PERCHÉ NON ABBIAMO BISOGNO DI MODELLI. SUL FRAINTENDIMENTO DEL MODELLO RIACE

I recenti fatti di Amantea(1) hanno riacceso il dibattito politico intorno al fenomeno delle migrazioni seguendo la solita linea narrativa dicotomica tra chi a destra fomenta il malessere sociale buttando benzina sul fuoco e chi a sinistra vede in tutto questo la riprova di un razzismo oramai generalizzato. I primi ne approfittano per costruire teoremi “razzializzanti”, i secondi per dispiegare un mieloso buonismo di maniera. È inutile aggiungere che, dentro questo meccanismo di propaganda mediatica delle parti, l’intera comunità viene dipinta come antropologicamente razzista.

Ma è senz’altro utile analizzare quello che negli anni ha contribuito a creare questo stato di cose, una spirale discendente di populismi identitari da un lato, che attribuivano agli ultimi arrivati la causa di tutti i mali, a cui si contrapponeva una pedante e maldestra retorica del “razzismo al contrario” che opponeva al tutti dentro uno scialbo tutti fuori. A questa opposizione fra narrazioni si aggiungeva, con sempre crescente intensità, una visione del migrante come elemento di conflitto in sé, fatta salva l’esigenza di rappresentarne la conflittualità per delega. Questa “pratica” si aggiungeva alla sciarada dei conflitti estetizzanti delle lotte dei braccianti senza braccianti, a quelle dei precari giocate in nome e per conto degli stessi. La visione grottesca di un’avanguardia talmente abile a stare sul pezzo e a cavalcare l’evento che ha finito col perdere aderenza non solo rispetto alle istanze che pretendeva di rappresentare, ma, nell’ultimo lustro, ha addirittura perso aderenza alla realtà.

Questa trappola senza via di fuga è stata fatale non solo per la cosiddetta sinistra ma anche per l’antagonismo nostrano. Proprio dalle pagine di questo giornale la scorsa settimana abbiamo provato a costruire una prima analisi sulla fase(2) anche attraverso una critica a quello che, in molti, hanno definito il “modello Riace”. Questo è un problema generalizzato che abbiamo costantemente davanti e deriva da una diffusa spoliticizzazione delle soggettività sociali (collettive o individuali che siano); tuttavia, quando ci si imbatte in un gruppo con una precisa idea del proprio ruolo o della propria condizione, allora le criticità del contesto emergono senza bisogno di deleghe. È stato il caso dei rifugiati Curdi e Palestinesi che, pur essendo stati accolti per primi e pur avendo in qualche modo dato il la agli eventi che hanno costruito l’immaginario narrativo del modello Riace, vengono spesso citati più per dovere di cronaca, avendo avuto un rapporto critico con il sistema di “accoglienza” italiano, avendone percepito vent’anni orsono l’intento predatorio e di annullamento dell’io politico culturale dell’ospite.

Sia chiaro: la nostra non è una critica all’esperienza o all’efficienza amministrativa, né tanto meno alla capacità del sindaco della cittadina reggina di governare il suo territorio provando a riformare alcuni settori cruciali. Il nostro vuole essere un primo tentativo di disincagliarci dal meccanismo che sta caratterizzando questa specifica fase politica e sociale, cioè quello di “puntare sul rosso” come narrazione alternativa capace di costruire a tavolino moderni Donchisciotte perdendo però di vista ogni minima connessione con la realtà sociale di riferimento.

Partiamo dal presupposto e diamo, almeno in questa sede, per scontati alcuni principi fondamentali come l’antirazzismo, l’antisessismo e l’antifascismo e proviamo a imbastire un tentativo interpretativo che parta da altri presupposti.

