È da poco uscito il report curato da ActionAid (Cambia Terra. Dall’invisibilità al protagonismo delle donne in agricoltura, 2022. Il Report può essere consultato al seguente url: https://actionaid-it.imgix.net/uploads/2022/04/Cambia-Terra_Report_2022.pdf) relativo a una ricerca condotta sul campo per raccogliere dati e disegnare il modello di sfruttamento delle donne nell’agricoltura meridionale. Il territorio studiato è stato quello dell’Alto Ionio che va da Corigliano-Rossano (CS) – e quindi la Piana di Sibari – per continuare nella fascia litoranea della Basilicata e della Puglia.

“ActionAid ha concentrato le sue attività nell’Arco ionico, in particolare nei Comuni di Grottaglie e Ginosa in Puglia, Scanzano Jonico e Matera in Basilicata e Corigliano-Rossano in Calabria. […] L’Arco ionico è un’area geografica lambita dal mar Ionio, comprendente 51 comuni delle province di Taranto, Matera e Cosenza. È caratterizzato da un’ampia superficie agricola destinata principalmente all’ortofrutta (fragole, angurie, pesche, albicocche, pomodori, cavolfiori, finocchi, peperoni, asparagi, mandorle, etc.), all’agrumicoltura e alla viticoltura. La scelta di intervenire in particolare in quest’area dell’Italia meridionale è legata alla grande rilevanza a livello nazionale delle filiere agricole che la caratterizzano, in cui la componente lavoro è fondamentale per realizzare le produzioni più diffuse” (ActionAid, Cambia Terra, cit., p. 45).

Chiaramente il dato ufficiale dei braccianti agricoli impiegati in questi territori non tiene conto dell’esercito degli invisibili che vivono di lavoro nero, irregolari e alloggiati in maniera precaria negli stessi territori di produzione. Braccianti spesso senza permesso di soggiorno e privi di una qualsiasi forma di tutela contrattuale, nonostante il blocco imposto dalla pandemia abbia favorito un maggior utilizzo di braccianti comunitari viste le “maggiori” misure di controllo. Nella fase pandemica, infatti, si è registrata anche un’inversione di tendenza delle politiche occupazionali in agricoltura. La paura del blocco produttivo per l’impossibilità di raggiungere i campi da parte della manodopera comunitaria ed extracomunitaria ha dato luogo alla sperimentazione di iter burocratici semplificati per l’ottenimento di permessi di soggiorno e contratti lavorativi. Da forme di apartheid a forme “inclusive” a solo vantaggio dei proprietari terrieri. Nonostante ciò, molti studi fanno emergere la sostanziale inadeguatezza di tali politiche rispetto al problema del lavoro nero svolto spesso in condizioni di schiavitù e, visti i livelli retributivi, in un regime che potremmo definire di lavoro gratuito. Più che la legge, come sempre, ha potuto la solita tecnica del voltarsi dall’altra parte delle istituzioni votate al controllo della legittimità e della legalità dei rapporti di lavoro nelle campagne. In effetti, secondo le analisi più approfondite, la flessione del numero di braccianti impiegati in agricoltura durante la pandemia è presente solo nelle statistiche ufficiali; ciò è legato allo scivolamento dei lavoratori agricoli da situazioni regolari a situazioni di forte irregolarità.

Come rilevato in un nostro articolo del 2021 e meglio dettagliato nel report del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (crea) curato da Maria Carmela Macrì, il settore primario negli ultimi decenni ha subìto una profonda ristrutturazione. Dalla lettura dei dati raccolti dai censimenti agricoli si evidenzia una drastica riduzione di aziende agricole e una diminuzione, meno evidente, di superficie agricola utilizzata (SAU), che confermano il “fenomeno di concentrazione dei terreni agricoli e degli allevamenti in un numero sensibilmente ridotto di aziende […] dove la principale dinamica strutturale è stata quella della ricomposizione fondiaria. […] Le trasformazioni intervenute nel corso degli anni nel settore primario hanno comunque avuto un impatto sulla composizione e sull’intensità del lavoro agricolo. Alla riduzione del numero di aziende e della superficie agricola utilizzata, oltre che ai cambiamenti organizzativi intervenuti (si pensi ad esempio all’incremento e miglioramento della meccanizzazione), è comprensibilmente seguita una minor esigenza di impiego di lavoro. (sottolineatura nostra). La diminuzione complessiva delle giornate di lavoro impiegate in agricoltura ha riguardato tuttavia prevalentemente la componente lavorativa familiare, mentre quella non familiare, e in particolare quella saltuaria, è aumentata. Quindi alle aumentate dimensioni aziendali è corrisposto un minor contributo della famiglia alla manodopera agricola e un maggior ricorso a manodopera extraziendale, in

