ANATOMIA E TECNICA DI UN COMPROMESSO STORICO

In occasione del centenario della nascita del Partito Comunista Italiano, proponiamo un interessante articolo dei Comitati Autonomi Romani estratto dalla rivista Rosso – Giornale dentro il movimento (n.14/1975). Nel testo le tesi berlingueriane della svolta vengono messe a nudo evidenziando la definitiva deriva riformista di un PCI che pone alla base della sua strategia politica un “patto sociale” con il comando capitalista come unica alternativa per il superamento della crisi del sistema capitalistico. Una tesi – poi divenuta prassi consolidata – basata su meccanismi di normalizzazione e sussunzione della vasta offensiva operaia di quegli anni e finalizzata al rilancio di un nuovo ciclo produttivo del capitale, necessario per ristabilizzare l’assetto della democrazia borghese.

Questo passerà per un periodo di duro sforzo e di tensione di tutte le energie nazionali […] produrre di più, risparmiare, riconvertire l’industria, ritornare alla severità ed alla disciplina degli studi,affermerà Berlinguer: tradotto, ciò comporterà sostenere le scelte del capitale e del governo.

I sacrifici, afferma Berlinguer, dovranno essere equamente ripartiti, ma ai padroni dovranno essere garantiti la competitività dell’industria italiana sul mercato internazionale, la piana utilizzazione degli impianti, il normale profitto di impresa, le convenienze oggettive di tipo nuovo per il mondo imprenditoriale“, la permanenza di quei meccanismi di mercato che costituiscono un criterio necessario per misurare l’economicità e per verificare la validità delle scelte produttive delle imprese pubbliche e private.

Un consolidamento del ciclo produttivo che, da lì a pochi anni, passerà anche attraverso l’imponente operazione repressiva del ’79, nonché il sostegno incondizionato alla Nato, la produzione di disegni di legge finalizzati al potenziamento di polizia e dell’esercito e la pratica della delazione all’interno della stessa classe operaia: nei confronti degli estremisti – afferma Berlinguer − non bisogna indulgere in civetterie; occorre respingere le loro posizioni anche più nettamente di quanto si sia fatto finora, e quando è necessario non si deve aver paura di andare controcorrente.

A distanza di quasi mezzo secolo, le pratiche politiche di quel che resta della storia del PCI non sembrano affatto mutate. Se potessimo sostituire banalmente il termine “PCI” o “Berlinguer” o anche “sindacato” con i nomi delle “nuove” organizzazioni della sinistra italiana e dei loro dirigenti, il vecchio testo che segue perderebbe il suo colore ingiallito e riapparirebbe in tutta la sua brutale attualità.


Che le tesi esposte da Berlinguer all’ultimo comitato centrale, convocato per la preparazione del XIV Congresso Nazionale del PCI siano una realtà già in grossa parte operante, la classe operaia italiana ha avuto modo di toccarlo con mano negli accordi FIAT e ALFA ROMEO, in quello sulle tariffe elettriche e in quello, ultimo, sulla contingenza. Avrà ancora modo di constatarlo da qui al prossimo autunno: nel periodo cioè in cui i padroni, governo e sindacati cercheranno di impostare e di articolare nel migliore dei modi quello che sarà l’accordo quadro per i prossimi rinnovi contrattuali. I livelli di repressione che parallelamente a questi accordi da “patto sociale” si sono sviluppati contro le avanguardie autonome operaie, fanno inoltre toccare con mano a tutto il movimento quale difficile terreno debba esso saper percorrere, perché la vasta offensiva operaia di questi anni non venga riutilizzata ancora una volta come motore per il decollo di un nuovo ciclo produttivo del capitale e per un più stabile assetto della democrazia borghese.

