RAPPORTO CNEL SUL MERCATO DEL LAVORO: EVOLUZIONE DELL’OCCUPAZIONE TRA LA CRISI DEL 2008 E LA CRISI PANDEMICA

«Meglio così che disoccupate», dicono. Un “male minore” che si sta diffondendo, ma che la legge può smascherare di «Dobbiamo ridurre l’orario lavorativo, altrimenti non posso più tenerti in azienda». È la frase che la maggior parte delle donne che oggi in Italia lavora si è sentita dire più spesso. O accetti il part time o perdi il lavoro. «Va bene», ha risposto Luisa, 53 anni, assunta da un’importante azienda di abbigliamento. Ha accettato la riduzione di orario e stipendio, pur sapendo che la mole di lavoro non sarebbe diminuita. «Sulla carta ho un part time, in realtà lavoro full time», racconta. [1]

Nel 2019 il livello di occupazione ha superato di poco quello relativo al periodo precedente la crisi del 2008 (+ 500mila ovvero + 2,2%). Anche rispetto all’anno precedente il dato è fortemente positivo. Tutto questo se si valutano i numeri assoluti. Diverso è se si tiene conto del dato complessivo e quindi le ore lavorate e le retribuzioni. In questo caso risulta evidente che l’uscita dalla crisi era ancora in là da venire. La situazione si è nuovamente aggravata, ovviamente, a causa del lockdown del primo trimestre 2020, situazione che non ha precedenti storici.

“Dal 2008 al 2013 sia le ore lavorate, sia le unità di lavoro diminuiscono molto più delle persone occupate, ma ciò si deve solo in parte all’aumento delle ore di cassa integrazione (non lavorate da persone giuridicamente e anche statisticamente occupate), che pure quintuplicano, poiché tradotte in occupati a tempo pieno, crescono da meno dello 0,6% al 3,4% degli occupati. Infatti, come si è

mostrato nel Rapporto CNEL 2018, la ben più forte caduta del monte ore lavorate si deve soprattutto al vero e proprio crollo dei rapporti di lavoro a tempo pieno, solo in piccola parte compensato dall’aumento di quelli a tempo parziale. Successivamente, dal 2013 al secondo trimestre 2019, la ripresa delle ore lavorate e delle unità di lavoro è di pochissimo inferiore a quella delle persone occupate poiché alla drastica riduzione della cassa integrazione, che nel primo semestre del 2019 giunge a incidere soltanto sullo 0,5% degli occupati, si accompagna una ripresa dei posti di lavoro segnata da una minore, ma ancor forte presenza dei rapporti a tempo parziale.” [2]

Nel 2019 ci troviamo di fronte, dunque, ad un numero di occupati leggermente superiore ai livelli pre 2008 ma con un netto decremento del numero delle ore e quindi delle retribuzioni.

Il lavoro a tempo pieno è nettamente diminuito (-8% nei primi 5 anni dopo la crisi) in parte rimpiazzato da lavoro part-time. Inoltre si è assistito ad una modificazione qualitativa dei rapporti part-time, essendo cresciuti i lavoratori costretti ad accettare lavori con una decurtazione dell’orario settimanale rispetto a quelli che hanno preferito queste tipologie contrattuali per cause familiari, di studio o per altre motivazioni personali.

Dal 2008 al 2019 gli occupati involontari con contratto part-time sono cresciuti di 1.560.000 unità, passando dal 5,8% al 12,3%, mentre quelli a tempo pieno hanno perso quasi 680.00 unità, scendendo dal 85,7% al 81,0% e quelli a tempo decurtato per altri motivi hanno perso quasi 400.000 unità, scendendo dal 8,4% al 6,7%. (CNEL 2019)

Nella mappa contrattuale di questi ultimi 11 anni si registrano anche altre trasformazioni come la diminuzione dei lavoratori indipendenti – piccoli artigiani e commercianti – mentre avanza il dato degli “autonomi” che però spesso prendono il posto di altre tipologie contrattuali più onerose per le aziende. Pensiamo all’utilizzo scorretto dei contratti di collaborazione e le “false partite IVA”.

Cambia anche la composizione per genere. Storicamente le donne, vista la loro tradizionale occupazione in lavori di cura spesso non retribuiti oltre al lavoro, hanno sempre avuto percentuali importanti di lavoro part-time volontario. Questo è rimasto costante o addirittura è cresciuto in paesi con una legislazione favorevole come l’Olanda o il Belgio mentre è crollata nell’Europa meridionale, e quindi in Italia, dove è aumentata la quota di part-time involontario.

