Cosa dovrebbe essere il comune di un paese o di una città del Sud? Si tratta di una domanda non di poco conto in una Nazione che per decenni lo ha sfruttato come se fosse una colonia, ridimensionandone progressivamente le funzioni e le possibilità di intraprendere un percorso politico e amministrativo, vale a dire decisionale, diverso da quello imboccato dal Governo centrale; ancora oggi − in un quadro reso ancor più drammatico, a partire dal 2001, dalle conseguenze della Legge n. 443, conosciuta anche come Legge Obiettivo, e dagli effetti collaterali prodotti dalla riforma del Titolo V della Costituzione − il municipio è considerato come mera periferia la cui amministrazione, spesso con la collusione di élite locali clientelari, è regolata da decisioni prese altrove, grazie a una generale e supina accettazione di questo colonialismo culturale (che, pertanto, è spesso assimilabile a una forma di autocolonialismo) e di sfruttamento inappropriato delle risorse, dei territori, dei beni pubblici e dei beni comuni. E’ appena il caso di precisare che questi ultimi non rientrano nella specie dei beni pubblici, poiché si tratta di beni a titolarità diffusa, potendo appartenere non soltanto a persone pubbliche, ma anche a privati. Essi esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona. Tali utilità, sancite dalla Costituzione, dovrebbero essere salvaguardate e, invece, anche la loro rilevanza si sta progressivamente estinguendo.

Eppure, se è una società etica quella che vogliamo, ovvero una società basata su bisogni essenziali che si incontrano nella necessità di risolvere i problemi di tutti i giorni; se davvero vogliamo una società che riconosca finalmente i diritti inalienabili, che difenda i membri più deboli, che estenda il diritto alla tutela della natura, dell’ambiente e del paesaggio, inteso questo in un’accezione storica, sociale, politica, prima ancora che filosofica ed estetica; se vogliamo tutto ciò, allora deve cambiare radicalmente la forma della produzione, della distribuzione della ricchezza e del consumo, partendo, è questa la nostra proposta, da una trasformazione totale nella forma stessa del comune, concepito, finalmente, come polo comunitario e centro politico di autogoverno. Una vera e propria comunità politica, hanno auspicato più volte giuristi insigni come Salvatore Settis e Paolo Maddalena, che consenta il passaggio da quella visione individualistica dei diritti, oggi diffusa ovunque ma sempre più esasperata al Sud, a una prospettiva sociale collettivistica che generi un rapporto proficuo tra popolo e territorio o, ma è la medesima cosa, tra individui e proprietà collettiva. E quanto poi sia conflittuale e distante oggi il rapporto tra lo Stato e le vere questioni territoriali è sotto gli occhi di tutti.

E’ così difficile pensare a un comune che, da un lato, integri la propria struttura decentrata in cooperazione con i consigli delle strutture vicine e, dall’altro, che gestisca le risorse economiche disponibili (ma, ovviamente, anche quelle naturali e culturali) attraverso, magari, la creazione di cooperative di produzione consociate che deroghino alle regole della concorrenza vigenti sul mercato? E’ davvero impensabile passare alla municipalizzazione dei servizi di luce e gas o allestire farmacie e cantine comunali? Fare in modo che il municipio ripristini e ridistribuisca le case popolari, lotti contro l’analfabetismo, contrasti apertamente la speculazione edilizia, la mafia e le clientele massoniche, curi la refezione scolastica, proponga degli sgravi fiscali per i beni di prima necessità, promuova lavori pubblici secondo un programma capillare che regoli l’utilizzo e l’operatività delle aree e razionalizzi magari la proprietà fondiaria è proprio inimmaginabile? Lo Stato − come persona giuridica e come popolo, dunque, come universalità concreta, ovvero come comunità anch’esso − manterrebbe quella funzione di controllo (sulle concessioni e sulle dismissioni, magari) alla quale mai avrebbe dovuto rinunciare concedendo eccezioni e deroghe, stimolando l’invasione e il depauperamento del territorio. Dovrebbe, invece, misurare le cose, per esempio verificare che le singole cooperative non diventino troppo grandi, che non si comportino, cioè, come imprese private, cercando di espandersi l’una a scapito dell’altra. Lo Stato, organizzato in sintonia con questa sorta di federalismo dal basso e senza l’ingombrante catafalco delle Regioni, fungerebbe da interconnessione tra le piccole unità decentrate che si autogovernano, non necessariamente seguendo linee di sviluppo moderniste (e sicuramente né globalizzate, né ottusamente sovraniste). Potrebbe supportare l’autonomia del comune nazionalizzando le fonti di energia e i servizi pubblici essenziali e provvedendo a un sistema legislativo che ne faciliti l’esercizio e magari − come è stato prospettato da più parti − fungere da prestatore a tasso d’interessi zero: fornirebbe, cioè, credito gratuito, permettendo, così, all’impresa comunale cooperativa e autogestita di mantenere la titolarità del surplus.