La capacità di leggere il grande bluff che si nasconde dietro annunci eclatanti di “fine della povertà” e di “prima gli italiani”, è inutile ribadirlo, non è certo diffusa. Proprio per questo, se dobbiamo mobilitarci per disinnescare certe bombe a orologeria, legate a questi meccanismi sociali, allora difendere (e magari pensare di replicare) un modello socialmente dato ci dovrebbe come pratica appartenere poco, se non forse in una fase di prima istanza solidaristica, quella che prevede di offrire un piatto caldo e un tetto. Sarebbe quanto meno più interessante invece capire quale tipo di contributo possiamo apportare alla costruzione di un soggetto autonomo e meticcio del conflitto, proprio a partire da una decostruzione dell’”esperienza” di Riace.

In prima battuta, è indubbiamente più utile parlare di esperienza piuttosto che di “modello”, come qualcosa di contaminabile, decisamente più aperto al cambiamento e quindi più vicino a quelle che sono le nostre esigenze politiche e sociali. Probabilmente si tratta di una questione che sottende molto altro. I modelli, per definizione, sono delle strutture replicabili sic et simpliciter perché realizzano la convergenza di un insieme di teorie per descrivere un fenomeno in modo oggettivo; questo è soprattutto vero in campo scientifico dove comunemente si afferma che il metodo si pone come invariante rispetto all’osservatore. Ma nel campo economico e sociale sappiamo che difficilmente alcune pratiche sono riproducibili semplicemente importando e replicando modelli esterni che hanno avuto una qualche fortuna. Questo come prima risposta a chi afferma che Riace sarebbe dovuta diventare il “Chiapas della Calabria” diffondendosi, poi, nei diversi contesti territoriali. Una sorta di modello replicante.

Potrebbe essere invece molto più interessante, seppur in ritardo, riuscire a ragionare andando al di là di proclami e propagande, per capire come mai in vent’anni di esperienza sul campo, Riace non è riuscita a trasformarsi in quella tanto agognata comunità meticcia, rimanendo un luogo dove si è praticata una qualche forma di tolleranza da parte degli autoctoni rispetto alla popolazione migrante accolta.

Non è il caso di aggiungere poi che, a prescindere dalla più o meno aperta e umana esperienza di accoglienza, questi filtri di base (SPRAR, in primis) sono stati, in molti altri casi, una sorta di tampone istituzionale destinato a sistemare un po’ ovunque i cosiddetti migranti buoni nel corso delle lunghe fasi emergenziali legate ai flussi migratori durante la crisi del Nord Africa, prima, e nel corso della guerra in Siria, dopo; nient’altro che l’occasione di vedere arrivare una pioggia di milioni di euro nelle casse di associazioni e cooperative amiche o ancora peggio nelle mani della ‘ndrangheta. (3)

Qui nessuno mette in dubbio il coraggio e la buona fede del sindaco di Riace che in questi anni è divenuto, suo malgrado, un baluardo d’umanità contro le derive reazionarie e razziste della politica. Tuttavia, può esser sufficiente questo per risalire la china e invertire la rotta delle nostre pratiche sociali? Può essere sufficiente tornare alla “Riace delle origini”, senza guardarsi indietro e scansando le macerie lasciate sulla strada dai copiosi finanziamenti ministeriali per l’accoglienza? Possiamo ancora una volta decidere sulle teste altrui, pensando a un “antagonismo migrante” senza i migranti, innestando un corpo sociale su un altro? Ancora una volta blindiamo le nostre discussioni assembleari e le nostre pratiche attivando vecchi meccanismi di autorappresentazione e sostituzionismo di un corpo sociale desiderante che oggi o guarda altrove (reddito, lavoro, salute, casa) o, nella migliore delle ipotesi, è confuso. Questa ipotetica fase di ricucitura sociale che in molti hanno visto e continuano a vedere nel cosiddetto modello Riace sta invece diventando elemento tattico di visibilità politica giocato sulla pelle di migranti e comunità autoctone: alcuni hanno visto in Riace la Stalingrado dell’ex governo giallo-verde, altri la Caporetto della sinistra; in un modo o nell’altro occorre necessariamente svincolarsi da questa dicotomia per non vedersi stritolati da logiche politiciste.