La prospettiva centrale che Berlinguer pone infatti nella sua relazione è proprio quest’ultima.
Alla crisi del sistema capitalistico non c’è attualmente altra alternativa che non sia quella di un rilancio, su basi nuove, del sistema capitalistico stesso. I pericoli che la crisi internazionale minaccia sono quelli di svolte autoritarie e reazionarie, di ampli conflitti locali, di guerra mondiale, di “moderna barbarie”. Il compito è perciò quello di coalizzare contro questa tendenza tutte le forze progressiste per rendere con urgenza operante “una programmazione democratica nei singoli paesi capitalistici e una cooperazione internazionale lungo una via che non è ancora quella del socialismo, ma esce già dalla logica del capitalismo”.

Come si esca dalla logica capitalistica proponendo subito dopo “l’unificazione del mercato mondiale” Berlinguer non lo spiega. Come d’altronde non spiega come sia perseguibile l’altro obiettivo, definito “rivoluzionario a livello mondiale”, di “una cooperazione internazionale vantaggiosa per tutti i popoli”, nel momento in cui l’imperialismo americano riafferma brutalmente il suo predominio sui suoi stessi alleati a capitalismo avanzato. Al di là di queste affermazioni che non è neanche il caso di approfondire perché lasciano il tempo che trovano, rimane nella sostanza l’accettazione ormai totale del sistema capitalistico, come sistema perfettibile e razionalizzabile e quindi riconducibile su una linea obbligata di progresso, lungo la quale è ipotizzabile introdurre “elementi di socialismo” e farli convivere con i meccanismi tipici della produzione capitalistica e del potere politico borghese.

È questo senz’altro il primo grande tema di svolta che Berlinguer propone nella sua relazione nella ridefinizione strategica della “via italiana” e per l’attuazione concreta in Italia del compromesso storico. Dopo di che l’affermazione di Lenin, riportata da Berlinguer nella sua relazione, andrebbe così modificata: “il socialismo continuerà ancora per un bel pezzo a guardarci e ad aspettarci da tutte le finestre del capitalismo moderno”.

L’altro grande tema di svolta, giocato anch’esso in chiave nazionale, è quello del mantenimento dei blocchi militari, necessario a far fronte della situazione internazionale e il cui superamento sarebbe d’altronde “utopistico” ipotizzare. L’Italia e l’Europa capitalistica devono quindi rimanere nella NATO, pur ritagliandosi un ruolo positivo nel processo di distensione e cooperazione, ma “non per introdurre nel dialogo sovietico-americano un elemento di disturbo”. Finalmente, potrà esclamare Berlinguer, anche su questa questione ci lasciamo alle spalle quella malattia di infantilismo che tante volte ci aveva fatto mobilitare la piazza per la cacciata delle basi NATO dall’Italia! I servizi segreti americani avranno pieno diritto a riscorrazzare sul nostro territorio e non saranno certo le petizioni di principio sulla sovranità nazionale e sulla non ingerenza a limitarne l’operato, non mancando ad essi una fitta rete di coperture e di attiva collaborazione. Ma tant’è che anche questa volta si rende organica al tipo di sbocchi politici, economici ed istituzionale che il PCI imposta per la situazione italiana.

Il PCI non misconosce infatti “la necessità che l’Italia abbia le sue forze armate, organizzate ed efficienti, a garanzia della sicurezza e dell’indipendenza nazionale”. Occorre quindi che ai generali sia data la massima garanzia di poter svolgere “con tranquillità e dignità” il loro mestiere di militari, e in modo da non essere tentati di svolgere quello di “traditori e di calpestatori dell’onore della patria”, di organizzatori cioè di trarne eversive.

Quali sono dunque gli sbocchi politici che il PCI cerca di predisporre per la situazione italiana?

Abbiamo già detto che di socialismo lungo questa loro “via italiana” ne rimane ben poco. Il tipo di alternativa che Berlinguer delinea discende direttamente dalla sua analisi dei fattori storici che rendono particolare l’attuale crisi italiana: da tutto il periodo prefascista e fascista, alla liberazione, alla guerra fredda, allo sviluppo industriale non pianificato, basato sui bassi salari, legato a forti posizioni di rendita parassitaria e ad una struttura amministrativa clientelare e burocratica dominata dalla DC. L’accumulo di contraddizioni e di errori, che questo sviluppo storico sedimenta, esplode con forza nel ’68-’69, lasciando il paese in una situazione di ingovernabilità, di sfiducia nelle istituzioni democratiche, di trarne eversive, di dilagante criminalità politica e comune.