E a che cosa potrebbe servire questo surplus o residuo? Potrebbe essere reinvestito nelle diverse attività produttive coordinate; oppure indirizzato al miglioramento delle infrastrutture (anche delle tante stradine da niente, diceva Pasolini, che costellano il Meridione) e dei servizi, al soddisfacimento dei bisogni collettivi, quindi alla tutela del bene comune, uniformandosi a quel principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 118 della Costituzione e sempre più estesamente disatteso. La nuova forma del comune, non più metastasi di uno Stato infermo, consentirebbe di legare l’autogestione al federalismo statale in un tipo di anarchismo comunitario, improntato in fondo su una rilettura critica e fattuale del marxismo più ortodosso. Questo socialismo municipalista si richiama a un’idea di comune autonomo e libero, retto su un continuo scambio tra amministrazione e società; una municipalità che, essendo improntata sulla necessità di risolvere alcuni problemi, sulla politica delle cose, sulla ricerca della concretezza, sulla cooperazione, si pone come primo baluardo entro il quale ammaestrarsi alla irrinunciabile lotta contro le derive liberiste cui continua, invece, a soggiacere.

Prendere in considerazione questa strada è forse utopistico, ma certamente non irrealizzabile. Tant’è che proprio in questi giorni il Comitato Popolare Difesa Beni Comuni, Sociali e Sovrani sta patrocinando un’iniziativa che sembrerebbe non andare in una direzione diversa da quella qui delineata. Il diciotto dicembre scorso ha depositato presso la Corte di Cassazione il testo e la relazione di accompagnamento di una Legge Delega, frutto del lavoro della Commissione sui beni pubblici presieduta a suo tempo da Stefano Rodotà. L’articolato ambisce a riorganizzare lo statuto dei beni comuni attraverso la riformulazione dell’articolo 810 del Codice Civile al fine di includervi anche i beni immateriali, la distinzione dei beni in tre categorie (comuni, pubblici e privati), la sostituzione del regime della demanialità e della patrimonialità attraverso l’introduzione di una classificazione dei beni pubblici appartenenti a persone pubbliche, la definizione di parametri per la gestione e la valorizzazione di ogni tipo di bene pubblico. Il disegno di legge − che pur essendo perfettibile, se non altro chiede una discussione civile su principi irrinunciabili − è stato redatto dieci anni fa, ma non è mai stato discusso in Parlamento. L’iter di iniziativa popolare, sancito e regolato dall’articolo 71 della Costituzione, prevede nelle prossime settimane il lancio ufficiale della raccolta delle 50 mila firme necessarie e il deposito di un milione di firme che i promotori dell’iniziativa si sono prefissati come ambizioso obiettivo. Obiettivo che sarebbe stato senz’altro raggiunto con maggiore facilità qualora la proposta fosse stata predisposta, discussa e approvata all’interno di un’assemblea pubblica e non nelle segrete, che è impossibile definire popolari, dell’Accademia dei Lincei.

In questo modo la legge di iniziativa popolare, innestata su un corpo sociale tutt’altro che avvertito politicamente e ancora una volta ben distante dallo Stato, si trasforma in fine più che in strumento, in dispositivo che sia, cioè, in grado di promuovere lo sviluppo culturale, e si definisce ancora una volta come pratica estranea e calata dall’alto. Perché le gerarchie di potere e la conformazione del dominio non restino immutate, le forme partecipate che ancora sono consentite dalla nostra debole democrazia devono essere cercate e sfruttate senza timore, coinvolgendo direttamente gli spazi e il significato di parole come comune, comunità e bene comune le quali, se ben allocate, possono accordare consistenza a ciò che può sembrare utopia.

(Rendiamo i Comuni centri di autogoverno, «Left», n. 2, 11-17 gennaio 2019, pp. 36-38)

Alessandro Gaudio

Dipartimento di Culture, Educazione e Società, Università della Calabria

R.A.S.P.A. − Rete Autonoma Sibaritide e Pollino per l’Autotutela

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