La nostra vita viaggia su un sistema binario fatto di zero e di uno. Il settore primario, l’agricoltura, in passato uno dei settori fondamentali delle società, oggi in realtà rappresenta lo spicchio più piccolo del valore aggiunto in un’economia digitalizzata. Inutile ricordare gli effetti della pandemia che hanno depresso ampi settori dell’economia “analogica” mentre hanno fatto schizzare verso l’alto le azioni dei colossi digitali.

Le app sono entrate nel nostro patrimonio genetico (altro che vaccino all’mRNA). La nostra vita è condensata nello smartphone che, come una protesi artificiale, è indissolubilmente legato alla nostra persona. I servizi “social” recepiscono con facilità i nostri spostamenti, i nostri gusti, le nostre propensioni, il nostro stile e le nostre preferenze religiose o politiche. Siamo noi stessi che, attraverso il lavoro gratuito somministrato quotidianamente mediante l’uso intensivo dei dispositivi, forniamo i nostri dati – anche quelli più sensibili – a società che neanche conosciamo e che li utilizzano per profilarci. È esperienza diffusa fare una ricerca su Google ed essere successivamente “visitato” da un annuncio pubblicitario inerente alla ricerca fatta. Inserire un numero in rubrica e averlo suggerito tra le amicizie da chiedere su Facebook o, molto più semplicemente, trovare traccia, attraverso proposte pubblicitarie sui social, degli argomenti di una chiacchierata a “microfono aperto” tra amici. Così si dipana la nostra vita quotidiana ormai, tra un messaggio WhatsApp, un post social e, magari, una riunione via web.

Pochi giorni fa il capitombolo. WhatsApp, Instagram e Facebook improvvisamente irragiungibili all’utenza. Un “down” durato sette ore. Non si è trattato certamente di un record, perché un altro blackout delle stesse app nel marzo 2019 durò oltre quattordici ore. 

Tutto è cominciato intorno alle 17.35 italiane dello scorso 4 ottobre, dopo un errore di manovra commesso durante un cambiamento di configurazione di Facebook. «Il problema interno che si è verificato in Facebook – spiega sulle pagine del New York Times, Graham Cumming, chief technology officer di Cloudflare – è stato l’equivalente del rimuovere i numeri di telefono degli utenti dai loro nomi in rubrica, rendendo impossibile chiamarsi». È come se improvvisamente fossero stati cancellati i percorsi che consentivano agli utenti di accedere ai server di Facebook. Miliardi di dispositivi hanno provato inutilmente a “trovare” le app di Facebook su Internet generando un enorme traffico che ha rallentato tutti gli altri accessi.

Incomunicabilità e impossibilità di reiterare molti dei “riti social” quotidiani per i singoli utenti, ma anche e soprattutto per chi, suI social di Zuckerberg, produce profitti, come le tantissime aziende che utilizzano le piattaforme per pubblicizzare le proprie attività produttive e commerciali, o più banalmente hanno affidato le loro comunicazioni interne a WhatsApp.

Crollano i nervi degli utenti, ma soprattutto vanno giù le azioni di oltre il 5% (aggiungendosi a un calo continuo di circa il 15% da metà settembre) con perdite per 6,1 miliardi di dollari per Mark Zuckerberg.

Giornata pessima per il colosso californiano, già iniziata male con l’uscita allo scoperto dell’ex dipendente Frances Haugen che, durante la trasmissione “60 minutes” andata in onda sul network televisivo CBS, dichiara che i vertici di Facebook sono consapevoli che le loro piattaforme diffondono disinformazione, violenza e odio, anche se hanno sempre cercato di nasconderlo per motivi economici.

Immediatamente sul web sono state aggiornate le classifiche degli uomini più ricchi del mondo facendo perdere un po’ di smalto a Zuckenberg proprio a causa del buco nero che ha messo offline i prodotti di punta di Facebook Inc.

Il patrimonio personale netto del patron di Facebook si attesta sui 97 miliardi di dollari e viene dopo quello di Bezos, 177 miliardi, Elon Musk, 151 miliardi, e Bill Gates che si ferma sui 124 miliardi. Per fare un esempio e per capire le proporzioni, il prodotto interno lordo del Congo è di 49,87 miliardi di dollari, quello della Serbia di 52,96 miliardi e quello del Ruanda di 10,33 miliardi di dollari nel 2020. Dunque, alcune nazioni sono meno ricche di alcuni individui.

Ricchezze personali a parte, queste crepe informatiche mostrano alcune fragilità dell’economia digitale dentro un sistema di mercato molto complesso nel quale la finanza assume una centralità rilevante. Una piccola disfunzione può mettere in crisi miliardi di vite sempre più dipendenti dalle app installate sui dispositivi o far scomparire dalla faccia della terra qualche piccola azienda incapace economicamente di reagire a poche ore di down informatico.

Questa può rappresentare una nuova frontiera per coloro i quali volessero mettere in difficoltà un sistema tecno-burocratico fondato sul bit? Per le élites economico-finanziarie, la maschera di Anonymous è più inquietante delle facce smascherate dei no vax, dello sciamano di Capitol Hill o di quelle in passamontagna degli antagonisti. È una provocazione ovviamente, ma sarebbe utile ritornare a riflettere, aggiornandole, su alcune vecchie intuizioni che negli anni Novanta ruotavano intorno al concetto di programmazione open source. Il concetto di proprietà privata – che ingloba anche quello della proprietà intellettuale e del copyright – dovrebbe essere aggiornato alla nuova fase di accumulazione capitalistica fatta anche di app, reti neurali, intelligenza artificiale e robotizzazione. Pensare (e poi iniziare a praticare) un contro-uso della scienza e della tecnologia, dentro i gangli del capitalismo e contro di esso, ci sembra un passaggio teorico che oggi non può più essere eluso. Sarebbe di gran lunga più interessante se i soldi di Zuckerberg, Bezos e Musk o di altre migliaia di paperoni venissero erosi e distribuiti equamente tra gli uomini e le donne di questo mondo o se la tecnologia fosse al servizio di tutti e utilizzata non per accumulare capitali, ma per liberarci dal lavoro salariato.

La redazione di Malanova

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