Il fallimento di Riace può, invece, servire come innesco di processi di ripresa e ricucitura dei processi sociali nei territori se venisse inteso come momento paradigmatico di recupero da una fase di attacco dispiegato su fronti diversificati, protrattasi da oramai un trentennio ai danni dei corpi sociali subalterni e precari. Ma Riace dovrebbe soprattutto essere occasione e momento di riflessione per decostruire le pratiche istituzionali dell’accoglienza in Italia segnando al contempo un momento di rottura radicale anche rispetto a quelle logiche fondate sulla compatibilità con gli SPRAR che sicuramente risultano meno disumani, ma che vanno inquadrati all’interno di una logica istituzionale unitaria, posti come anello di congiunzione tra ciò che è meno disumano (appunto gli SPRAR) e la bestialità dei vari CARA, CAS, CIE, e HOTSPOT, che conservano come fine ultimo quello di dividere i migranti in buoni e cattivi. La retorica dualista di buoni e cattivi, vittime e carnefici, per quanto assurda, è stata in grado di assorbire la realtà delle condizioni di precarietà che hanno colpito indistintamente tutto ciò che sta al di sotto di un certo scalino sociale, riversando una massa impoverita nell’arena della guerra tra poveri. Questa immane follia dualistica ha continuato a farsi strada come opinione serpeggiante, finendo col dividere il corpo sociale in precari buoni, disposti a tutto pur di lavorare, e precari cattivi, assolutamente indisponibili a farsi trattare come bestie da soma. Da ciò non ci si libera facilmente soprattutto se si è già portatori di uno stigma sociale, che esula dal fatto di essere gli ultimi arrivati o gli ultimi di sempre: se si è ultimi si ha torto a prescindere.

DECOLONIZZAZIONE VS INTEGRAZIONE

Per rompere con queste pratiche di istituzionalizzazione dell’accoglienza occorre decolonizzare le migrazioni. Una visione tutta occidentale ovviamente, del pensiero coloniale, camuffato dal buonismo delle pratiche di integrazione che hanno come orizzonte ultimo l’assimilazione culturale, figlia legittima di una concezione neocolonialista che immagina la costruzione di una comunità solo attraverso un continuo e irrisolvibile scontro di civiltà: o ti adegui ai nostri usi e costumi (impari l’italiano, lavori gratis e ti fai accettare) oppure verrai respinto e allontanato! Ecco perché oggi dobbiamo provare a spezzare − piuttosto che alimentare − la logica dell’integrazionismo. Abdelmalek Sayad afferma che:

Non a caso il colonialismo ha trovato il suo ultimo rifugio ideologico negli intenti integrazionisti; in realtà, il conservatorismo segregazionista e l’assimilazionismo sono solo apparentemente in contraddizione tra loro. Nell’un caso, si invocano le differenze di fatto per negare l’identità di diritto; nell’altro, si negano le differenze di fatto in nome dell’identità di diritto. O si concede la dignità di essere umano, ma soltanto al francese virtuale, o si fa in modo di negarla, invocando l’originalità della civiltà maghrebina, ma un’originalità tutta negativa, per difetto”.(4)

Adriano Favole, docente di Cultura e Potere alla facoltà di Antropologia Culturale ed Etnologia dell’Università di Torino ha affermato che:

da un punto di vista etimologico, integrazione è termine legato a integro, ovvero qualcosa che non ha subito danni, menomazioni, mutilazioni. È lo stesso aggettivo da cui derivano integrale (si dice di quei cibi in cui non si è provveduto a separare le componenti originarie), integrato, integrità e integralismo. In tegru(m) è l’intoccato o l’intoccabile, ovvero ciò che è incolume, casto, puro. I linguisti ci insegnano tuttavia che i termini vanno visti nel loro uso, nelle traiettorie semantiche che seguono, senza troppa ossessione per le radici e origini. In effetti, l’uso di integrazione riferito in modo particolare al modo in cui gli stranieri si incastonano nella società di accoglienza è piuttosto recente e pare che ci venga dall’inglese americano racial integration (“integrazione razziale”) e integrationist (“colui che crede in o supporta l’integrazione sociale”). Comunque sia, se guardiamo agli usi attuali del termine nel dibattito pubblico, la sensazione di ambiguità è evidente e si ha l’impressione che, pur usando lo stesso concetto, molte persone lo associno a significati molto diversi”.(5)

