MILITANZA. SUL VINCOLO DELL’AMICIZIA POLITICA

Sulla crisi della militanza e sulla necessità di costruirne una nuova concezione è stato scritto e detto molto, anche dalle pagine di questo giornale. Vogliamo però proporre un ulteriore aspetto, un diverso punto di vista, quello dell’operaismo degli anni ’60, di quella “esperiza di pensiero – di un cenacolo di persone cementate tra loro indissolubilmente da un vincolo peculiare di amicizia politica”. Riportiamo per tanto un breve passaggio di Mario Tronti estratto da Noi operaisti contenuto nel volume L’operaismo degli anni Sessanta curato da G. Trotta e F. Milana e edito da DeriveApprodi nel 2008.


[…] Sul mistero di fedeltà implicato dall’esercizio pratico-teorico dell’amicizia politica bisognerebbe tornare con un discorso a parte. Qui i vari classici De amicitia non aiutano. Riguardano il solo foro interno. E invece qui l’interesse della cosa sta nel rapporto, stretto, tra vita interiore e agire pubblico. Potremmo ancor oggi tranquillamente ripeterci l’un l’altro le parole che Tocqueville scriveva all’amico Louis de Kergorlay, in una lettera del 9 settembre 1853, dopo trent’anni di scambi epistolari:

«Sei sempre stato e rimani l’uomo che più ha avuto l’arte di comprendere il mio pensiero allo stato nascente. […] Il contatto del tuo spirito feconda il mio. Le nostre intelligenze si intrecciano, non so come; e quando perseguiamo un idea comune arrivano a marciare meravigliosamente con lo stesso passo» (vedi, non a caso, in U. Coldagelli, Vita di Tocqueville (1805-1859), La dernocrazia tra storia e politica, Donzelli, Roma 2005, p. 11).

Non è tutto. Nel nostro caso, la religione antica dell’amicizia lascia il posto alla politica moderna dell’amicizia/inimicizia. L’amico/nemico non è, come banalmente si pensa, una teoria del nemico. È, appunto, una teoria e una pratica, dell’amico e del nemico.

Siamo diventati, e siamo rimasti, anche sentimentalmente, amici per il fatto che abbiamo trovato e ritrovato, politicamente, di fronte a noi un comune nemico. Questa idea è da specificare. Perché proprio su quell’originario approccio operaista si è fondata, e poi costruita, e quindi conservata e arricchita, un amicizia di questo tipo? Per la forza di riferimento del concetto politico di classe operaia? Per il rigore etico dell’impegno che quel riferimento produce? Per la totalità di ben distribuite esperienze di lavoro cuiturale, che miracolosamente si trovarono lì raccolte? Probabilmente per ognuna di queste cose. Ma la mia risposta complessiva è un’altra: tanto difficile da far capire, quanto facile è stato, tutto sommato, viverla. Il cemento di quell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale. Laver individuato, subito, più che un riferimento, un contrasto. Non uno «stare con», ma un «essere contro». Non una «scelta per», ma una «lotta a». Questo ha avuto delle conseguenze spontaneamente obbliganti, per «noi», sulle decisioni intellettuali di quel periodo e sugli orizzonti che ne sono seguiti. Di ciò bisogna forse soprattutto parlare.

[…] Insomma, mettemmo insieme una bella gabbia di matti. Nei nostri incontri, metà tempo si parlava, metà tempo si rideva. E devo dire qui una cosa. Di queste persone, che ho incontrato e frequentato in «Quaderni rossi» prima, in «classe operaia» dopo, io non ho più trovato, se non in alcuni casi di mllitanza di base del pci, un valore umano più alto, un più disinteressato agire pubblico, una più completa assenza di ambizione personale, un più semplice sentimento di adesione a un impegno e, non da ultimo, una più disincantata autoironica condivisione per un’impresa collettiva.

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