di Alessandro GAUDIO*

La foto del papa che, in una piazza San Pietro vuota, non parla a nessuno ha senz’altro una forza evocativa dirompente e, perché evidentemente priva di tempo, destorificante. È, si può dire, l’esaltazione di una grande macchina creata per fermare il tempo che passa. Ma cosa evoca? Di certo, persino per il più fervente dei religiosi, è un’immagine di resa, a Dio, alle stelle o alla natura poco importa; è l’immagine del mondo che si demondanizza, della paura dell’uomo rispetto a ciò che non può controllare e del suo bisogno strenuo di sperare in qualcosa.

Si pone come simbolo di un’agonia religiosa, forse dell’agonia di tutti i simboli rituali, di fronte a una storia che deve far fronte, ogni giorno di più, alla sindrome di spaesamento di cui soffre la civiltà occidentale: dunque, quella foto unisce distruzione della ragione e svilimento della storia a una certa modernissima nostalgia dell’arcaico.

Eppure l’umanità, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra, in quel bisogno dell’immagine di Cristo per poter amare gli altri uomini («nessuno si salva da solo», ammette il papa), per mettere in causa se stessi davanti ai dolori e alle miserie degli altri. Abbiamo, cioè, bisogno di una mediazione per impegnarci verso chi vive intorno a noi e che richiede scelte e decisioni umane. Visto che il nostro rapporto con gli uomini si è venuto inaridendo, forse stiamo cercando di ristabilirlo in uno spazio sacro primordiale, con il tramite di Cristo o del calice della mensa eucaristica? Per riscoprire il vivo dei volti umani abbiamo davvero bisogno del simbolo senza tempo rappresentato dal papa lasciato da solo in piazza San Pietro? Insomma, questa foto fa da cortocircuito per una comunicante operosità sociale; eppure, mi chiedo, non sarebbe dovuto bastare, per esempio, il volto di chi continuiamo a respingere ai nostri confini per muoverci all’incontro con l’uomo? Non sarà, per caso, che noi non vogliamo questo incontro? Risulta senz’altro più semplice affidarci a un simbolo che possa mediarlo, ein Umweg diceva Marx a sua volta citato dal De Martino della Fine del mondo, una deviazione.

Per riplasmare una società o uno Stato, pur nella salvaguardia della libertà religiosa, avremmo bisogno di una maggiore confidenza nella responsabilità dell’opera umana che, lo abbiamo visto, non necessariamente è volta a ribadire la preminenza di quest’opera rispetto a ciò che umano non è, perché semplicemente corporeo o animale, ma che sbagliamo a considerare a noi contrapposto. Si tratterebbe, invece, di rendere meno teogenetico il nostro regime esistenziale mediante il ricorso a una forza morale che, quanto meno, restituisca alla semplice memoria la capacità di ricomporre il nostro capitale simbolico, sostituendo il vuoto freddo e pietrificato di quella piazza con il compito umano dell’esserci nel mondo, che sia in grado di metterlo in causa attraverso il confronto.

Torre della Signora, 31 marzo 2020

* R.A.S.P.A. (Rete Autonoma Sibaritide e Pollino per l’Autotutela)

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