Un approfondimento a parte merita l’Olanda dove oltre il 70% delle donne lavora part-time e quasi totalmente in maniera volontaria. Questo è frutto di una visione politica che portò nel 2000 all’approvazione del “Work and Care Act” con il quale si incentivò il lavoro part-time tanto che Jelle Visser definì l’Olanda la prima “part-time economy” al mondo. Era l’inizio di una sperimentazione oggi seguita dalla Svezia con la sua adozione della giornata lavorativa di 6 ore. Il tentativo esplicito è quello di raggiungere la piena occupazione spalmando le ore disponibili e consentendo maggiore tempo libero ai lavoratori ed alle lavoratrici. Certo, esperimento funzionante ma con tanti punti critici come il fatto che spesso il lavoro part-time non è economicamente sufficiente e quindi in media in ogni famiglia ci sono 1 lavoratore/lavoratrice e mezzo e che la maggior parte dei lavori non a tempo pieno sono svolti dalle donne (oltre il 70% contro il 20% maschile) il che denuncia che siano sempre loro a svolgere i lavori di cura casalinghi, non retribuiti, e spesso a detrimento della carriera lavorativa. [3]

Ritornando al part-time involontario: ”Il caso più clamoroso è quello dell’Irlanda, ove la percentuale è cresciuta dal 3% del 2008 sino al 12% del 2013, ma egualmente esplosiva è stata la crescita del part time involontario in Spagna (da meno dell’8% a quasi il 16%), in Grecia (dal 4% a oltre l’8%) e ovviamente anche in Italia (da poco più del 10% a oltre il 18%)… dove ben 2 su 3 donne che lavorano a part time lo fanno involontariamente, mentre in quasi tutti i paesi dell’Europa centro-settentrionale il rapporto è di 1-2 su 10”. (CNEL 2019)

Nello stesso periodo preso in considerazione è cresciuto notevolmente anche il part-time involontario maschile, in Italia con cifre doppie rispetto alle altre nazioni dell’Europa occidentale. Il discrimine si ribalta anche sulla mappa geografica. In effetti il part-time involontario è più diffuso nelle regioni del Sud dove è più difficile trovare un posto di lavoro a tempo pieno mentre quello volontario è meglio accettato al Nord dove più di un componente familiare lavora full-time. Inutile dire che spesso il part-time statistico, soprattutto nel meridione, non corrisponde al reale impiego dei lavoratori che spesso sono costretti a lavorare molte ore in più “in nero” rispetto a quelle contrattuali.

La diminuzione delle ore lavorate e l’utilizzo dei contratti part-time non cambia molto a seconda dei settori. Tendenzialmente e percentualmente il dato cresce in tutti i settori produttivi.

La problematica si fa più complessa quando traduciamo le ore lavorate in retribuzione. Meno ore significano meno stipendio e laddove, come nel mezzogiorno, il lavoro part-time è anche l’unico a livello familiare ci si trova di fronte a situazioni economiche al limite della sopportabilità. Molti di questi lavoratori, infatti, con retribuzioni mensili che vanno dalle 500 alle 700 €, rientrano nella fascia di povertà. Sono a tutti gli effetti lavoratori poveri. Ovviamente la condizione peggiore è quella vissuta da chi è occupato in settori poco qualificati e chi ha famiglie numerose.

“Nel 2017 oltre il 39% dei lavoratori a tempo parziale involontario viveva in famiglie nelle quali non vi è altro reddito da lavoro: si tratta di un milione di famiglie, il 6,5% dei poco più di 15 milioni di famiglie con almeno un occupato. Erano il 34% nel 2008, quando il part time involontario era molto meno diffuso, e le famiglie in cui entrava un solo reddito da lavoro part time involontario erano soltanto poco più di 450 mila”.  (CNEL 2019)

Teniamo fuori volutamente, non è lo scopo di questo articolo, l’analisi del dopo Reddito di Cittadinanza che ha certamente rappresentato un importante sostegno per individui e famiglie inserite nella fascia di povertà assoluta e relativa. Quello che ci interessa è il dato tendenziale del lavoro al netto degli “ammortizzatori sociali”.

Cresce il dato occupazionale nelle fasce di lavoro molto qualificate (dirigenti, professioni intellettuali, tecnici che tendono però a proletarizzarsi diminuendo il grado di autonomia e di creatività e vedendo decrescere anche la retribuzione) e in quelle poco qualificate (addetti alla vendita e ai servizi alla persona, operai comuni) mentre diminuisce nella fascia intermedia (impiegati esecutivi, operai specializzati e qualificati). Cresce anche percentualmente la professionalità e l’educazione media, specie nei più giovani, che però sono anche quelli con meno probabilità di trovare un lavoro idoneo alle capacità acquisite con lo studio.

Anche dal XXI rapporto del CNEL sul Mercato del Lavoro viene fuori una tendenza occupazionale che dopo l’enorme flessione di occupati dei primi anni dopo la crisi del 2008 ritorna, in valore assoluto, solo 11 anni dopo ai valori pre crisi. Questa parità nel numero di lavoratori non corrisponde però ad un uguaglianza dal punto di vista delle ore lavorate e delle retribuzioni medie derivante dal dato crescente del lavoro part-time involontario.

NOTE:

[1] https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a30116830/lavoro-part-time/

[2] CNEL XXI rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2019

[3] JELLE VISSER and Alessia Vatta, Stato e mercato n. 62 (2), agosto 2001, pp. 293-335

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