particolare quella avventizia di provenienza straniera” (L’impiego dei lavoratori stranieri nell’agricoltura in italia. Anni 2000-2020, Roma 2021, pp. 13-14).

La tendenza del lavoro, anche in agricoltura, segue un medesimo canovaccio. Raggruppamento delle aziende, meccanizzazione dei campi, diminuzione delle ore lavorative, aumento della produttività, precarizzazione del lavoro. A questo si unisce il dato sistemico della concentrazione dei capitali in mano a gruppi sempre più esigui di aziende familiari o gruppi societari e la pauperizzazione della classe media. La maggiore produttività e il minor lavoro necessario grazie alla meccanizzazione non si spalma uniformemente ma, da una parte, crea la necessità per il capitale di un soccorso statale al reddito con misure di sostegno ai cittadini bisognosi e, dall’altra, crea forme di concentramento del lavoro su una residua parte della classe lavoratrice, anche migrante, che vede diminuire il salario e aumentare o intensificare le ore di lavoro (vedi i turni stringenti, pianificati ed eterodiretti delle piattaforme della logistica come Amazon, Deliveroo, ecc.).

Il report di ActionAid sulla situazione dell’agricoltura nell’Arco ionico si focalizza sulla condizione femminile e migrante. “Nello specifico, le operaie agricole sono 22.702, 16.801 italiane e 5.901 straniere, di cui il 76% è costituito da comunitarie, soprattutto rumene e bulgare, con una netta prevalenza delle prime sulle seconde. Nel periodo 2012-2018, le lavoratrici rumene costituivano il 15% della forza lavoro femminile, mentre le lavoratrici bulgare il 2,7%, percentuali che nel 2020 hanno registrato una significativa contrazione, rispettivamente del 25% e del 42%, ulteriormente aumentata a seguito dello scoppio della pandemia. Tale trend è interpretato non tanto come una fuoriuscita dal mercato del lavoro tout court, ma come uno scivolamento in situazioni di irregolarità lavorativa, (sottolineatura nostra) di difficile misurazione. Spinte dalle difficoltà economiche e dalle scarse opportunità lavorative, le donne rumene e bulgare arrivano generalmente nell’Arco ionico direttamente dal Paese di origine, senza conoscere la lingua e con scarse informazioni. Trovano subito un impiego grazie all’intermediazione di un/a conoscente o di un/a familiare già impiegato/a in agricoltura nell’area. A volte sono gli stessi caporali che operano in Puglia a reclutare le donne andando personalmente nelle zone agricole della Romania. […] La loro giornata lavorativa inizia tra le 4.00 e le 4.30 del mattino. Per raggiungere il posto di lavoro utilizzano la corriera o macchine spesso gestite dagli stessi caporali. Circa la metà delle 119 donne incontrate attraverso il Programma Cambia Terra ha dichiarato di lavorare in più aziende contemporaneamente, nonostante le difficoltà di spostamento tra i diversi luoghi di lavoro” e di avere condizioni lavorative al limite della sopportazione umana, senza servizi igienici, pause, presidi di sicurezza e altre tutele. “Hanno in sostanza rilevato la loro subalternità agli occhi di caporali e datori di lavoro sleali che – danneggiando lavoratrici e buone pratiche di filiera – le considerano numeri perché, come una lavoratrice ha sottolineato, «non siamo donne, siamo le cassette che riempiamo»” (ActionAid, Cambia Terra, cit., p. 48).

Inutile dire che i turni di lavoro e le precarie condizioni di vita non permettono, per le donne ancora di più che per gli uomini, forme di organizzazione collettiva per rivendicare migliori condizioni di lavoro.

