VIAGGIO NELLE RSA DEL COSENTINO TRA LAVORATORI SFIDUCIATI E SINDACATI COMPROMESSI

Continua il nostro lavoro di approfondimento e inchiesta sul sistema sanitario regionale proponendo un’intervista a un lavoratore, addetto alle pulizie all’interno di una RSA del cosentino, pubblicata recentemente nella newsletter di PuntoCritico.info.

Dopo le vicende che hanno interessato la sanità calabrese, a cavallo tra l’allontanamento di Cotticelli e la nomina del nuovo commissario ad acta Guido Longo, oggi tutto sembra ripiombato in un’allarmante normalità, in una regione caratterizzata da Livelli Essenziali di Assistenza tra i più bassi d’Italia e con un tasso di privatizzazione del comparto sanitario elevatissimo.

Nel racconto che segue emergono importanti considerazioni sul sistema di potere che gestisce ospedali, cliniche e ambulatori – pubblici e privati – e sulle pratiche clientelari che legano indissolubilmente i privati alla politica e al sindacato le cui punte di evidenza sono rappresentate plasticamente dalle manifestazioni che, organizzate direttamente dai titolari delle aziende sanitarie private con la complicità dei sindacati, spingono i lavoratori alla mobilitazione contro la Regione. Qui i lavoratori, spesso inconsapevolmente, diventano massa di manovra per interessi che non sono i loro.


Parlami del tuo posto di lavoro.

Lavoro in una RSA in provincia di Cosenza con circa 70 dipendenti e una settantina di posti letto come addetto alle pulizie con un contratto a tempo indeterminato. Nelle strutture come la mia la tentazione ricorrente è esternalizzare i servizi, ma qui, almeno per il momento, non lo hanno fatto. Qualche anno fa hanno esternalizzato soltanto la lavanderia, provocando due licenziamenti e col risultato che in gran parte il carico di lavoro è ricaduto sugli OSS.

Quindi sei dipendente diretto di una struttura convenzionata, nonostante le pulizie di solito vengano date in appalto. E’ una condizione diffusa?

In realtà no. Infatti circa il 70% del bilancio della Regione Calabria va alla sanità, ma mentre nel resto d’Italia alle strutture private va il 20% dei fondi pubblici, qui è all’incirca la metà delle risorse ad andare ai privati, che crescono vertiginosamente, con un numero limitato di società che gestiscono una mole crescente di strutture.

Con quali conseguenze?

Dal punto di vista dei lavoratori uno dei problemi sono i forti ritardi nel pagamento degli stipendi, si parla anche di 5-6 mesi dopo la scadenza prevista. Spesso una delle ragioni addotte dalle aziende è che la Regione versa i fondi necessari per pagare i dipendenti in ritardo e che i gestori delle strutture sono semplici intermediari, per cui capita anche di assistere a manifestazioni organizzate dalle aziende mobilitando i lavoratori contro la Regione con la complicità dei sindacati e dove i dipendenti finiscono per fare da massa di manovra per interessi che non sono i loro. Qualche anno fa la CGIL, di cui faccio parte, si era battuta affinché fosse la Regione stessa a versare direttamente gli stipendi ai lavoratori, ma poi questa battaglia si è persa nel nulla. In alcune strutture poi negli ultimi anni la situazione si è un po’ regolarizzata, ma dove la situazione è relativamente migliorata per i lavoratori si è abbassata la qualità del servizio. D’altra parte non ci sono controlli da parte delle ASP (Aziende Sanitarie Provinciali) e neanche le famiglie degli ospiti esercitano una pressione sulle strutture. A questo poi si somma l’effetto della scarsa presenza del sindacato.

Ecco. Che atteggiamento hanno gli operatori nei confronti del sindacato?

Diciamo che c’è una certa paura di iscriversi, a cui si affianca la retorica paternalistica per cui l’azienda è come una famiglia. Inoltre pesa la consapevolezza che le organizzazioni sindacali spesso sono colluse col sistema politico e affaristico che in larga misura gestisce queste strutture.

Qual è stato l’impatto della pandemia sui posti di lavoro come il tuo?

Col covid sono peggiorate le condizioni di lavoro perché sono aumentati i carichi, con orari spezzati che possono raggiungere anche le 17 ore al giorno, una situazione che le strutture sanitarie hanno imposto col silenzio-assenso del sindacato. Per quanto riguarda la sicurezza invece il quadro è stato abbastanza disomogeneo: alcune strutture si sono organizzate per tempo, per cui il covid non è riuscito a penetrare in modo massiccio all’interno delle RSA, mentre in altre ha colpito perché mancavano le mascherine oppure c’era una pressione a utilizzarle per più giorni per ridurre i costi o più semplicemente non si chiedeva con sufficiente zelo al personale di adottare le misure di sicurezza in modo attento. Qui da me abbiamo fatto una battaglia per il rispetto delle regole e devo dire che al momento è tutto regolare, ci sono i dispositivi di protezione e anche i tamponi vengono effettuati regolarmente, ma ci sono strutture dove invece si vivono situazioni drammatiche.

I lavoratori come hanno reagito rispetto a questa situazione e, più in generale, come reagiscono ai problemi di tutti i giorni?

