PER UNA CRITICA DELLA CATTIVA COSCIENZA BIANCA*

Il razzismo e il colonialismo sono parti integranti del processo di costruzione e narrazione del capitale. È questo l’assunto, chiarito già nell’Introduzionedi Tommaso Palmi, dal quale prendono le mosse tutti i saggi raccolti in Decolonizzare l’antirazzismo[1], l’ultimo lavoro inserito nell’interessante collana Input, diretta da Gigi Roggero per DeriveApprodi. I contributi, firmati da Miguel Mellino, Anna Curcio, Jamila Mascat, Alvise Sbraccia, Dhanveer Singh Brar e Houria Boutedja, hanno origine da un corso di formazione politica svolto nel 2019 a Bologna, presso la Media- teca Gateway.

Sono molti gli autori che denunciano una certa immaturità della riflessione italiana su razza e razzismo, per lo più praticata, anche dalla sinistra radicale e dai movimenti sociali, mediante un approccio pedagogico e culturalista che, di fatto, la spoliticizza, la limita alla sola dimensione culturale. La speculazione accademica italiana dedicata agli studi postcoloniali, dal canto suo, spesso non si è rivelata altro che un «insipido repertorio di argomenti trendy e alla moda» (p. 7) tesa a risolvere in termini di deficit culturale o di formamentisdel soggetto «un sapere altrimenti denso di ambivalenze e contraddizioni» (ibidem). L’educazione all’intercultura e l’invito al ri- spetto dei diritti umani non bastano se non si provvede a decostruire «le gerarchie razziali che segnano il corpo sociale» (p. 10). L’antirazzismo umanitario della sinistra bianca ha senz’altro una valenza etica, ma è quello politico il solo in grado di «individuare chi promuove la natura razzista della società» (p. 115). Ma l’antirazzismo politico va agito su un piano squisitamente tattico, come «una prima tappa nel percorso che conduce verso l’orizzonte decoloniale» necessario per mettere in crisi l’impalcatura fondante dell’imperialismo. Una prospettiva politica e organizzativa ineluttabilmente anti-integrazionista, dunque, perché «chi ha come obiettivo l’integrazione, ambisce in ultima istanza a diventare bianco» (p. 117). Lo dice Houria Bouteldja, attivista politica e scrittrice franco-algerina, nella bella conversazione con Anna Curcio posta in chiusura del volumetto.

È ancora Tommaso Palmi a spiegare quanto sia urgente vincere la rimozione dell’esperienza coloniale frutto dell’autoassoluzione della cattiva coscienza bianca. Essa, tra l’altro, ha prodotto diversi guasti, persino nel sistema dell’accoglienza che è divenuto una vera e propria industria uniformata a logiche assistenzialistiche d’emergenza quando è ormai chiaro che il razzismo sia una costante dell’intera società capitalistica. A questa costante deve far fronte una disposizione militante che non smetta mai di crescere e di formarsi ma che, al contempo, non pretenda di insegnare a nessuno cos’è il razzismo: «non saremo noi, dall’alto del nostro paternalismo bianco e coloniale, a fornire ai soggetti razzializzati gli strumenti necessari a risollevarsi dalla propria condizione materiale e soggettiva» (p. 11).

