La ricostruzione della storia dell’ILVA nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Nonostante gli studi di importanti enti pubblici dimostrassero reali legami tra le malattie e l’inquinamento, nessun governo, a tutt’oggi, se l’è sentita di chiudere il gigante siderurgico. Economia, investimenti, lavoro, sono sempre venuti prima della salute e dell’ambiente. Tanti i decreti che nel tempo hanno posticipato i tempi della bonifica. Nell’articolo le tappe contenute nella ricostruzione fatta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

La società Ilva S.p.a. è specializzata nella produzione e lavorazione di acciaio iniziata nei primi anni del XX secolo a Genova.  Lo stabilimento di Taranto ha iniziato ad operare nel 1965. Nel 1995, la società è stata privatizzata, acquistata dal gruppo Riva. In considerazione della sua insolvenza, fu successivamente posto sotto amministrazione provvisoria. L’impatto delle emissioni prodotte dagli stabilimenti di Ilva sull’ambiente e sulla popolazione locale è stato oggetto di un ampio dibattito per molti anni. Nel 2002, le autorità giudiziarie hanno bloccato alcune attività in uno degli stabilimenti della società Ilva, con sede a Cornigliano (Genova). Studi epidemiologici hanno infatti dimostrato un legame tra le particelle emesse dalla centrale e il tasso di mortalità della popolazione, che è molto più alta nella zona interessata rispetto ad altre parti della città. Nel 2005 è stato chiuso anche uno degli altiforni dello stabilimento di Cornigliano.

Lo stabilimento di Taranto è il sito più importante dell’azienda e il più grande complesso industriale siderurgico in Europa. Ora copre un’area di circa 1.500 ettari e conta circa undicimila dipendenti. L’impatto delle emissioni dell’impianto sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale ha portato a numerosi rapporti scientifici, le cui principali informazioni sono riassunte di seguito.

Nel 1997, il Centro europeo per l’ambiente e la salute ha pubblicato un rapporto che descrive una situazione di rischio per la salute della popolazione residente in un territorio che era stato classificato come ad “alto rischio ambientale” da una deliberazione del Consiglio dei ministri del 30 novembre 1990. Questo, in particolare, a causa dell’inquinamento industriale generato da Ilva per il periodo 1980-1987. Un’altra relazione dello stesso organismo, pubblicata nel 2002, ha aggiornato i risultati di questo primo rapporto per l’anno 1994. Secondo questo secondo rapporto, il tasso di mortalità maschile per i tumori nell’area di Taranto era superiore del 10,6% rispetto al tasso osservato nella regione e il rischio di mortalità femminile era anche più alto rispetto alla media regionale, tra gli altri per cause tumorali.

L’ARPA è stata istituita in Puglia nel 1999. Secondo il suo rapporto del 2002, vari studi pubblicati da enti locali (l’Osservatorio Epidemiologico della Puglia e USL, l’autorità sanitaria locale), nazionali (l’Istituto Superiore di salute e ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico e sostenibile) e internazionale (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno dimostrato un aumento dei tumori (compreso il polmone, pleura e apparato digerente) nell’area definita ad “alto rischio ambientale” a partire dagli anni ’70. Secondo la stessa relazione, altri studi avevano anche dimostrato la presenza nell’aria di un’alta concentrazione di un certo numero di sostanze inquinanti, il cui pericolo per la salute umana era riconosciuto.

Nel 2009, uno studio epidemiologico pubblicato su una rivista specializzata (“Analisi  statistica dell’incidenza di alcune malattie cancerose nella provincia di Taranto, 1999-2002” – EP anno 33 (1-2) gennaio-aprile 2009) è stato condotto da membri dell’Osservatorio Epidemiologico della Puglia, dell’Università di Bari e dell’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale. Ha mostrato un aumento dei tumori del polmone, della vescica e della pleura negli uomini nell’area interessata. L’area geografica di destinazione era la provincia di Taranto (circa 580.000 abitanti), comprendente 29 comuni.

