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La città contro lo stato: locale versus globale (di F. Piperno)


di Franco Piperno

All’origine della parola:

politica come bisogno specifico, naturale, di comunità – prima e al di fuori della statualità. Etimologicamente, con la parola politica s’intende la gestione collettiva di una comunità,  sia essa un’intera città o solo un quartiere. Così, la precondizione architettonica perché la politica si svolga è la costruzione di un luogo dove i cittadini possono  riunirsi – si  pensi  all’agorà   ateniese,  al forum  romano nell’epoca repubblicana, al centro storico del comune medievale italiano, alle piazze della rivoluzione francese e poi della Comune di Parigi, al Soviet della prima rivoluzione russa del 1905 e poi di nuovo di quella grande, quella dell’ottobre 1917.

Nella polis, il popolo, il demos, amministra la vita quotidiana tramite l’assemblea dei cittadini, un corpo politico in presenza – una condivisione sentimentale, di gioia e dolore, faccia a faccia, a contatto di gomito gli uni con gli altri. L’assemblea qualche volta elegge, altre volte sorteggia i delegati, per mandare ad effetto le decisioni comunemente prese; e questi delegati sono vincolati al mandato, sono in carica per un periodo breve non rinnovabile, e possono essere  revocati immediatamente qualora disattendano il mandato stesso.

La parola politica perciò rimandava a un’attività umana ben diversa da  quella oggi designata dall’uso comune del termine. Oggi per politica s’intende, per lo più, il governo del popolo tramite lo stato – il popolo possiede la sovranità giuridica ma non l’esercita, affidandola ai rappresentanti o, per dirla con involontario sarcasmo, agli “eletti”.

Bookchin, in più occasioni, ha ribadito come questo sistema di rappresentazione senza condivisione, elitario, professionistico, specializzato nelle tecniche di dominio, è emerso in Europa soltanto nel XVI secolo con le monarchie assolute. Nel nostro continente, la perdita  della sovranità civica avviene con l’emergere del “governo del re”, lo stato nazionale. In Francia Richelieu, il ministro del re, fa abbattere le mura della città proprio perché essa non possa più difendersi dallo stato. La distruzione delle mura cittadine, così come dei costumi connessialla sovranità – gli usi civici per intenderci – è un portato della nascita dello stato nazionale in Europa.

Gli usi civici sono quell’insieme di abitudini che permettono al cittadino di usare la terra anche quando non può accampare nessun diritto di possesso su di essa; attraverso questi usi, si esercita una sorta di garanzia erga omnes, qualcosa di simile a quel che oggi chiamiamo reddito di cittadinanza.

La politica, alla sua origine, è intrecciata al sentimento comunitario e solidaristico e coincide senza residui con la città – termine latino che etimologicamente indica il legame comunitario, l’abitare; esso si contrappone a urbe che denota solo il mero risiedere. Così, nel Mezzogiorno, secondo una considerazione di Gramsci, la città rurale dell’osso appenninico è abitata dal contadino, che, contrariamente a quel che accade nella Valle Padana, non vive la  campagna, anche se per brevi periodi vi risiede.

La civitas non si dà senza la campagna che ne assicura la sovranità energetica e alimentare – il presupposto stesso della sua indipendenza o, meglio, della sua libertà.

Può accadere quindi che per assicurarsi questa libertà la città si strutturi in forma federale fin dal suo inizio; è il caso di Cosenza, la capitale degli antichi Bruzii, che nasce priva di mura perché circondata dai Casali che ne assicurano la difesa e l’autonomia energetica e alimentare. Ora, come ognuno sa, le cose non stanno più così, al posto dei Casali vi sono i supermercati, la merce tutta  uguale viene dal mercato globale: l’arancia aggrinzisce sugli alberi del lungo Crati mentre il mercato offre lo stesso agrume lucidato che si può trovare a Palermo come a Brescia o a Barcellona. Sparita la produzione locale, ecco svanire l’orgogliosa indipendenza, la singolarità del luogo. La cooperazione città-campagna si è interrotta, per poi  andare  in  rovina,  trascinando con se gli usi civici e infine le stesse virtù civiche – in altre parole, la coscienza comunitaria non viene più coltivata. Un esempio tra tanti: il politico cosentino, il professionista  della politica, non deriva l’autorità dalla stima di cui lo circondano i suoi concittadini, piuttosto dalla capacità predatoria, dall’abilità con la quale intercetta e gestisce i fondi pubblici provenienti da Roma e ancor più da Bruxelles. La regola di contare sulle proprie forze, il far da sé, è sistematicamente evasa; si diffonde così in città un accidioso sentimento di auto disprezzo. D’altro canto, i politici, gli eletti, i rappresentanti abbisognano di consenso e non certo di condivisione; di conseguenza, trattano gli elettori come consumatori da accattivare, ai quali vendere una merce, indurre una preferenza. Per parte loro, ai cittadini è attribuito il dovere, periodico e rituale, di votare per dei candidati scelti dai partiti e senza vincolo di mandato; questi rappresentanti, così selezionati, sono agli antipodi dei delegati civici della democrazia comunale, il cui mandato – sempre revocabile,  giova  ripeterlo –  era quello  di gestire le decisioni politiche formulate e deliberate dall’assemblea dei cittadini.

