Nelle ore precedenti alla crisi di governo, aperta per fini di potere personale da un Senatore di Rignano, a Roma moriva sul lavoro, a causa di un infarto, Adriano Urso.

Adriano era un lavoratore dello spettacolo che da qualche mese, perso il lavoro da musicista, lavorava, per vivere, come rider alle dipendenze di una delle tante piattaforme di food delivery. L’inasprimento della crisi economica dovuto alla pandemia, non gli ha permesso più di fare quello in cui eccelleva. Si è dovuto improvvisare rider, prendere il primo lavoro che gli si è presentato, con buona pace della retorica dei fannulloni ciabattati e poltronati che i veri parassiti italici seduti sugli scranni parlamentari scaricano addosso agli emarginati, ai disoccupati, ai percettori di una qualche forma di sussidio.

I governi che si sono succeduti in questi anni, compreso quello guidato dal giglio magico renziano, sono responsabili delle condizioni insostenibili dei ritmi di lavoro, del dilagare della precarietà, della diffusione dei cosiddetti lavoretti e di contratti a termine quasi sempre senza garanzie. La cancellazione dell’art. 18, la flessibilità spinta fino all’estremo, i contratti a tutele crescenti, hanno generato una precarietà sempre più diffusa e sistemica.

Chi incentiva le forme di lavoro gratuito e finanzia le piattaforme dei padroni non può dirsi innocente rispetto alle morti per mancanza di welfare, reddito, salari dignitosi. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. Mentre i padroni del mondo trovano, anche nella pandemia, il modo di espandere i loro profitti, sempre più persone scivolano dalla classe media a una povertà che non gli consente di tirare avanti con serenità.

Le piccole attività chiudono, le “partite iva”, spesso create ad arte, si bloccano, l’industria culturale arranca e persino la sanità, nonostante i proclami, sembra indietreggiare. Si assiste soltanto a un diuturno battibecco sulle grandi opere che, a partire dal ponte sullo stretto a finire al MES passando per il Recovery Found, diventano esclusivamente elementi funzionali al meccanismo di potere che stritolano le classi subalterne.

Non si può morire di lavoro, non è accettabile. E non si può più assistere a sindacati che chiudono contratti capestro sulla pelle di chi è costretto a svolgere i cosiddetti lavoretti per sopravvivere. Non si può più sopportare un sistema che polarizza la ricchezza nelle mani di poche persone al mondo.

Questo modello economico e sociale ha fallito, un altro muro è caduto dopo quello di Berlino. Non si può chiedere di bypassare questa pandemia, e prima di essa la crisi economica, trovando l’ennesimo palliativo. Ieri i tagli, oggi il vaccino.

Bisogna prendere atto del nuovo scenario, chiudere con il passato insostenibile che non ha saputo realizzare il sogno della ricchezza per tutti. C’è bisogno di ricominciare da capo, voltare pagina radicalmente, lavorando a un nuovo paradigma che tenga dentro il rispetto per l’ecosistema, la felicità dell’uomo e della donna, un progresso tecnologico a misura collettiva, una ricerca sanitaria e farmacologica che non punti al brevetto ma alla cura e al benessere delle persone.

L’informatica ha aperto la possibilità dell’esercizio di nuovi lavori e lavoretti, ma è divenuta un ulteriore strumento di profitto e sfruttamento in mano al comando capitalistico. Ne ha reso altri inutili grazie alla meccanizzazione e alla robotizzazione. Ancora una volta torna d’attualità il discorso sulla proprietà e la concentrazione dei mezzi di produzione.

Oggi c’è bisogno di coraggio, di non accontentarsi che ci paghino per stare chiusi in casa mentre in pochissimi vivono nel lusso in qualche isola tropicale preservata dal morbo. Ripensare il futuro, dunque, dentro la pratica di un contro-uso collettivo della tecnologia.

Questo però bisogna farlo oggi a partire dalla riduzione dei carichi e delle ore di lavoro, dalla rivendicazione di livelli salariali adeguati, dall’uso collettivo del potenziale dell’automazione, dalla spartizione equa del prodotto del lavoro. Rifiutare, in sintesi, il lavoro salariato e il comando capitalistico sulla produzione. C’è bisogno, come cantava Enzo del Re, di:

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo

chi è veloce si fa male e finisce in ospedale

in ospedale non c’è posto e si può morire presto.

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo

la salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo

pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento.

Sempre fuori dal motore, vivere a rallentatore.

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo

ti saluto ti saluto, ti saluto a pugno chiuso

nel mio pugno c’è la lotta contro la nocività

Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo!

Se così fosse, probabilmente oggi avremmo ancora con noi Adriano Urso, uno splendido pianista e non un cattivo rider riciclato per forza di cose. Avremmo con noi i tanti che si sono suicidati per disperazione. Avremmo un mondo forse più lento ma certamente più sereno e felice.

Redazione Malanova

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