Allora forse dovremmo iniziare a porci alcune domande: perché mai integrare le diversità culturali? Perché parlare di naturalizzazione? Si tratta di una nostra necessità sociale? È possibile vivere insieme e liberi pur essendo culturalmente diversi? Il problema oggi, è inutile negarlo, è tutto incentrato sull’acuirsi e sull’estremizzarsi del rapporto tra cultura e politica simboleggiato dal concetto di nazione. Le pratiche finora messe in piedi dal sistema dell’accoglienza, suffragate spesso da studi sociali elaborati dall’intellighenzia di sinistra, hanno fatto sì che si confondesse, in chiave discriminatoria, cittadinanza con nazionalità. Il concetto di integrazione sottende quindi uno squallidissimo revival dell’etnocentrismo di stampo ottocentesco; che si impieghi la parola adattamento, oppure assimilazione o, piuttosto, integrazione, il punto di vista etnocentrico continua a determinare la visione di quello che è o dovrebbe essere lo straniero.

Siamo noi bianchi a decidere come dovrà essere lo straniero per potersi definire integrato passando con una certa disinvoltura dall’idea di “integrazione di” a quella di “integrazione a” e questo segna un confine invalicabile tra gli integranti (il gruppo dominante) e i costretti all’integrazione (il gruppo dominato, vale a dire i migranti). Questa logica di dominazione di una cultura su un’altra sembra essere indispensabile per costruire e conservare la retorica del concetto di nazione. L’integrazione non è concepibile come rapporto di forza e quindi di dominazione tra soggetti attivi/dominanti/integranti (l’occidente) e un corpo passivo e da integrare (i migranti). In questo meccanismo quello che viene continuamente riprodotto è il meccanismo della differenza culturale. Un meccanismo che finisce per attribuire la responsabilità della mancata integrazione a coloro che si chiedono quando possono considerarsi definitivamente integrati per non essere più soggetti ad angherie varie. Questo paradigma dell’integrazione tende inoltre a nascondere i suddetti rapporti di forza, nonché le logiche di dominazione neocoloniali che sottendono i flussi migratori in quanto è ormai abbastanza chiaro come il fine ultimo sia il controllo dei flussi migranti indotti da crisi economiche, ecologiche e guerre, dirette conseguenze di processi di accumulazione per espropriazione nei paesi del cosiddetto Sud del Mondo.

Il discorso sull’immigrazione e sull’integrazione sta producendo un continuo processo di “etnocrazia” nella gerarchizzazione dei rapporti sociali in quanto si continua a sostenere l’esistenza di un problema migranti, la cui soluzione sia tutta culturale (leggasi razziale) e che quindi il vero ostacolo alla cosiddetta coesione nazionale è la contaminazione della cultura degli stranieri. In questa logica vengono scientificamente sottaciute le problematiche relative alle diseguaglianze socioeconomiche per puntare sulla carta vincente del problema etnico che porta allo scontro razziale: tutto viene giocato sulla linea del colore. Nulla a che vedere con il senso che attribuiva Durkheim al termine integrazione inteso come società integrata o nell’accezione utilizzata dalle scienze sociali classiche, come processo che rafforza i legami sociali, dove i soggetti umani, stranieri o no, tendono a unirsi in un tutto che è però sempre in divenire.

Ma oggi, in tempi di crisi economico-strutturale segnata da paure sociali artatamente costruite, a prevalere è con tutta evidenza l’interpretazione che vuole l’esistenza di un noi come comunità compatta, unica, assoluta e soprattutto autentica (integra, appunto) che si dispiega in un tessuto ben ordito nel quale devono essere aggiunte delle nuove maglie: gli altri, stranieri o diversi che siano. È un’accezione quest’ultima molto rasserenante per il bianco occidentale che vede il diverso come corpo in aggiunta che, una volta sussunto, annichilito e culturalmente normalizzato, non produrrà nessuna alterazione sociale.