La città da luogo ameno a nodo dei flussi mercantili

Nel Mediterraneo, ogni città ha una leggenda di fondazione. Non solamente “le città madri”, ovvero Gerusalemme,  Damasco,  Atene, Roma,  Kiev ed alcune altre; anche quelle decisamente più modeste, quelle rurali dell’osso appenninico, hanno origine a partire dal gesto fondatore di un Dio o comunque di un eroe padre che ha indicato il luogo. Il mito racconta gli elementi di realtà, le condizioni ambientali singolari che hanno permesso la nascita. Infatti, nel Mediterraneo, la città non è un dormitorio ma il luogo della “buona vita”; essa quindi non può sorgere dovunque, abbisogna di un adattamento specifico al paesaggio, dove si dia, ad esempio, una sorgente d’acqua potabile o una rocca dove  rifugiarsi o un fiume dal quale ricavare energia o una insenatura della costa dove adagiarsi a contatto col mare. Accade così che nel Mezzogiorno d’Italia, dove la religione cristiana è fortemente intrisa di paganesimo, la città sia sotto tutela di un santo del luogo che, se non l’ha fondata, l’ha almeno salvata dal terremoto o dalla malaria o da altre calamità naturali o dalle razzie dei saraceni. Il santo protettore è una metafora del legame civico, della cittadinanza come “persistenza dello spirito del luogo”.

Per contro, l’urbanesimo  moderno delinea una città paradigmatica, una sorta di Los Angeles, ancor meglio, di Brasilia: una gigantesca stazione di transito, un enorme aeroporto, un nodo di dispositivi disciplinari, del tutto estraneo se non ostile al paesaggio, un non-luogo che potrebbe sorgere ovunque, attrezzato non  per  l’abitare  ma per lo scambio mercantile. Così, l’urbanesimo statalista svuota la città dalla buona vita. Si pensi a cosa è accaduto alla “città madre” di Gerusalemme, la millenaria, dove lo stato nazionale ebraico al posto delle antiche mura che difendevano la città, ha eretto muri per separare i cittadini arabi dagli ebrei; o anche alla sorte di Venezia, intasata da turisti lungo i canali fetidi, divenuta un funebre museo all’aperto, che “non vive e non fiorisce se non come una nave in fondo al mare”.

L’unificazione del mercato mondiale e la colonizzazione delle coscienze

Dopo il fallimento del socialismo di stato, lo scioglimento dell’Unione Sovietica e l’unificazione del mercato mondiale, il modo di produzione capitalistico è entrato in una fase di accumulazione finanziaria che comporta una nuova distruzione di consuetudini, diritti acquisiti, relazioni sociali non mercantili. È un po’ come se si tornasse alle origini, al XVII secolo, al tempo delle monarchie assolute, quando la polarizzazione della ricchezza monetaria (per esempio, l’oro e l’argento in arrivo dalle Americhe) da un lato e, dall’altro, la recinzione dei campi (il contadino liberato dalla terra, per intenderci) hanno creato le condizioni per la nascita e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico e dei suoi dispositivi di dominio: lo stato nazionale. Quel che rende inedita  l’odierna  globalizzazione non è solo l’estensione riuscita dei costumi e delle istituzioni occidentali – i cosiddetti diritti umani – all’intero pianeta; quel che è specifico della nostra epoca è piuttosto quell’imprevedibile autonomia conseguita dal capitale rispetto a quel  lavoro astratto che esso stesso ha creato e col quale, secondo  le  circostanze,  ora  ha  collaborato  ora  è entrato  in conflitto. Detto altrimenti: mentre al suo inizio, il capitale ha lacerato il legame del contadino con la terra trasformandolo in salariato, oggi la gran parte  della produzione  mercantile  ha un bisogno quasi residuale, decisamente marginale, di lavoro vivo. Infatti, la riproduzione allargata, la crescita economica, l’aumento della dimensione finanziaria e industriale dell’impresa non richiedono tanto il lavoro umano (cognitivo o meno) quanto la macchina intelligente, l’automazione cibernetica, in altre parole, l’uso della tecno-scienza o quel che Marx chiamava “general intellect”.