Il Rapporto 2012 “SENTIERI” preparato dall’Istituto Superiore di Sanità, su richiesta del Ministero della Salute, ha formulato raccomandazioni per interventi di sanità pubblica sulla base dei dati relativi alle cause di morte nei siti di interesse nazionale per servizi igienico-sanitari (SIN) per il periodo 1995-2009. Ha dimostrato che, dato l’inquinamento ambientale della regione dovuto alle emissioni dello stabilimento Ilva, a seconda della distanza tra il luogo di residenza delle persone interessate e i siti delle emissioni nocive presi in considerazione, c’era un nesso causale tra l’esposizione ambientale agli agenti cancerogeni inalabili e lo sviluppo di tumori polmonari e della pleura e patologie del sistema cardiocircolatorio. Più in dettaglio, il rapporto ha mostrato che le morti di uomini e donne che risiedono nella regione interessata per i tumori, malattie circolatorie e altre malattie sono stati superiori rispetto alle medie regionali e nazionali.

Secondo il rapporto SENTIERI 2014, il tasso di mortalità nel SIN di Taranto era generalmente superiore alla media regionale per uomini, donne e bambini. Il numero di ospedalizzazioni per tumori e patologie del sistema cardiocircolatorio era anche più elevato rispetto alla media regionale.

Lo studio guidato dal Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio, ARPA, Centro sanitario e ambientale pugliese e ASL (Agenzia Sanitaria Locale) di Taranto, ha interessato 321.356 persone residenti nei comuni di Taranto, Massafra e Statte tra il 1 ° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2010. Questo studio ha dimostrato un nesso causale tra esposizione industriale a PM10 e SO2, dovuta all’attività produttiva di Ilva, e aumento della mortalità per cause naturali, tumori, malattie renali e cardiovascolari dei residenti.

Il rapporto del Registro dei Tumori di Taranto 2016, che ha fatto seguito a un primo studio nel 2014, ha confermato una maggiore incidenza di neoplasie a Taranto rispetto al resto della provincia, incluso il cancro allo stomaco, colon, fegato, polmone, rene, vescica, tiroide, seno, utero e prostata.

Secondo il rapporto ARPA 2016 (“Rapporto supplementare sul controllo dei depositi di diossina a Taranto”) – che ha seguito la revisione dell’autorizzazione ambientale integrata concessa all’Ilva – concernente l’attività di sei stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria, il livello di diossine nel distretto di Tamburi (Taranto) era eccessivo rispetto a quello autorizzato.

In una delibera del 30 novembre 1990, il Consiglio dei ministri ha identificato i comuni “alto rischio ambientale” (comuni di Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte) e ha chiesto al Ministero dell’Ambiente di mettere in atto un piano di disinquinamento in vista delle misure igienico-sanitarie del territorio. Con un decreto del 15 giugno 1995, il Ministero dell’Ambiente istituì una commissione composta da membri del Governo, dal Consiglio Regionale della Puglia e dalle istituzioni locali per raccogliere i dati necessari per l’attuazione di detto piano. Il Ministero ha ordinato, tra l’altro, lo svolgimento di studi epidemiologici e la creazione di un registro dei tumori allo scopo di raccogliere dati statistici relativi allo sviluppo di patologie tumorali nel territorio in questione.

Con decreto del Ministero dell’Ambiente del 10 gennaio 2000, in seguito alla legge n. 426/2008, i comuni di Taranto e Statte sono stati inclusi tra i SIN. Nel frattempo, con decreto 30 novembre 1998, n. 196, il Presidente della Repubblica aveva approvato il piano di decontaminazione. Ciò riguardava l’intera area nota come ad “alto rischio ambientale”.

