenti alla medesima strategia. L’economia circolare, pur se ancora con qualche incertezza, è un processo che se realizzato senza la smania di guadagni fantasmagorici può avviare i territori ad una progressiva sottrazione da esigenze esterne. Lo shortage di materie prime e semilavorati degli ultimi mesi, con l’immancabile conseguenza inflattiva, ha messo in evidenza come una seria politica di auto-sostenibilità, avrebbe sicuramente limitato i danni degli shock economici derivanti da COVID e guerra.

Proviamo a vedere cosa si dice a livello europeo della transizione verso un’economia circolare, ed è curioso che apparentemente ci sarebbe posto per la termovalorizzazione. Questo è quanto ha affermato il Comitato europeo delle regioni nel parere relativo al “ruolo della termovalorizzazione nell’economia circolare”, precisando che le soluzioni scelte non devono ostacolare un maggiore ricorso alla prevenzione e al riciclaggio dei rifiuti e alla riutilizzazione dei prodotti, obiettivi prioritari nella gerarchia dei rifiuti. Quest’ultima considerazione apre molti interrogativi che cercheremo di chiarire. 

Sempre secondo il comitato, la termovalorizzazione dei rifiuti considerati inevitabili o non più riutilizzabili, effettuata in inceneritori ad alta efficienza e a determinate condizioni, contribuisce infatti all’approvvigionamento energetico e a ridurre significativamente lo smaltimento in discarica. Tuttavia, in un’economia circolare il recupero energetico non deve andare a discapito del riciclaggio, sicché è sempre meglio evitare un sovradimensionamento della capacità dei relativi impianti. Da qui, l’invito del Comitato a “compiere tutti gli sforzi necessari per ridurre la quantità di rifiuti non riciclabili, con particolare attenzione per la prevenzione, lo sviluppo della raccolta differenziata e gli investimenti nelle attività situate a un livello superiore della gerarchia dei rifiuti”.

Appare un po’ anomala questa situazione, se da un lato la pratica industriale suggerisce che un impianto per avere margini di economicità deve essere di grandi dimensioni, dall’altro abbiamo le raccomandazioni europee di non realizzare impianti troppo voraci. Difatti è questo il dilemma cui hanno risposto le repubbliche del nord Europa comprando combustibile da rifiuto dal resto dell’Unione. Impianti troppo grandi per essere “sfamati” con quel che resta da una raccolta differenziata spinta. Sembra abbastanza evidente che differenziata e sostenibilità economica della cogenerazione da incenerimento non vanno molto d’accordo. 

Ora quindi si capisce ancora meno la ragione di un ricorso crescente alla termovalorizzazione delle frazioni trattate dei rifiuti urbani. Analizziamo ora per un attimo il rendimento di un impianto che abbiamo detto essere assai inferiore di quello di una centrale termoelettrica propriamente detta. Cerchiamo quindi di capire a cosa si riferisce il Comitato Europeo quando parla di alto rendimento e grande efficienza. Prendiamo qualcosa di certificato, Il termovalorizzatore di Brescia che è uno degli esempi più evoluti della tecnologia. In esercizio dal 1998, con un serie di ragionevoli interventi di adeguamento e upgrading, incenerisce 750.000 t/anno di rifiuti e biomassa, produce 600 GWh elettrici/anno e 800 GWh termici/anno per il teleriscaldamento della città. 

Nel 2006 ha vinto l’Industry Award come miglior inceneritore del mondo dalla Columbia University, New York. L’efficienza del recupero energetico è del 29% ed è tra le più alte nel settore a livello mondiale. Ciò significa che di tutta l’energia necessaria al suo funzionamento il 71% viene dissipata all’interno del processo. Viene da chiedersi dove sia il vantaggio economico. Presto detto: la soluzione tipicamente italiana alle diseconomie o alle difficoltà del settore industriale, gli incentivi. Un capolavoro di ingegneria legislativa ha portato tutto il processo di incenerimento all’interno di un ambito “green”. Fin dalla materia combustibile che di nome in nome ha via via abbandonato lo status di rifiuto guadagnando quello di merce, altrimenti sarebbe stato impossibile movimentarla a destra e a manca. Questo processo ha anche portato all’assimilazione della frazione biodegradabile incenerita ad una fonte rinnovabile.  In pratica è come se si sostenesse che la produzione di rifiuti urbani sia qualcosa da assimilare ad un ciclo naturale.

Il primo schema di supporto alle fonti energetiche rinnovabili (FER) fu lanciato in Italia nel 1992, includendo negli incentivi tutte le tecnologie FER Elettriche (FER-E), tale schema è noto anche come CIP6. Tale normativa conteneva appunto la nota equiparazione delle fonti rinnovabili propriamente dette a quelle assimilate, ovvero a termiche con utilizzo dei reflui. Queste ultime, caratterizzate da potenze e costi impiantistici superiori di diversi ordini di grandezza alle rinnovabili disponibili all’epoca, hanno velocemente prosciugato il budget degli incentivi in conto capitale di tali leggi (9 e 10 del 1991 e CIP6 del 1992) causando a detta di alcuni analisti, un ritardo nella produzione di vera energia rinnovabile. 