Le braccianti spesso lavorano in più aziende, distanti tra loro anche centinaia di chilometri. Questo dato estende considerevolmente l’orario di lavoro. La condizione è aggravata dalla difficoltà ad accedere ai servizi pubblici sia a causa della mancanza di tempo libero sia per problemi linguistici. La condizione femminile si aggrava ancora di più in presenza di minori da accudire. Se alcune lavoratrici, specie comunitarie, preferiscono lasciare la prole nei paesi d’origine – in particolare le donne rumene – quelle che invece sono costrette a spostare l’intero nucleo familiare sopperiscono alla mancanza di asili o comunque di servizi pubblici, grazie all’aiuto di madri, suocere o altre parenti. Alcune volte sono costrette a organizzarsi differentemente creando privatamente in alcune case piccoli asili irregolari gestiti a pagamento da connazionali. In casi estremi “c’è poi chi, in mancanza di alternative, in alcune giornate si ritrova costretta a portare con sé le figlie o i figli sul posto di lavoro”. Per le braccianti, accanto alle difficoltà lavorative, compaiono spesso le molestie sessuali da parte degli sfruttatori. Le donne che si oppongono ai tentativi di abuso hanno successivamente maggiori difficoltà a trovare lavoro anche presso altre aziende. “Mi è capitato tantissime volte e me ne sono sempre andata. All’inizio sembrano cortesi, dicono frasi che possono sembrare dei complimenti, come se non ci fosse niente di male. Però, poi, una parola tira l’altra e si arriva sempre a quello. Ormai me ne accorgo subito. Allora saluto con educazione e me ne vado via. A volte insistono, anche telefonicamente. Mi chiamano e chiedono: «Ma non vuoi accettare il lavoro?». Sono uomini italiani quelli che fanno così. Sanno che siamo straniere e siamo in forte difficoltà economica. Pensano che io sia una poverina buttata lì, una morta di fame e che il bisogno mi spinga a fare altro” (ActionAid, Cambia Terra, cit., p. 56).

I dati sulla Calabria nel Report del Crea

Nel rapporto citato, si evidenziano alcuni cambiamenti emblematici. In linea con i dati nazionali, anche in Calabria il numero di aziende negli ultimi dieci anni è diminuito del 28% mentre è aumentata del 4% la superficie totale lavorata. Meno soggetti, maggiore produzione. Un peso rilevante in termini produttivi è rappresentato dalle coltivazioni arboree con il 41% della SAU complessiva regionale e con un incidenza di manodopera (soprattutto nella fase della raccolta) elevata. “All’interno delle legnose ben 172.210 ettari sono rappresentati dall’olivo (73% della SAU investita a colture arboree), presente nell’83% delle aziende calabresi”.In effetti il 57% della produzione ai prezzi di base dell’agricoltura calabrese “è composta da soli 3 prodotti: quelli olivicoli (19%), quelli agrumicoli (10%), patate e ortaggi (27%)” (L’impiego dei lavoratori stranieri…, cit., p. 175).

Proprio in questi ambiti, nella raccolta di olive ma soprattutto in quella d’agrumi fra le piane di Sibari e Gioia Tauro, si registrano il maggior impiego di manodopera e la gran parte dei casi di sfruttamento di lavoratori migranti. Secondo i dati della Banca d’Italia del 2019, in Calabria il settore agricolo assume un peso rilevante in quanto “rappresenta circa il 6 per cento del valore aggiunto, oltre il doppio del corrispondente dato nazionale. In esso trova impiego circa il 15 per cento degli occupati, l’incidenza più alta tra le regioni italiane” (Banca d’Italia, L’economia della Calabria, n. 18, giugno 2019).