Nel 2003 e nel 2004, Ilva e le amministrazioni locali hanno concluso diversi accordi (atti d’intesa) per mettere in atto misure per ridurre l’impatto ambientale dell’impianto. Il 23 ottobre 2006 il Consiglio regionale di Puglia e Ilva hanno firmato un accordo in base al quale la società si è impegnata a misurare l’emissione di diossina e a nominare un terzo organismo (il Consiglio nazionale delle ricerche) ai fini identificazione delle principali fonti di emissioni di particelle pesanti. La prima campagna per il controllo delle emissioni di diossina dal più grande dei duecento camini dell’impianto siderurgico di Taranto è iniziata nel 2007. Le autorità regionali al momento non disponevano di strumenti per misurare diossine e altri microinquinanti il campionamento è stato affidato a terzi. Nel 2008 l’ARPA, che ora disponeva degli strumenti necessari per i controlli, ha pubblicato i primi risultati dei controlli effettuati, che hanno dimostrato che, nel distretto di Tamburi (Taranto), le emissioni di benzopirene contenute nel PM10 erano superiori ai limiti autorizzati.

Il 4 agosto 2011, il Ministero dell’Ambiente ha concesso a Ilva la prima AIA, consentendo alla società di continuare la propria attività produttiva, subordinatamente all’adozione di misure volte a ridurre l’impatto delle emissioni sull’ambiente attraverso l’uso delle “migliori tecniche disponibili”. Su richiesta del presidente della regione Puglia e sulla base dei dati risultanti dal controllo ARPA (che indica il superamento delle emissioni di benzopirene consentiti) in data 27 ottobre 2012, è stata concessa una seconda AIA, che modifica la prima stabilendo nuove condizioni e con l’obbligo di presentare una relazione trimestrale sull’attuazione delle misure necessarie per raggiungere i risultati in termini di migliorare l’impatto ambientale dell’impianto.

Dalla fine del 2012, il governo ha adottato diversi testi, tra cui i decreti-legge noti come decreti legge “salva-Ilva”, riguardanti l’attività della società.
Il decreto legislativo n. 207 del 3 dicembre 2012, recante “Disposizioni urgenti per la protezione dell’ambiente, della salute e del lavoro nelle attività delle società di interesse strategico nazionale”, ha autorizzato Ilva a continuare l’operazione per un periodo non superiore a 36 mesi, subordinatamente al rispetto dei requisiti dell’AIA del 2012. Il 22 gennaio 2013, il Giudice istruttorio preliminare (“GIP”) di Taranto ha presentato un ricorso costituzionale presso la Corte costituzionale riguardante la parte di questo decreto-legge che autorizza la società a continuare la sua attività, nonostante le emissioni nocive. Secondo il giudice, il decreto legge violava, tra l’altro, il diritto alla salute e ad un ambiente sano, protetto dall’articolo 32 della Costituzione.

Con sentenza 9 aprile 2013, n. 85, la Corte costituzionale ha dichiarato la domanda sottopostale manifestamente infondata. Riteneva che l’attività produttiva della società potesse legittimamente proseguire, a condizione che le misure di controllo e protezione previste dall’AIA 2012 fossero rispettate e che, in caso di violazione, le sanzioni previste dalla legge fossero applicata.

Nel parere della Corte costituzionale, il decreto legge in questione prevedeva un processo di risanamento ambientale che tenesse conto del diritto alla salute e all’ambiente, da un lato, e il diritto al lavoro dall’altra parte, entrambi garantiti dalla Costituzione.

In considerazione dei gravi e significativi rischi per la salute e l’ambiente derivanti dall’attività produttiva dell’Ilva, nonché dell’inosservanza dei requisiti dell’AIA 2012, le autorità hanno nel frattempo emanato il decreto legge 4 giugno 2013, n. 61, che stabilisce la nomina di un amministratore temporaneo (commissario straordinario), che sarà responsabile della gestione della società, per un periodo fino a sei mesi.

Ha anche deciso la nominata di una commissione di esperti. Dopo la sua istituzione, ha proposto al Ministero dell’Ambiente un piano che prevede misure di protezione dell’ambiente e della salute per i lavoratori e la popolazione (“il piano ambientale”), contenente anche le azioni da intraprendere e le scadenze per l’azione. l’implementazione di questi per garantire la conformità con l’AIA.