Il capitale, nell’epoca dell’unificazione del mercato mondiale, mette al lavoro le macchine piuttosto che gli uomini, acquista una potenza senza precedenti, affrancandosi dal lavoro vivo, innovando ossessivamente processi e prodotti per sottrarsi alla saturazione dei mercati. Il capitale appare posseduto da uno spirito faustiano sicché il suo limite invalicabile risulta essere proprio  quella smodatezza, quel non riconoscere i suoi limiti. Detto altrimenti, trascorre la sua esistenza tra la crisi di sviluppo  e  lo  sviluppo  della  crisi.  L’esperienza storica mostra che la crescita ininterrotta dell’economia è una missione impossibile; prova ne è il suo sprofondare periodico nella sovrapproduzione di merci, nella distruzione di ricchezza sociale, nella disoccupazione, fino a produrre una sorta d’indigenza obesa, di paura senza oggetto, di angoscia, insomma. E tuttavia questa contraddizione sistemica non comporta nessun crollo automatico del modo di produzione capitalistico. Così c’è da aspettarsi, in Occidente, che nel medio periodo la ripresa instabile della crescita esponenziale (il PIL, per intenderci) avverrà senza alcun significativo allargamento della forza-lavoro occupata. Alla cibernetizzazione accelerata del processo produttivo si accompagna una colonizzazione delle coscienze, una specie di omologazione planetaria del cittadino ridotto a consumatore-elettore-spettatore. Stracciando le relazioni sociali comunitarie fondate sulla reciprocità e sullo scambio non-mercantile, fa così nido, nel senso comune, una sorta d’ideologia dell’arricchimento monetario individuale che, per di più, pretende di non essere una ideologia come le altre bensì  una  condotta  di vita  morale  e civile. Questo atteggiamento, piuttosto che inseguire utopie, bada al sodo, al concreto dove per concreto s’intende il denaro, la “cattiva astrazione del denaro”.

La nostra quotidianità è ormai  rigonfia come un vitello all’estrogeno di valori mercantili, accumulativi, competitivi che convergono nel corrompere i rapporti civici, quelli amicali e perfino quelli familiari; l’angoscia che ne risulta o resta muta o quando prende parola lo fa in quel cacofonico gergo finanziario, zeppo di feticci concettuali, un “latinorum” economicista, dove i termini d’origine anglo-americana conferiscono al discorso una autorevolezza scientifica posticcia. È un po’ come se la sentimentalità caratteristica del capitale, quella che reifica il futuro, l’interesse composto, l’usura per dirla tutta, avesse conseguito una qualche egemonia etica, diffondendosi in modo molecolare nel senso comune tra banchieri, imprenditori, esperti ma anche tra milioni e milioni di esseri umani; non solo, quindi, tra i ricchi ma ancor più tra i poveri. Il futuro, il senso della temporalità, risulta così scandito dalla acquisizione e dal progressivo aumento del reddito monetario, prescindendo da ogni scelta vocazionale, dalla qualità della mansione lavorativa erogata.

La resistenza dei luoghi: le città a misura umana

Va da sé che l’unificazione  del mercato mondiale non scivoli via senza attriti; al contrario, essa suscita potenti energie sociali che spontaneamente affiorano per contrastarla e arrestarla  – insomma la febbre della globalizzazione produce e riproduce i suoi anticorpi. Questa resistenza non è all’opera solo nelle aree del mondo invase di recente dal modo di produzione capitalistico; essa scava senza sosta anche nel ricco Occidente. Tanto Bookchin quanto Harvey hanno sottolineato più volte come la globalizzazione capitalistica abbia
suscitato, proprio negli USA, un’attenzione collettiva, senza precedenti, ai luoghi nei quali si abita – fenomeno etichettato dai media, non senza un retrogusto spregiativo, come localismo. La cura dei luoghi o, per dir meglio, il bisogno sentimentale di comunità in quanto tale, ha dato vita, tanto nell’America settentrionale quanto in Europa, a una miriade di comitati cittadini, associazioni, gruppi d’azione di base, tutti impegnati in questioni come la qualità della vita; il rapporto città-campagna; la sovranità alimentare, energetica e monetaria dei
luoghi; l’accoglienza dei migranti; la mobilità urbana soffocata dal traffico privato; la condivisione territoriale con le piante e gli animali; la denuncia dello “specismo” ovvero dell’ideologia che legittima la domesticazione, il commercio e l’uccisione delle specie diverse da quella umana; la gestione delle discariche tossiche e delle scorie nucleari; l’oppressione di genere, e così via. Si tratta di problemi urbani non sempre nuovi ma tutti incongrui ad una “analisi di classe” di tipo tradizionale. Infatti, ciò che queste esperienze richiedono non è un partito né un sindacato nuovo o vecchio che sia; esse non desiderano avere una rappresentanza che influenzi favorevolmente i dispositivi statuali; semmai pretendono che lo stato non si impicci, resti fuori, si astenga dall’intervenire per legiferare su queste tematiche.