Le successive crisi del dollaro e dell’energia mettono completamente alle corde il vecchio tipo di indirizzo. Solo ora, dice Berlinguer, davanti all’asfissia del sistema industriale “si comincia ad invocare una qualche razionalizzazione che alleggerisca il peso ormai soffocante di parassitismi e di rendite a cominciare da quelle burocratiche”.

Ecco dunque l’alternativa alla crisi! Ecco dunque il programma del compromesso storico! Non ancora le riforme più o meno di struttura (“Estensioni della spesa, fino alla riorganizzazione di un compiuto sistema nazionale sanitario, non sono per ora possibili” dice per esempio la relazione a proposito della riforma sanitaria); non ancora un modello di capitalismo e di democrazia borghese più efficiente e coerente, in cui è ammessa l’intesa di governo tra le grandi componenti politiche della società, o l’alternanza alla giuda del paese tra un partito conservatore ed uno progressista con i rispettivi alleati. Il PCI “Viene da lontano e va lontano” e “non ha fretta” di entrare al governo: l’esperienza cilena ammonisce, mentre la validità della “via italiana” sta proprio nel non suscitare spaccature verticali, ma necessarie e graduali maturazioni all’interno del partito di regime e del corpo sociale.

Ma intanto Berlinguer già propone al partito, nella parte conclusiva della relazione, un ripensamento storico di quella che fu la “duplicità” della linea di Togliatti, perché per il futuro non risulti più “offuscata” la prospettiva strategica del partito. Si tratta dunque di mettere mano a una serie di misure urgenti e di tipo nuovo per l’Italia (formulate nelle relazioni in maniera precisa e puntigliosa) per fare uscire il ciclo produttivo dalle strette più dure della crisi e per dotare di maggior efficienza le strutture dello stato nella difesa della “minacciata democrazia”. Su questa precisa e ben delineata prospettiva, il proletariato italiano (quello che ha espresso i più alti livelli di lotta e di autonomia politica dell’occidente capitalistico) sarà chiamato, dice Berlinguer “da noi − partito della classe operaia e degli sfruttati − […] lo diciamo chiaramente a un periodo di duro sforzo e di tensione di tutte le energie nazionali”. E per duro sforzo è da intendersi proprio quello che intendono padroni e governo, e cioè, nelle parole di Enrico, “produrre di più, risparmiare, riconvertire l’industria, ritornare alla severità ed alla disciplina degli studi”. Moro non sarebbe mai riuscito a esprimersi con un linguaggio più efficace e perentorio. Non solo saremo chiamati a sacrificarci, ma addirittura dovremo lottare “per fare uscire positivamente il paese dalla crisi che lo attanaglia e aprirgli una prospettiva di sviluppo nazionale nel quale possa credere e ritrovarsi”.

Il ruolo nazionale della classe operaia, a cui fece appello Togliatti nel periodo della ricostruzione industriale post-bellica, torna così a essere quello di far passare sulla propria pelle la ripresa dello sviluppo capitalistico. I sacrifici, dice la relazione, debbono essere “equamente ripartiti”, ma ai padroni vanno intanto garantiti: “la competitività dell’industria italiana sul mercato internazionale”, “la piana utilizzazione degli impianti”, “il normale profitto di impresa”, “convenienze oggettive di tipo nuovo per il mondo imprenditoriale”, la permanenza “di quei meccanismi di mercato che costituiscono un criterio necessario per misurare l’economicità e per verificare la validità delle scelte produttive delle imprese pubbliche e private”.