“Negli ultimi 40 anni in Calabria la popolazione straniera è cresciuta enormemente. Si passa dai 2,5 mila nel 1981 agli oltre 100 mila del 2019 che rappresentano il 5,5% della popolazione calabrese. La popolazione straniera più numerosa è quella dei romeni con il 31,8%, seguita da quella del Marocco (13,8%) e dai bulgari (6,1%). Nel 2019 è la provincia di Cosenza (35.559 unità) seguita da quella di Reggio Calabria (32.870) ad avere il maggior numero di stranieri soggiornanti. Seguono nell’ordine le province di Catanzaro (19.140), Crotone (12.789) e Vibo Valentia (8.136). […] Negli ultimi anni la presenza di lavoratori stranieri nell’agricoltura regionale si è sostanzialmente stabilizzata e si aggira intorno alle 30mila unità in larga parte comunitarie (70%).Sono il settore agrumicolo nella Piana di Rosarno e di Sibari, seguito da quello orticolo (cipolle lungo la costa tirrenica da Vibo a Cosenza, finocchi nel Crotonese) i comparti che richiedono il maggiore impiego di manodopera straniera” (L’impiego dei lavoratori stranieri…, cit., p. 208).

Il meccanismo di formazione dei prezzi, sostanzialmente imposti dalla Grande Distribuzione Organizzata, non consente la remunerazione dei costi di produzione “spingendo” gli imprenditori agricoli allo sfruttamento della manodopera irregolare e non contrattualizzata: “La presenza di questa manodopera a basso costo e flessibile permette agli agricoltori di tenere il costo del lavoro all’interno dei limiti dettati dai bassi margini di profitto. Molti agricoltori si ritengono “costretti” ad abbassare il costo del lavoro perché soffocati dalla grande distribuzione organizzata e dalle imprese di trasformazione (degli agrumi) che pagano la materia prima al di sotto di un prezzo equo (le arance per la trasformazione vengono pagate soltanto 3 centesimi al chilogrammo)” (ivi, p. 183).

In realtà, quello che avviene è soltanto un ripresentarsi ciclico dei meccanismi di produzione e riproduzione del capitale lungo tutta la filiera del valore. Nessuna “costrizione”, dunque. Ma è, quasi sempre, un’accettazione sic et simpliciter del modello di produzione imposto.

Come a livello nazionale, anche in Calabria la pandemia ha preoccupato molto le sigle sindacali e le Organizzazioni Professionali, non tanto per le condizioni dei lavoratori, quanto per le sorti economiche del comparto. Anche qui, però, i dati lasciano intendere che evidentemente il minor afflusso di manodopera comunitaria proveniente dai Paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria, Polonia) è stata azzerata dai lavoratori extracomunitari semplicemente irregolari. Anche in questo caso, quindi, più che a politiche di emersione dello sfruttamento, ci troviamo di fronte a politiche di immersione nella sabbia, come gli struzzi, delle teste dei responsabili istituzionali che, lo ricordiamo, proponevano di impiegare in agricoltura i percettori di reddito di cittadinanza, dimentichi del fatto che oggi l’agricoltura sta subendo un processo di forte meccanizzazione e di specializzazione della (poca) forza lavoro.

Insomma, la valorizzazione del capitale passa attraverso l’automazione in tutti i campi dell’economia, generando, oltre che un minore impiego di forza lavoro, un aumento delle ore lavorate per quei “pochi” lavoratori che subiscono anche un peggioramento delle condizioni di base. L’ampliamento, nel settore agricolo, delle dimensioni aziendale, attraverso processi di accorpamento e spossessamento forzato, produce una concentrazione di capitale – una sorta di “americanizzazione” del comparto – che condurrà inevitabilmente ad un mercato monopolizzato da pochissimi gruppi societari.

Se pensiamo che già in alcune grandi città Amazon si occupa di recapitare a casa anche la cassetta di ortofrutta, abbiamo un quadro di quello che sarà il prossimo sviluppo del comparto agricolo in Italia e nel mondo. Molto probabilmente anche l’italianissima idea dei Gruppi di Acquisto Solidali (GAS) verrà sussunta e integrata (come già avvenuto per il cosiddetto “commercio equo e solidale”) nelle grandi piattaforme della logistica: avremo grandissimi magazzini colmi di alimenti organici e biologici pronti per essere consegnati a prezzi concorrenziali attraverso team di riders.

La redazione di Malanova

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1 thought on “BRACCIANTATO FEMMINILE E MIGRANTE AL SUD

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