AUTOMAZIONE, ROBOTICA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE CAMBIERANNO PER SEMPRE IL LAVORO (CHE NON C’È)

Con questo intervento proviamo a continuare la nostra inchiesta redazionale su robotica e intelligenza artificiale (leggi qui e qui), due settori della ricerca – pubblica e privata – che stanno progressivamente trasformando i sistemi di produzione.

Anche in Italia la diffusione della robotica nei vari settori produttivi si fa sempre più incisiva. È infatti lo stesso Censis che nel suo 53° rapporto dedica un intero capitolo a questo processo: «negli ultimi cinque anni oltre la metà delle imprese italiane ha investito in alcuni dei fattori abilitanti necessari per applicare le innovazioni ai processi produttivi, quali una connessione internet in grado di assorbire grandi volumi di dati scambiati in tempo reale, insieme a una infrastruttura anche basata sul cloud e al conseguente sforzo verso una maggiore sicurezza informatica».

Il nesso tra tecnologie avanzate e grandi investimenti è strettissimo: i settori nei quali maggiormente si registrano imprese che hanno effettuato investimenti importanti nell’innovazione digitale e conseguentemente nella robotica sono quelle tecnologicamente più avanzate: automotive, energia, biotech e servizi finanziari.

In Italia, la produzione industriale diventa sempre più automatizzata e la presenza massiva dell’automazione robotica nel ciclo produttivo italiano è confermata dal rapporto robot/addetti nell’industria manifatturiera. Nel solo 2018 nel nostro Paese sono stati installati 200 robot ogni 10.000 addetti nell’industria, il doppio rispetto alla media mondiale e alle medie nazionali di paesi come la Francia e la Spagna. Siamo invece in ritardo rispetto ad altri Paesi leaders della produzione industriale, come Germania (338) e Giappone (327), e rispetto a economie con una manifattura altamente tecnologica, come Singapore (831) e la Corea del Sud (774).

Anche le analisi scientifiche seguono questa tendenza, con oltre 10mila pubblicazioni sull’argomento: l’Italia è sesta al mondo nella ricerca robotica davanti a Francia, Canada, Corea del Sud e Spagna, con buona pace per chi, ancora oggi, è convinto della neutralità delle scienze applicate e della ricerca.

L’importanza di questo settore per le aziende produttrici italiane la si può dedurre dai dati sul commercio con l’estero: secondo il succitato rapporto Censis, la quota italiana relativa alle esportazioni mondiali di macchinari e apparecchiature meccaniche è pari al 6,1%, per un controvalore di 81,7 miliardi di euro e un saldo attivo pari a circa 50,6 miliardi di euro.

Come comparto industriale, la filiera della robotica italiana conta ben 104mila imprese, che sono cresciute del 10% negli ultimi cinque anni.

Dai robot domestici a quelli spaziali, crescono le tecnologie applicate all’industria, alla ricerca e alla sanità ma anche quelle relative alle pratiche quotidiane. Nel 4° rapporto sull’innovazione made in Italy curato dalla Fondazione Symbola e da Enel, con tecniche da storytelling ci spiegano come robot e automi entrano nella vita quotidiana e come la loro presenza è sempre più importante in varie attività: dalla pulizia della casa a quelle ludiche, ma anche nei servizi sanitari e di assistenza.

È “l’ambientalista” Ermete Realacci, Presidente di Symbola, a dirci che «Se si guarda l’Italia con occhi diversi si scoprono cose che altri umani non sanno leggere» aggiungendo «È così anche per la robotica che già oggi contribuisce a importanti filiere del Made in Italy come l’agroalimentare, la moda, il legno-arredo, la meccanica. Ed è attraversata dalle sfide del futuro, a cominciare dalla necessità di affrontare la crisi climatica, coniugando empatia e tecnologia. […] l’Italia è in grado di vincere qualsiasi sfida, grazie alla sua capacità di far sintesi tra funzionalità, bellezza, umanesimo, figlia di una cultura che nelle sfide tecnologiche più avanzate non dimentica la ricerca di un’economia e una società più a misura d’uomo, come affermiamo nel Manifesto di Assisi».

Ma ritorniamo per un attimo al rapporto del Censis e proviamo a incrociare un po’ di dati sulla produzione, il lavoro e il reddito. Quello che viene fuori – è lo stesso Censis che sostanzialmente lo afferma – è il «bluff dell’occupazione che non produce reddito e crescita».

Tralasciando i nefasti esiti che nei prossimi mesi produrrà la crisi da Covid-19, tra il 2007 e il 2018 l’occupazione è aumentata di 321.000 unità, con una variazione positiva dell’1,4%. La tendenza è rimasta invariata anche nei primi sei mesi del 2019 quando si è registrato un incremento di mezzo punto percentuale rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Questo dato però nasconde alcuni elementi di criticità.

Se i dati vengono letti attraverso la lente delle ore lavorate, l’esito è decisamente diverso: il Censis stima una riduzione di 867.000 occupati a tempo pieno e un aumento di quasi 1,2 milioni di occupati part time. Nel periodo 2007-2018 quest’ultima tipologia di lavoro è cresciuta del 38% e oggi, ogni cinque lavoratori, uno è impegnato sul lavoro per metà del tempo.