Dal punto di vista del pensiero politico, si pongono alcune questioni cruciali: come sgravare questo movimento del valore d’uso della forma organizzativa che dorme latente nel suo seno?

Come favorire il riaffiorare delle istituzioni autentiche,  le  agenzie  della cooperazione basata sulla reciprocità, al di fuori del mercato e oltre lo stato, dove non domina lo scambio tra equivalenti, ma piuttosto dove ognuno dà quel di cui è capace e riceve secondo i suoi bisogni?  

A  ben  guardare questo luogo, nella tradizione italiana, esiste già; ed è la  città  che  si autogoverna:  articolata  nei  suoi quartieri  e          organizzata secondo le istituzioni confederali della democrazia diretta quella immediatamente accessibile al senso comune, che si svolge faccia a faccia, corpo a corpo, una democrazia senza rappresentanza, insomma.

Va così delineandosi una potenziale rifondazione delle città. Si badi non di tutte le città; non, ad esempio, delle poche megalopoli, che pure sono presenti nel nostro paese. Il riferimento va quindi segnatamente alle città che hanno conservato la qualità dell’abitare, un’architettura a misura del corpo umano, dove esiste una piazza in grado di accogliere la totalità dei cittadini. L’esempio più pertinente a proposito sono le città rurali del Meridione.

Quanto alle megalopoli Roma, Milano, Napoli, queste modeste Babilonie, le pratiche della democrazia diretta sono d’impianto più difficile, se non impossibile. E tuttavia, anche in questo caso; la democrazia senza rappresentanza può dispiegarsi articolando la megalopoli nei suoi quartieri storici. Esemplificativo è il caso della Comune di Parigi durante la Grande Rivoluzione, quando la città, pur avendo oltre un milione d’abitanti, si organizzò attraverso le Sezioni ponendo la sovranità nell’Assemblea di quartiere e offrendo un contributo decisivo affinché il sentimento repubblicano si riversasse nel senso comune. Questo elemento fu determinante per la Grande Rivoluzione.

Da cittadino a individuo sociale

La prassi della democrazia diretta ha una potenza sconosciuta alla  democrazia  rappresentativa. Questo risulta evidente in due aspetti della vita quotidiana:

a) l’efficacia delle decisioni comuni, il loro produrre effetti;

b) la formazione del cittadinoI dell’autocoscienza civica.

Per quanto attiene all’esercizio del decidere,  laddove sono  in  gioco condotte abitudinarie  – che causano una sofferenza sorda e superflua al medesimo tempo –  è chiaro che l’efficacia viene dalla condivisione e non già per forza di legge, per applicazione di una disposizione statale.  Valga  per  tutti  un  esempio  minimo: la pedonalizzazione di piazze e strade, così importate per sottrarre la città all’automobile e restituirla  al corpo umano, non avverrà senza una condivisione di massa, una drastica e volontaria contrazione del traffico privato.

Quanto alla formazione del cittadino, una formazione in grado d’affrontare quelle tematiche alle quali si è fatto cenno poc’anzi, non basterà certo l’esangue istruzione pubblica. Occorre ben altro, qualcosa che non sia la registrazione passiva di un sapere già dato, recepito senza mai essere agito. Nell’Assemblea, come conseguenza automatica dei corpi in presenza, dove tutti possono prendere la parola, ognuno dà il meglio di sé. Ha così luogo una mobilitazione dell’energia simbolica, della capacità inventiva della cooperazione linguistica – la lingua del senso comune viene creata e ricreata di continuo; sicché le differenze convergono, e il conflitto perde la sua pesantezza e si alleggerisce risolvendosi interamente in discussione. Quando un’Assemblea è al lavoro, affiora la possibilità di una coscienza collettiva enorme, quella all’altezza della specie, quella per dirla con Marx, dell’individuo sociale.

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