Questo paradigma dell’integrazione ha un difetto: quello di non avere come orizzonte possibile la trasformazione della società anche solo sotto il profilo della contaminazione culturale. Muoversi sul versante dell’integrazione ci rende complici dello spostamento del conflitto di classe verso le zone oscure e pericolose dell’etnocrazia come regolatore dei rapporti sociali. Un campo minato dal quale difficilmente riusciremo a trarci in salvo e a rilanciare il conflitto.

Se oggi vogliamo decostruire le narrazioni nazional-populiste, ritornate in auge dopo decenni di sopore, occorre avere una prospettiva anti-integrazionista da estendere a tutte quelle condizioni di diseguaglianza tra persone costrette a integrarsi al sistema capitalista.

Le politiche di differenziazione razziale (prima gli italiani) possono essere combattute assumendo certamente la razza come un terreno centrale e trasversale di mobilitazione, ma non nella sua dimensione settoriale, legata esclusivamente ai migranti (o, peggio ancora, ai rifugiati) perché altrimenti, come già evidenziato, si corre il rischio di arretrare nel discorso sociale e di legittimare dispositivi di controllo e gerarchizzazione delle figure razzializzate. Dire oggi che non abbiamo ricette pronte per combattere e vincere contro il Capitale è talmente vero che risulta inutile ripeterselo in ogni consesso. Occorre invece osare. E qui entra in gioco la nostra capacità di stare nelle contraddizioni sociali − anche e soprattutto in questa lunga fase caratterizzata da una terrificante inerzia militante − costruendo relazioni nell’attuale composizione di classe.

Probabilmente il terreno su cui vale la pena insistere è quello di portare le promesse del Governo alle conseguenze più estreme: reddito, lavoro, redistribuzione, tutela del territorio possono essere i terreni (certamente insidiosi e scivolosi) sui quali lavorare, pur restando coscienti che questi settori d’inchiesta e di lavoro politico oggi vengono spesso piegati alle esigenze del mercato internazionale (workfare e green new deal, ad esempio).

Come fare? Probabilmente occorre agire e indagare più sui possibili processi di soggettivazione che puntare al risultato intermedio. Molto più semplicemente bisogna uscire dal meccanismo asfissiante della vertenza trasformata in fine ultimo e non mezzo della lotta. Questo può avvenire esclusivamente attraverso la conflittualità accantonando le diverse teorie universalistiche sulla giustizia umana, utili solo a chi finalizza la sua indignazione alla caritas, se non addirittura alla pietas, tarpando le ali alla soggettivazione conflittuale. In questo processo i cosiddetti migranti possono essere parte attiva del processo, non in quanto migranti ma, appunto, come un frammento della Classe che vive condizioni sociali di sfruttamento del tutto simili ai “bianchi” in una prassi autenticamente antirazzista perché materialisticamente antirazzista.

Redazione di Malanova


Note

(1) Calabria, proteste ad Amantea dopo l’arrivo di 13 dei 28 migranti positivi al coronavirus, disponibile al seguente URL: https://www.repubblica.it/cronaca/2020/07/12/news/coronavirus_positivi_28_immigrati_sui_70_sbarcati_al_porto_di_roccella_jonica-261701548/

(2) Analizzando le macerie. Riflessioni sparse sulla fase, disponibile al seguente URL: http://www.malanova.info/2020/07/16/analizzando-le-macerie-riflessioni-sparse-sulla-fase/

(3) ‘Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all’affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia, disponibile al seguente URL: https://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/15/news/_ndrangheta_smantellata_la_cosa_arena_68_fermi-165476854/

(4) Qu’est-ce-que l’integration?, «Hommes et immigration», n. 1182, dicembre 1994

(5) Integrazione, «Corriere della Sera (La Lettura)», 31 dicembre 2016

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