In realtà non c’è stata una grande reazione da parte dei lavoratori, anzi, spesso i lavoratori pensano di doversi stringere ai datori di lavoro per combattere il virus e spesso il sindacato non interviene, anche lui con la scusa del covid o magari dicendo ai lavoratori “se non vi muovete voi noi non possiamo fare nulla”, per cui alla fine i lavoratori sono lasciati a loro stessi e spesso abbandonano. Nella mia struttura, ad esempio, avevamo una quindicina di iscritti che ora sono ridotti a poche unità. Per tornare al discorso di prima tra le ragioni per cui i lavoratori non si iscrivono al sindacato nel nostro caso c’è stato anche un cambio di contratto fortemente peggiorativo. Diverse strutture sanitarie infatti hanno disdettato il contratto firmato da AIOP con CGIL CISL UIL passando a quello di ANASTE, che per i lavoratori è peggiorativo sia in termini economici che normativi: la tredicesima viene rateizzata – metà a dicembre e il resto mese per mese – e la quattordicesima sparisce, sono previste meno ferie, due riposi ogni 15 giorni, per cui capita di lavorare 10 giorni di fila, e ci sono condizioni più restrittive sul pagamento della malattia, per cui gli operatori sono incentivati ad andare a lavorare anche se non stanno bene. L’aspetto paradossale di questa vicenda è che questo contratto è un vero e proprio contratto-pirata, firmato nel 2017 dall’associazione datoriale ANASTE con piccoli sindacati di comodo non rappresentativi e tagliando fuori CGIL CISL UIL, che a livello nazionale hanno fatto fuoco e fiamme, ma nella mia regione, quando alcune strutture hanno deciso di disdettare il contratto con AIOP per passare a questo, non hanno battuto ciglio. L’UGL addirittura ha favorito apertamente questo passaggio e ne ha ricavato un flusso di iscritti col beneplacito delle aziende. Tornando alla tua domanda sulla reazione dei lavoratori anche sulla progressiva privatizzazione della sanità calabrese mi sarei aspettato qualche segnale di resistenza che invece non c’è stato.

In realtà pensavo di chiederti proprio un giudizio sul recente rinnovo contrattuale firmato da CGIL CISL UIL, ma dopo quello che mi hai detto è chiaro che non vi riguarda.

Assolutamente no, perché per noi non c’è stato alcun rinnovo e la cosa riguarda un numero significativo di strutture sia in provincia di Cosenza che in altre e si somma a situazioni dove vengono applicati anche contratti locali ulteriormente peggiorativi. Ora in ambito sindacale si parla del fatto che tutte le strutture dovrebbero applicare lo stesso contratto. Si tratta di capire cosa farà il sindacato, a partire dalla CGIL.

Quanto si guadagna facendo il tuo lavoro?

Intorno ai mille euro al mese, diciamo che arrivi a 1.200 coi ratei di tredicesima ed eventuali maggiorazioni per festivi, notturni ecc.

Veniamo al problema più generale della sanità calabrese, che qualche mese fa è diventata un caso nazionale. Su questo che reazione hanno avuto i lavoratori? Se n’è parlato nei posti di lavoro?

Diciamo che c’è la percezione che a gestire i servizi della sanità privata c’è una cricca di potere in cui si mescolano interessi affaristici e clientelari. Tra i lavoratori c’è stata una discussione, soprattutto fuori dal lavoro, l’idea di tornare a un sistema pubblico è venuta fuori ed è una delle ragioni per cui la proposta di Gino Strada come commissario alla sanità calabrese ha avuto un certo consenso. Anche il sindacato ufficialmente si è detto favorevole, ma poi di fatto ha remato contro, insieme a partiti come PD e LeU, che sono parte integrante di quel sistema di potere a cui accennavo. Del resto uno dei commissari nell’occhio del ciclone era un uomo di Speranza. È un sistema di potere basato sulla rigorosa alternanza tra centrosinistra e centrodestra, un comitato d’affari con imprenditori, affaristi e criminalità organizzata, in cui spesso personaggi e settori di classe politica regionale sono proprietari delle strutture sanitarie private tramite prestanome.

Nella situazione che ci hai descritto abbiamo lavoratori sfiduciati, perlopiù passivi e sindacati non all’altezza della situazione, in parte addirittura conniventi. Dal tuo punto di vista come si fa a ripartire quasi da zero? E con quali proposte?

Credo che sarebbe utile riprendere due vecchie battaglie della CGIL: una è quella che la Regione si accolli direttamente il pagamento degli stipendi dei lavoratori della sanità, sottraendoli al balletto di responsabilità tra pubblico e privato. Ma in realtà il rapporto malato tra pubblico e privato andrebbe affrontato in modo più radicale e anche qui giova ricordare che un tempo la CGIL chiedeva la riconversione delle strutture private in strutture pubbliche. È una battaglia da riprendere, tenuto conto anche del fatto che la privatizzazione ha comportato la chiusura di tanti piccoli ospedali di paese, quei presidi territoriali di cui si parla tanto da quando è scoppiata la pandemia. Un’altra questione da porre potrebbe essere quella del salario minimo. Se il sindacato la facesse propria potrebbe avere una presa tra i lavoratori, perché nelle nostre strutture ci sono figure che svolgono le stesse mansioni ma con contratti diversi, spesso a tempo determinato, e ci ritroviamo quasi uno contro l’altro. Perciò il salario minimo potrebbe essere una parola d’ordine unificante.

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