Certamente bisogna lottare «ciascuno dalla propria collocazione all’interno delle gerarchie della razza» (p. 12) e non si può certo dire che lo si stia facendo. L’antirazzismo europeo viene fortemente criticato da Miguel Mellino, ricercatore di studi postcoloniali e relazioni interetniche all’Università di Napoli L’Orientale, tanto nel suo intervento incluso nel libro che qui si recensisce, quanto nel lavoro che, di recente, ha curato insieme ad Andrea Ruben Pomella, intitolato Marxneimargini.Dalmarxismoneroalfemminismocoloniale(Roma, Alegre, 2020) e nel suo, di poco precedente, Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberismo, razzismo e accoglienza in Europa(Roma, DeriveApprodi, 2019). Rifacendosi a Jacques Rancière, Mellino rimprovera, infatti, l’abitudine acritica «a prendere parola in nome degli altri, ad appropriarsi […] della causa dell’altro» (p. 17) e osteggia quell’antirazzismo, incistato dalla metafisicabianca, che resta incentrato su un principio di solidarietà e non «su una pratica teorica interpretativa volta alla comprensione della composizione simbolica e materiale delle formazioni sociali contemporanee» (p. 29). In ragione di ciò, la lotta antirazzista non può concentrarsi soltanto sui confini «poiché il razzismo sta al centro della società e riguarda un intero dispositivo di gestione di territori e popolazioni» (p. 31). Dunque, nella prospettiva adottata in Decolonizzare l’antirazzismo il razzismo è cosa ben più estesa rispetto alla degenerazione nazifascista: è una specifica funzione capitalistica che gestisce, per così dire, l’arretratezza, secondo le indicazioni fornite, per esempio, dall’importantissimo studio di Cedric Robinson, intitolato Black Marxism. The making of the Black Radical Tradition(University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 1983). È fondamentale, per sottrarsi a una società passiva e immutabile ma fondata su un razzismo che non è mai uguale a se stesso, iniziare a pensare che esso non sia soltanto una questione di permessi di asilo e di soggiorno negati a migranti e rifugiati o che si consumi esclusivamente ai confini, negli hotspot, nei Cara o nelle altre strutture detentive del dispositivo di governo delle migrazioni (cfr. p. 31). Il razzismo va riconosciuto nelle disuguaglianze che si producono «nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei comportamenti giovanili, nelle sedi sindacali e politiche, negli spazi del consumo» (p. 51) e, una volta identificato, riconcettualizzato. La strada dell’antirazzismo decoloniale e, in generale, quella della militanza passano dalla rinuncia al narcisismo che disciplina i rapporti produttivi e le relazioni sociali e dal contrasto di tutte le forme di razzismo di Stato. Nella misura in cui la società capitalistica produce soggettività razziste, le pratiche di lotta antirazzista devono cercare, insomma, di individuare chi promuove questa natura razzista e non è escluso che, nelle more delle acquisizioni qui delineate, tale processo materiale di inferiorizzazione non possa essere analizzato percorrendo, come detto, contrappuntisticamente i suoi caratteri simbolici e inconsci. Inoltre, la decolonizzazione dell’antirazzismo non può non tenere conto della capacità di proiettarsi in un immaginario altro. L’antirazzismo non può essere una melensa litania di necessaria ma banale contrarietà alle ipotesi xenofobe che sorreggono l’impalcatura dello sproloquio razzista. L’antirazzismo non può permettersi di essere il contraltare del razzismo, un dispositivo che finisce per fare ragionamenti simili ma di segno opposto. La xenofobia non può estinguersi se le si oppone una semplicistica xenofilia. Questo gioco delle parti serve solo per dare a vedere che si sta lottando in qualche modo: il problema è che lo si fa in nome e per conto di soggettività discriminate, senza spesso che se ne abbia davvero contezza. È in questa contraddizione che continua ad annidarsi il pensiero coloniale, in questo imporsi come “portavoce” senza sapere quale voce si stia portando nel dibattito. D’altronde, si tratta di un passaggio essenziale se è vero ciò che lo stesso Marx ha scritto nell’VIII capitolo del Libro I del Capitale: «Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera». L’assunto di Marx, malinteso da quel marxismo tradizionale che non è riuscito ad approfondire la propria riflessione sulla materialità culturale ed economica di razza e razzismo, può essere riscattato da un antirazzismo finalmente decolonizzato.

*Recensione di G. Cantafio, A. Gaudio, G. Montuoro pubblicata su Materialismo Storico, n° 1/2021 (vol. X, pp. 366-367). La rivista è consultabile al seguente URL: https://journals.uniurb.it/index.php/materialismostorico/issue/view/298/101.


note

[1] T. Palmi (a cura di), Decolonizzare l’antirazzismo. Per una critica della cattiva coscienza bianca, DeriveApprodi, Roma 2020, 128 pp., € 9, ISBN 978-88-6548-339-8.

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