Il piano ambientale è stato approvato dal Ministero dell’Ambiente con il decreto n. 53 del 3 febbraio 2014, che ha approvato l’emendamento all’AIA.
Il decreto legislativo 31 agosto 2013, n. 101, recante “Disposizioni sulle società di interesse strategico nazionale”, ha autorizzato, tra l’altro, la costruzione di discariche per rifiuti pericolosi, non pericolosi e pericolosi collocati in prossimità del sito di produzione dell’azienda Ilva, per garantire l’attuazione delle misure previste nel piano ambientale

Ai sensi del decreto legislativo 10 dicembre 2013, n. 136, che stabilisce “Misure urgenti per affrontare le emergenze ambientali e industriali e promuovere lo sviluppo delle aree interessate”, le misure previste dal piano ambientale sono state considerate raggiunte quando: alla data di nomina dell’Amministratore provvisorio, la qualità dell’aria nell’area all’esterno dell’impianto non si è deteriorata e i passaggi per raggiungere almeno 80% delle prescrizioni contenute nell’AIA era stata intrapresa.

Il decreto legislativo 16 luglio 2014, n. 100, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione del piano ambientale”, ha indicato che almeno l’80% dei requisiti del piano ambientale doveva essere raggiunto entro il 31 luglio 2015 e che tutti queste prescrizioni dovevano essere al più tardi il 4 agosto 2016. Il decreto legge è diventato nullo a causa della mancanza di conversione; tuttavia, le sue disposizioni sono state incorporate nella legge n. 116 del 2014.

Il decreto legislativo n. 1 del 5 gennaio 2015 ha dichiarato che il piano ambientale sarebbe considerato come eseguito quando, il 31 luglio 2015, l’80% delle prescrizioni previste per quella data sarebbe stato adempiuto. Inoltre, tale disposizione prevedeva che le misure istituite nell’ambito di tale piano non potessero dar luogo alla responsabilità penale o amministrativa dell’amministratore provvisorio, poiché tali misure costituivano attuazione delle migliori norme di prevenzione in materia ambientale e tutela della salute, della sicurezza pubblica e dell’ambiente di lavoro.

Con decreto del 21 gennaio 2015, il Ministero dello Sviluppo Economico ha concesso a Ilva il beneficio del procedimento di amministrazione provvisoria a causa del suo stato d’insolvenza rilevato nel frattempo. Il 18 giugno 2015 una delle stufe delle acciaierie di Taranto è stata oggetto di un sequestro giudiziario nel corso di un procedimento penale riguardante la morte di un lavoratore, che era stato rovesciato da un proiezione di materiali incandescenti. Il decreto legislativo 92/2015 ha autorizzato l’impianto a continuare la sua attività per un periodo di dodici mesi dal sequestro della stufa, in attesa dell’adeguamento delle norme di sicurezza sul luogo di lavoro. Il testo è diventato poi oggetto di una sentenza della Corte Costituzionale (n ° 58 del 23 marzo 2018), che conclude che è incostituzionale in quanto le autorità si erano concentrate eccessivamente sulla garanzia alla continuazione dell’attività produttiva, pregiudicando la tutela dei diritti alla salute e alla vita garantiti dalla Costituzione.

A partire dal 2016, Ilva è stata oggetto di una procedura di vendita mediante un’offerta internazionale, attualmente in corso. Le immunità amministrative e penali sono state estese al futuro acquirente dello stabilimento.

Ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017, il termine per l’attuazione delle misure previste dal piano ambientale è stato prorogato fino all’agosto del 2023.

Nell’ambito di un ricorso di annullamento e sospensione dell’esecuzione di tale decreto, la Regione Puglia e il comune di Taranto hanno denunciato dinanzi al Tribunale  amministrativo pugliese le conseguenze, in termini di ambiente e salute, della continua estensione dei limiti di tempo per l’esecuzione dei requisiti ambientali. A questo proposito è stata sollevata anche una questione di costituzionalità. Secondo le informazioni risultanti dai file, i relativi procedimenti sono attualmente in sospeso.

Diversi procedimenti penali sono stati avviati contro i dirigenti della società Ilva per disastro ecologico, avvelenamento di sostanze alimentari, mancata prevenzione degli incidenti sul luogo di lavoro, degrado dei beni pubblici, emissione di sostanze inquinanti e inquinamento atmosferico. Alcuni di questi procedimenti sono culminati in condanne nel 2002, 2005 e 2007.