Ancora più drammatico è il dato relativo al part time cosiddetto involontario. Il numero di occupati che è obbligato senza alternativa a lavorare a mezzo tempo ha superato la soglia dei 2,7 milioni, passando tra il 2007 e il 2018 dal 38,3% del totale dei lavoratori part time al 64,1%. L’incremento in termini assoluti è stato superiore al milione e mezzo.

Dunque, il lavoro, se visto come volume di risorse dedicate alla produzione di valore e se misurato con le unità di lavoro a tempo pieno, è diminuito nell’arco degli undici anni considerati. L’input di lavoro si riduce di 959.000 unità e parallelamente il volume di ore effettivamente lavorate diminuisce di oltre 2,3 miliardi.

La dinamica produttiva basata sul “più occupati e meno lavoro” condiziona la disponibilità di reddito: l’impatto negativo sulle retribuzioni del lavoro dipendente è pari al 3,8% che in soldoni significa oltre 1.000 euro in meno.

Nel solo 2018, escludendo i lavoratori agricoli, sono circa 2 milioni i lavoratori dipendenti del comparto privato che possono contare soltanto su 79 giornate retribuite all’anno. Questa tendenza si sta estendendo anche nel settore pubblico con 142.000 dipendenti che versano in analoghe condizioni.

Sono invece 2.113.000 i lavoratori – escludendo i lavoratori agricoli e i lavoratori domestici – che hanno bisogno di più di un rapporto di lavoro per poter raggiungere un livello reddituale dignitoso, ma che per molti resta sempre e comunque di sopravvivenza: 913.000 ricevono una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi per almeno un rapporto di lavoro di quelli in essere e circa un terzo di chi è sotto i 9 euro ha un’età compresa tra 15 e 29 anni (circa un milione di lavoratori).

La concentrazione maggiore riguarda gli operai, che costituiscono il 79% del totale. In sostanza, 8 operai su 10 in Italia ricevono un salario inferiore a quello stabilito per legge.

Incrociando adesso i dati relativi allo sviluppo dell’automazione con il dato occupazionale e reddituale si può iniziare a tracciare una tendenza, oramai sufficientemente consolidata, dell’accumulazione flessibile del Capitale, nella quale il nesso tra produzione e occupazione appare incrinato: a una diminuzione della produzione corrisponde automaticamente una drastica riduzione del dato occupazionale, ma questa dinamica non è più vera al contrario. Le capacità tecnologiche e informatiche, infatti, consentono incrementi importanti della produzione ai quali però non corrispondono altrettanti incrementi occupazionali, proprio in virtù degli alti livelli di produttività introdotti dalle nuove tecnologie.

L’automazione, la robotica e le tecnologie informatiche più in generale rappresentano infatti soltanto delle innovazioni di processo che modificano senz’altro il ciclo di produzione ma poco o nulla il prodotto finale e la logica che lo determina: una automobile resta sempre un automobile se pur tecnologicamente più avanzata rispetto a quella di un ventennio fa, ma risponde alla medesima logica di qualsiasi altro prodotto di consumo. L’innovazione sta solo nell’abbattere i costi.

Le vie verso nuovi mercati, quindi, diventano sempre più strette e gli sbocchi su di essi non vengono certamente creati dalle nuove tecnologie, anzi − senza voler scomodare Marx e i Grundrisse – occorre sempre tenere ben a mente che nella storia del capitalismo il progresso tecnologico ha sempre “liberato” lavoro e, come processo intrinseco, ha sempre causato disoccupazione.

Il sistema capitalistico prova a compensare il dato disoccupazionale (non per spirito umanistico ma solo per necessità di autotutela) creando nuovi prodotti e nuovi mercati, nuova domanda e nuova produzione. Questo ciclo però ha iniziato a incepparsi in quanto l’automazione non amplia di molto la gamma di produzione ma “semplicemente” la ristruttura e la modifica tramite un incremento sempre più elevato di flessibilità. Tutto questo non crea occupazione ma, in tutta evidenza, la distrugge.

La disoccupazione non è più quindi un fenomeno esclusivamente congiunturale. Esso diventa strutturale e, di conseguenza, il salario viene progressivamente sganciato dalla produttività per il semplice fatto che quest’ultima dipende in massima parte non più dall’apporto lavorativo, ma dal tipo di macchinario esistente e utilizzato nella filiera produttiva.

Se oggi, nonostante l’onda lunga della crisi del 2008, i dati sulla produzione risultano in costante crescita è perché − a parità di lavoro e di tempo − basta premere un tasto per inviare un input elettronico alla macchina e questo a discapito dell’utilizzo di forza-lavoro.

È evidente allora come il lavoro e il salario a esso connesso, stiano progressivamente assumendo i connotati di elementi esterni al meccanismo di accumulazione.

Se questa tendenza progressivamente sta assumendo un valore strutturale, la rivendicazione del posto di lavoro e della piena occupazione diviene una lotta di retroguardia il cui esito sta assumendo toni drammatici sia in termini di sconfitta e frustrazione che di costruzione di una soggettività confliggente.

Coscienti di questi nostri limiti, proveremo dalle pagine di questo giornale ad abbozzare alcune possibili linee di tendenze che andrebbero esplorate e soprattutto praticate.

Redazione Malanova

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