La spinta all’egualitarismo, elemento centrale del salto di qualità delle lotte operaie di questi anni, viene repressa nel disegno politico del PCI come necessità per “correggere” le sperequazioni più assurde tra i salari operai e gli stipendi di alcuni strati, in quanto fattore di disfunzione sociale ed economica (cioè spinge gli operai a lottare per più salario). Occorre perciò mantenere “le necessarie differenziazioni all’interno delle varie categorie, senza reprimere le remunerazioni di quei quadri che assolvono effettivamente e con impiego un’alta funzione produttiva, amministrativa, culturale”; e bisogna inoltre essere attenti “nel non violare diritti acquisiti”.

L’attacco ai livelli di occupazione nelle roccaforti operaie e la conseguente contrattazione riformista per contenerlo, tornano infine ad essere lo strumento classico per la sconfitta della classe e per la riconversione produttiva. Dice Berlinguer “È evidente che la riconversione industriale comporta riduzioni di certe produzioni ed unità produttive e sviluppo di altre, … e quindi anche spostamenti nell’impiego della manodopera”. Ma tutto deve essere contrattato “non soltanto in termini aziendalistici con le organizzazioni sindacali: sono necessari un indirizzo generale ed un intervento dei poteri pubblici”.

Mobilità operaia, intensificazione dello sfruttamento, repressione degli obiettivi autonomi della classe, autolimitazione delle forme e dei contenuti delle lotte, auto-imposizione dei sacrifici: questo è il programma operaio di Berlinguer. Attraverso l’accordo con il grande capitale su questi punti si apre una seconda epoca della ricostruzione industriale in Italia, come la definisce Berlinguer “una nuova tappa della rivoluzione democratica”: la seconda repubblica democratica fondata sulla dittatura del lavoro, come la definirà subito il proletariato. Il sindacato come “punto di forza maggiore” di questo progetto dovrà inflessibilmente attenersi al programma definito, e non dovrà quindi assecondare, ma anzi immediatamente soffocare, qualsiasi spinta di classe che possa venire dal suo stesso interno. E se non ci penserà il sindacato, il PCI non starà inerme a guardare, ritenendosi una componente fondamentale di quel movimento operaio, le cui sorti sarebbero messe in gioco da queste spinte.

La relazione mette sullo stesso piano le tendenze scissionistiche, moderate, massimaliste ed extraparlamentari che sono presenti nel sindacato e le accomuna in un unico progetto di liquidazione. Sappiamo bene quello che invece avviene nella pratica. Non ci risulta infatti che siano state compilate liste di epurazione contro esponenti moderati e scissionisti, così come è stato fatto dalla Camera del Lavoro di Milano (egemonizzata dal PCI) contro ben 900 delegati “estremisti” della zona milanese. O che si sia proposto l’espulsione di sindacalisti scissionisti dentro la CISL così come è stato invece fatto, sempre da parte del PCI, nei confronti di iscritti al PDUP.
Nei confronti degli estremisti, dice Berlinguer, in altre parti della relazione, “non bisogna indulgere in civetterie”, occorre respingere le loro posizioni “anche più nettamente di quanto si sia fatto finora”, e quando è necessario “non si deve aver paura di andare controcorrente”. Ed in questi tempi il PCI ha fatto largo e sistematico ricorso a questo tipo di “coraggio”, vedi lotta per la casa, San Basilio, Policlinico, autoriduzioni, antifascismo, sapendo bene di mettersi contro la “corrente” proletaria, ma di assecondare quella dello stato e della sua violenza repressiva.

Il compagno Daniele Pifano, colpito tra i primi da questa “coraggiosa” alleanza repressiva tra stato borghese e riformisti, ci consigliava ironicamente dal carcere di far leggere ai dirigenti del PCI quanto diceva Lenin su Stato e Rivoluzione: sulla impossibilità del proletariato di utilizzare la macchina dello stato borghese, sulla necessità vitale che anzi esso ha di disgregarne continuamente le basi, per poterne poi, quando il concreto sviluppo di un processo rivoluzionario ha creato le condizioni necessarie e sufficienti, “spezzare” l’intero apparato.