Tra l’altro, con sentenza n. 38936 del 28 settembre 2005, la Corte di Cassazione ha condannato i gestori della fabbrica Ilva di Taranto per l’inquinamento atmosferico, lo scarico di sostanze pericolose e l’emissione di particelle. Ha rilevato in particolare che la produzione di particelle è proseguita nonostante i numerosi accordi conclusi con le autorità territoriali nel 2003 e nel 2004.

I procedimenti n. 938/10 sono stati istituiti presso la Corte d’assise di Taranto contro quarantaquattro persone fisiche e tre persone giuridiche, che sono state oggetto di trentaquattro accuse per atti che si sono svolti tra il 1995 e 2013, relativo tra l’altro a: i) l’emissione di sostanze nocive per la salute e l’ambiente, che rappresenta un grave rischio per la salute pubblica e che ha causato la morte di alcuni residenti dei quartieri che si affacciano sul sito produzione dell’azienda Ilva de Taranto e patologie provocate in altre persone; (ii) contaminazione di acqua, prodotti della terra e animali destinati al consumo umano; (iii) inquinamento ambientale dell’aria; (iv) la diffusione di informazioni riservate da parte di funzionari del Ministero degli Affari Esteri incaricati di concedere l’AIA.

Il 30 marzo 2012 il GIP di Taranto ha commissionato una perizia chimica e una perizia epidemiologica per valutare l’impatto delle emissioni dell’impianto sull’ambiente e sulla salute umana. Secondo il rapporto degli esperti chimici, Ilva produceva gas e vapori pericolosi per la salute dei lavoratori e della popolazione locale. Questo rapporto affermava inoltre che le misure imposte per prevenire la dispersione di fumi e particelle nocive non erano state rispettate e che i valori di diossina, benzopirene e altre sostanze pericolose per la salute non erano conformi ai requisiti stabiliti. disposizioni regionali, nazionali ed europee. Secondo il rapporto di esperti epidemiologici, le patologie cardiovascolari, respiratorie e tumorali sono aumentate a causa delle emissioni inquinanti prodotte da Ilva.

Sulla base di queste relazioni, il 25 luglio e il 26 novembre 2012, il GIP ha ordinato il sequestro di sei officine di fabbrica e acciaio prodotto dalla data del primo sequestro.

Il 30 novembre 2012, il giudice ha respinto una richiesta di revoca dell’arresto preventivo presentato da Ilva, rilevando tra l’altro che i requisiti di intervento urgenti per la protezione della popolazione locale non erano stati presi in considerazione. conto ai sensi dell’AIA.

Il procedimento n. 9693/14 è stato avviato a seguito del deposito da parte di un gruppo di cittadini di una denuncia contro l’amministratore provvisorio e il direttore dell’impianto di Taranto per le emissioni pericolose e la gestione dei rifiuti non autorizzati. La procura ha chiesto il rigetto del caso.

Nel contesto di una procedura di infrazione contro l’Italia, il 16 ottobre 2014 la Commissione europea ha emesso un parere motivato chiedendo alle autorità italiane di porre rimedio ai gravi problemi di inquinamento riscontrati sul sito della società Ilva di Taranto. Ha osservato che l’Italia aveva fallito nei suoi obblighi di garantire la conformità dell’impianto siderurgico ai requisiti della direttiva sulle emissioni industriali (direttiva 2010/75 / UE, che ha sostituito la direttiva 2008 / CE a partire Gennaio 2014).

La Commissione europea ha rilevato che l’elevato livello di emissioni del processo di produzione dell’acciaio non era diminuito e che i fumi di particolato e le polveri industriali venivano rilasciati dal sito, con gravi conseguenze per l’industria. ambiente e per la salute della popolazione locale. Ha anche osservato che i test hanno rivelato l’esistenza di un forte inquinamento dell’aria, del suolo, delle acque superficiali e delle acque sotterranee sul sito della società Ilva e nelle vicinanze della città di Taranto.

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