Quindi se le borse statali si aprivano con tanta facilità per sostenere impianti strutturalmente assai poco redditizi va da sé che non c’erano molti ostacoli alla loro proliferazione. Questo ha agito come ulteriore freno all’attuazione di strategie di raccolta di recupero e riuso oltre che di differenziata spinta. In alcune regioni gli inceneritori sono spesso stati contrabbandati come unica alternativa all’emergenza rifiuti, giocando sul disagio pubblico e saltando sul fatto che gli impianti mal digeriscono l’immondizia non trattata. Quindi sostanzialmente la cogenerazione è un buon affare solo per chi vi opera, in quanto la collettività pur ricavandone qualche apparente beneficio in realtà ne incassa tutti i costi.

Attualmente l’incentivazione per le fonti di energia rinnovabili in Italia è prevalentemente basata sui seguenti meccanismi: Certificati Verdi (CV) e tariffa omnicomprensiva, Conto Energia, Conto termico, Contributi comunitari, nazionali e regionali. Ma in soldoni quanto valgono questi incentivi e quanto pesano sul conto energia delle famiglie? Per le assimilate si stimano 13,29 centesimi/kwh.

Per comprendere questa cifra dobbiamo fare una piccola deviazione per approfondire il sistema di questi incentivi e capirne la ratio.  Si tratta di un meccanismo piuttosto complesso derivante dalle previsioni del Decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, il cosiddetto decreto Bersani, che ha imposto l’obbligo, per gli operatori che immettono in rete più di 100 GWh/anno, di produrre un quantitativo non inferiore al 2% dell’elettricità totale attraverso impianti che sfruttano fonti rinnovabili. 

La quota è stata poi modificata con successivi incrementi, dello 0,35% dal 2004 al 2006 e dello 0,75% dal 2007 al 2012. Con la Legge 99/09 l’obbligo della percentuale minima di produzione da rinnovabili è stato trasferito sui soggetti che concludono con Terna contratti di dispacciamento di energia elettrica in prelievo e da questi ai distributori di energia elettrica. I produttori da fonti fossili che non riescono a trasformare ogni anno una percentuale della loro produzione da fossile a rinnovabile, devono comperare Certificati Verdi in quantità corrispondente alla quota non trasformata e consegnarla al GSE.  

Di contro ai produttori da fonti rinnovabili viene concesso, ogni anno, un Certificato Verde (CV) per ogni MWh prodotto, che essi possono commercializzare, cioè cedere ai produttori da fonti fossili che non hanno raggiunto il risultato richiesto. Un volume di crediti che crea un vero e proprio mercato. Questo sistema di incentivazione viene anche definito a quota, il singolo CV è un titolo annuo di valore pari o multiplo di 1 MWh, relativo alla produzione dell’anno di riferimento e viene utilizzato l’anno successivo depositandolo presso il gestore di rete per essere annullato come prova della quota verde prodotta da parte dell’operatore che lo deposita. È un certificato al portatore conferito sulla base della generazione elettrica netta per tutte le tecnologie elettriche, che può essere scambiato anche più volte tra privati o collocato sulla Borsa dell’energia. I primi CV negoziabili sono stati quelli emessi relativamente alla produzione 2002.

 Secondo l’art. 9 del Decreto MICA dell’11 novembre 1999, “… il prezzo di offerta (del CV), riferito al kWh elettrico, prescinde dalla tipologia della fonte e dell’impianto cui sono associati i certificati, ed è pari al valore determinato in base al costo medio di acquisto, da parte del gestore della rete, … dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili, limitatamente ai casi in cui vengono riconosciute le componenti correlate ai maggiori costi della specifica tipologia di impianto come definite al titolo II, comma 3, della deliberazione del Comitato interministeriale prezzi del 29 aprile 1992 e con esclusione degli impianti da fonti assimilate, al netto dei ricavi derivanti dalla cessione dell’energia stessa”.

Il prezzo dei certificati verdi nel 2006 è stato pari a circa 125 €/MWh, valore a cui va aggiunto il prezzo di cessione dell’energia elettrica sul mercato (oltre 70 €/MWh), per un totale di circa 200 €/MWh. Dal 2009 il prezzo del certificato sommato a quello dell’energia elettrica ceduta sul mercato è al massimo 180 €/MWh. Un gran bell’incentivo ad armeggiare con combustibili assimilati a rinnovabili. A questo va aggiunto anche che per conferire il materiale combustibile all’inceneritore bisogna pagare 140,00 €/ton. Quindi fra incentivi, energia prodotta immessa in rete a prezzo maggiorato e gli introiti per il conferimento, è più che ovvio che questa strategia sia vantaggiosa solo in quanto c’è chi la mantiene, ossia la collettività, peccato che i guadagni vadano in tasca al gestore che di per sé non rischia nulla avendo a che fare con la gestione di fattori a domanda rigida. 

Non c’è alcuna capacità o lungimiranza imprenditoriale dietro a questa tipologia di industria, che se almeno fosse di pubblica gestione comporterebbe un minore esborso in termini di tariffe rifiuti e tariffe energetiche. Non abbiamo neanche sfiorato le questioni ambientali, quelle della salute e del bilancio energetico e dell’ economia locale, più volte approfondite da questa redazione.

La redazione di Malanova

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