Ora è indubbio che le masse proletarie italiane e le sue avanguardie rivoluzionarie abbiano in questi ultimi anni dato un forte impulso a questa opera di disgregazione, rivoltando puntualmente contro lo stato della strage le grosse montature terroristiche che esso andava continuamente sfornando.
Che il pensiero di Berlinguer proceda in tutt’altra direzione non vogliamo dire (per non essere pedanti) di Stato e Rivoluzione, ma di questa concreta volontà del proletariato italiano, lo dimostra la parte della sua relazione dedicata alla riorganizzazione efficiente “del funzionamento dello Stato”.
A parte quanto già detto sull’accettazione della NATO in Italia, c’è da rilevare inoltre che le proposte della relazione di ristrutturazione dell’esercito ricalchino impostazioni politiche e riecheggiano toni nazionalisti, che rimandano le prime, direttamente alla questione cilena; i secondi a quell’epoca della storia italiana in cui vasti settori della sinistra riformista confluirono nella corrente “interventista”. Infatti se esiste, come dice Berlinguer, un pericolo “reale” di svolte reazionarie e di interventi militari, e se questo dovesse avverarsi, nonostante gli sforzi per scongiurarlo, quale sarà la posizione del PCI, premesso che si deve “mantenere il carattere obbligatorio del servizio militare”? Che “tutti i giovani devono partecipare alla organizzazione difensiva della nazione”? Che il PCI respinge “nettamente posizioni e orientamenti di gruppi che agitano parole d’ordine dannose, … ecc.”? Per quanto riguarda la ristrutturazione della polizia e della giustizia il PCI ha già trasformato in realtà operanti quei progetti di leggi liberticide sul raddoppio dei termini di carcerazione preventiva, sul ripristino dell’interrogatorio di polizia, sulla detenzione di armi improprie. E in più si propone per i corpi di polizia di affidare amministrazioni civili”. Come dire: questa polizia deve avere le mani libere ed essere operativa al massimo grado di efficienza. In sintesi, premette Berlinguer “noi siamo per una democrazia piena, ma anche forte: forte anche perché gli organi del potere politico ai quali spetta la guida del paese sanno decidere su ciò che a essi compete e sanno fare rispettare a tutti quanto è stato deciso”.

Qualsiasi lotta operaia, proletaria o studentesca, che esca fuori da questo progetto-quadro tracciato dal PCI, va considerata eversiva, fascista, criminale, attuata da “delinquenti comuni” che come tali vanno tolti di mezzo ed emarginati ai confini della società come avviene nelle migliori socialdemocrazie europee. Intanto i fascisti, che prima ancora di essere dei golpisti, sono dei servi fedeli dei padroni continueranno a essere foraggiati e utilizzati dallo stato capitalistico per ricattare, condizionare e ulteriormente snaturare l’origine di classe delle organizzazioni tradizionali del movimento. Gli esempi storici della sconfitta operaia e della vittoria della reazione su questo terreno non mancano certo nell’Europa capitalistica. E questa prospettiva della socialdemocrazia repressiva ripropone quindi in tutta la sua portata la questione di come il movimento operaio riesce ad effettuare il giusto passaggio rivoluzionario che questo difficile terreno impone.

Su una cosa concordiamo con quanto dice Berlinguer, a parte la mistificazione nella parte finale della relazione: e cioè che il PCI deve essere “un partito di combattimento”. Di battaglie contro la volontà rivoluzionaria del proletariato italiano il PCI ne dovrà fare molte per imporre il suo programma di sconfitta, e non basterà più bollare le avanguardie proletarie di essere dei “banditi”. In qualsiasi epoca storica e in qualsiasi area geografica i rivoluzionari sono stati sempre fatti oggetto di queste vergognose bollature ed è soltanto andando avanti nello scontro di classe che vedremo veramente “chi ha paura di chi”, chi sta contro il proletariato e chi sta invece dalla sua parte, chi si muove concretamente per la rivoluzione e chi rimane invece nella palude dell’opportunismo.

COMITATI AUTONOMI ROMANI

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