PORDENONE. LE PSICOLOGHE E LE PSICOTERAPEUTE CI RACCONTANO UN’ALTRA STORIA RISPETTO A QUELLA DEI PREFETTI E DI SALVINI.

Siamo psicologhe psicoterapeute, esperte in Etnopsicologia, che lavorano all’interno del Servizio etno-psicologico rivolto a richiedenti asilo e rifugiati accolti a Pordenone e provincia.

I gravi fatti accaduti in questi giorni e le dichiarazioni che abbiamo letto sui giornali (alcune a nostro avviso non rispondenti al vero), ci hanno portato a voler parlare, a nome di coloro che non hanno voce e le cui storie ascoltiamo tutti i giorni.

La mattina del 17.07.2019 siamo state avvisate da alcuni nostri pazienti in piena angoscia poichè gli era appena stato comunicato un trasferimento immediato con destinazione sconosciuta. Scopriamo quindi che la sera prima era arrivata una comunicazione di trasferimento che coinvolgeva alcune persone, da parte della Prefettura, pare su ordine del Ministero dell’Interno. E’ arrivata una lista di nomi, non si sa seguendo quali criteri, di chi doveva essere trasferito, senza sapere nemmeno dove. Vi erano anche alcuni dei nostri pazienti, soggetti che avevano iniziato un percorso etno-psicologico, in alcuni casi anche un trattamento farmacologico con una presa in carico presso il Centro di Salute Mentale di Pordenone, con visite psichiatriche di controllo da effettuare in questi giorni. Alcuni ragazzi avevano anche iniziato dei corsi di formazione.

Nelle loro parole si leggeva il terrore di chi aveva iniziato un percorso e la paura e la rabbia per il fatto di dover troncare in pochi minuti un investimento e un impegno preso, in termini di progetto di vita, di relazioni e desideri. Contemporaneamente il percorso etno-clinico svolto con noi li stava aiutando ad affrontare profonde problematicità dovute ai traumi subiti nel loro Paese o durante il viaggio. Problematicità che devono essere prese in carico adeguatamente per non incorrere in atti autolesivi o comportamenti antisociali, pena un grave peggioramento di cui qualcuno dovrà prendersi la responsabilità.

Alcune di noi lavorano in questo ambito da molti anni e, nei casi di trasferimento, è stata sempre richiesta la nostra collaborazione per aiutare e supportare queste persone nella comprensione della decisione che era stata presa e per organizzare un passaggio di consegne con chi li prenderà in carico, anche con lettere di accompagnamento. In questi giorni invece non c’è stata alcuna possibilità di lavorare in modo serio e tutelante nei confronti di chi presenta forti e importanti disagi.

Inutile aggiungere che da un punto di vista psicologico, spostamenti così organizzati/disorganizzati, senza alcun preavviso, preparazione, condivisione (anche con chi li accoglierà, rispetto alle terapie in corso, per un minimo passaggio di consegne), rappresenta una grave violenza agita nei confronti di persone  fragili, prive anche di strumenti linguistici e culturali, che permettano una reale comprensione di ciò che accade.

Si aggrava la situazione a causa delle storie di violenza, spesso traumatiche, che portano a una condizione di profondo disorientamento esistenziale: hanno perso le loro famiglie (che in alcuni casi sono solo lontane, ma in altri sono in pericolo, disperse o addirittura alcuni membri sono deceduti) e hanno bisogno di ritrovare un contesto sicuro che permetta loro di ricostruirsi, rimettere insieme i pezzi della propria storia e della propria identità. Per tale motivo sono fondamentali la continuità nei percorsi, la possibilità di avere tempo di ricostruire relazioni di fiducia e la restituzione di un minimo di soggettività rispetto alle scelte della propria vita.

La violenza riduce la persona a oggetto passivo, privo di controllo sugli eventi, la cura implica il ridare al soggetto la titolarità delle scelte rispetto a se stesso, il lavorare per rimettere in gioco le sue risorse personali, la sua possibilità di scegliere. Questo trasferimento calato dall’alto senza un minimo di preavviso diviene quindi un evento che riattiva il trauma e reitera la violenza già sperimentata in passato.

Il lavoro di cura di queste persone è anche un lavoro di prevenzione, al fine di evitare un peggioramento della loro salute psico-fisica, quindi anche una cronicizzazione dei disturbi mentali. Evitare ciò significa non solo tutelare la persona, ma anche la comunità dove la persona è inserita, la società tutta dove queste persone si ritroveranno a vivere.

Curare gli altri significa anche occuparsi del contesto sociale più allargato, permettere ai migranti di inserirsi adeguatamente in un territorio, significa permettere loro di diventare risorsa per quel territorio e non problema. Mettere in atto politiche che feriscono l’altro significa mettere a rischio la convivenza di un’intera comunità, aumentare i costi della spesa sociale, della sicurezza e della salute.

Chiediamo quindi che qualcuno si prenda la responsabilità e ci spieghi perchè ciò è accaduto ed è accaduto in questo modo, potendo discutere delle situazioni che questi ragazzi stanno affrontando al fine anche di rimetterli nel contesto in cui stavano vivendo e si stavano muovendo in maniera corretta, legale e regolare prima di quella data.

Pordenone, 19/07/2019

Le psicologhe e Psicoterapeute
Valentina Zambon
Sara Madella
Noemi Galleani

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